Friday, November 27, 2020

Discrezionalità del Giudice

Cass. pen. n. 2350/1990 La determinazione della misura della pena è compito esclusivamente affidato alla prudente valutazione del giudice di merito. Trattandosi di una potestà interamente affidata alla discrezionalità, il controllo sulla corretta applicazione della legge può essere esercitato esclusivamente sulla motivazione che sorregge la decisione. Poiché è peraltro inesigibile, di fronte ad una gamma di discrezionalità tanto vasta quale quella affidata al giudice di merito dal combinato disposto degli artt. 132, 133 ed 81 del c.p., una motivazione che spieghi le ragioni delle differenze tra l'entità della pena concretamente prescelta ed un'altra di poco inferiore (o eventualmente superiore) l'obbligo della motivazione deve intendersi adempiuto tutte le volte che la scelta del giudice di merito venga a cadere su una pena che per la sua entità globale, non appare, sul piano della logica, manifestamente sproporzionata rispetto al fatto oggetto di sanzione. Quando poi il giudice di merito si discosti dai minimi edittali, e determini la pena entro i limiti segnati dall'art. 81 c.p. la discrezionalità diventa di tale ampiezza da assorbire anche le potestà di riduzione che la legge affida al giudice ai sensi dell'art. 62 bis c.p. In tali casi, poiché la «diminuzione della pena» può essere ottenuta per altre vie e con la utilizzazione di altri e diversi strumenti giuridici, non rimane spazio per l'applicazione delle attenuanti generiche, posto che queste ultime sono strumentali alla realizzazione di diminuzioni di pena non ottenibili con l'uso di poteri discrezionali previsti dagli artt. 132 e 133 c.p. (Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2350 del 19 febbraio 1990)

IL CTU

Ctu: la perizia errata comporta anche la responsabilita’ penale Una perizia errata non e' esente da addebiti derivanti da una specifica responsabilita' penale del ctu. Si parla di reclusione e interdizione dai pubblici uffici Ctu: la perizia errata comporta anche la responsabilita’ penale Continua la panoramica sulla responsabilità professionale del CTU. La responsabilità del Consulente Tecnico è delineata, in prima battuta dalle norme di diritto civile, tuttavia ciò non esclude una tutela anche in sede penale, grazie al richiamo, contenuto all’interno dell’art. 64 c.p.c, alle norme penalistiche. Poiché il CTU assume la funzione di Pubblico Ufficiale ai sensi dell’art. 357 c.p., in qualità di ausiliario del Giudice, può incorrere in una serie di reati direttamente collegati a tale ruolo: si pensi al peculato, alla corruzione, alla concussione e all’abuso di ufficio, nonché alla fattispecie specificatamente riferita alla figura dell’esperto dell’autorità prevista dall’art. 366 c.p. Tale ultima norma, infatti, punisce con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa da 30 euro fino a 516 euro il CT, nominato dal Giudice, che ottenga con mezzi fraudolenti l’esenzione dall’obbligo di comparire o prestare il suo ufficio o il perito che rifiuti di dare le proprie generalità, di prestare il giuramento richiesto o di assumere o di adempiere le proprie funzioni. Ancora, ai sensi dell’art. 314 del codice penale, il Consulente che si trovi in possesso di danaro o di altra cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione, qualora se ne appropri o ne disponga per uso proprio o altrui, è punibile con la reclusione da 3 a 10 anni e con l’interdizione dai pubblici uffici. Nei casi in cui la reclusione sia prevista per un tempo inferiore ai 3 anni, la condanna comporta l’interdizione temporanea. L’art. 373 c.p., riguardo falsa perizia o interpretazione, stabilisce invece la pena della reclusione da 2 a 6 anni per il perito che, nominato dall’autorità giudiziaria, dà pareri o interpretazioni mendaci o afferma fatti non conformi al vero. Il verbale redatto dal Consulente in qualità di Pubblico Ufficiale costituisce atto pubblico, anche riguardo ai fatti che il CTU asserisca essersi verificati in sua presenza, per cui nei suoi confronti si può procedere con querela di falso; tale istituto non è invece ammissibile per il contenuto della consulenza tecnica, la quale non fa pubblica fede delle affermazioni o contestazioni o giudizi in essa contenuti. L’art. 374 c.p., riguardo la frode processuale, punisce con la reclusione da 6 mesi a 3 anni il perito che, nell’esecuzione di una perizia, modifichi artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone su cui si deve svolgere la consulenza. Al Consulente Tecnico si applicano le disposizioni del codice penale riguardanti i periti, ma va ricordato che nel codice di procedura penale non vi è alcuna disposizione analoga al citato art. 64 c.p.c. Pertanto, la parte che abbia subito un concreto pregiudizio in conseguenza dell’operato dell’esperto in un processo penale, può far valere il diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., innanzi al Giudice competente per valore e territorio. Riguardo alla quantificazione del danno, normalmente esso comprende tutte le spese sostenute per l’adozione di provvedimenti ritenuti necessari in conseguenza di un errata consulenza, nonché le spese affrontate per dimostrare l’erroneità della consulenza d’ufficio. In relazione agli artt. 373 e 374 c.p., sono previste anche delle aggravanti oggettive (art. 375 c.p.): · la pena della reclusione da 3 a 8 anni se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non superiore a 5 anni; · la pena della reclusione da 4 a 12 anni se dal fatto deriva una condanna superiore a 5 anni; · la pena con reclusione da 6 a 20 anni se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo. L’art. 376 c.p., prevede poi la non punibilità per il colpevole che ritratti il falso e manifesti il vero non oltre la chiusura del dibattimento. Va sottolineato come al perito si possono applicare, pur in assenza di uno specifico richiamo, le norme incriminatrici relative al delitto di patrocinio o consulenza infedele (art. 380 c.p.), nonché quelle relative alle altre infedeltà del patrocinatore o Consulente Tecnico (art. 381 c.p.), le quali comunque presuppongono, quale elemento costitutivo del reato, la sussistenza di un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria. Un’analisi particolare meritano i vari casi di colpa grave da parte del CTU nell’esecuzione del mandato ricevuto. Questi sono regolati dall’art. 64 c.p.c., e si verificano quando: · il CTU smarrisce documenti originali e non più riproducibili dal contenuto dei fascicoli di parte; · il CTU perde o distrugge la cosa controversa o documenti affidatogli; · il CTU omette di eseguire accertamenti irripetibili; · il CTU non avvisa le parti sulla data d’inizio delle operazioni peritali provocando l’annullamento della consulenza su istanza di parte; · il CTU redige una consulenza non idonea o incompleta con conseguente innovazione della stessa; · il CTU assume l’incarico conferitogli dal Giudice pur non avendo un’adeguata e specifica conoscenza tecnica nel settore oggetto della consulenza richiesta e redige pertanto un elaborato viziato da errori. Il citato art. 64, comma 2, c.p.c., punisce il Consulente che commette tali fattispecie di reato con l’arresto fino ad 1 anno oppure con l’ammenda fino a 10.329 euro, oltre alla pena accessoria della sospensione dall’esercizio della professione da 15 giorni a 2 anni (art. 35 c.p.). Nell’ipotesi di colpa grave, come già detto, è dovuto anche il risarcimento dei danni indipendentemente dal fatto che sia applicata la pena pecuniaria. Infine, ai sensi dell’art. 377 c.p., chiunque prometta denaro o altra utilità a un Consulente per indurlo a una falsa perizia, è punibile, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata o sia accettata ma la falsità non sia commessa, con la pena di cui all’art. 373 c.p. (da 2 a 6 anni di reclusione) ridotta dalla metà ai due terzi e con l’interdizione dai pubblici uffici. LEGGI ANCHE: Il Ctu tra responsabilita’ e sanzioni disciplinari CTU: le regole della responsabilita’ civile e l’obbligo del risarcimento del danno Libera professionista esperta nel settore delle consulenze tecniche e delle valutazioni immobiliari, Pollastrini svolge attività per la pubblica giurisdizione, in ambito stragiudiziale e per gli istituti di credito. Conciliatore, è iscritta all’Organismo di mediazione interprofessionale Nazionale “Geo-C.a.m.” nel settore “edilizia-urbanistica”. Progetta e coordina corsi e seminari di studio ad elevata specializzazione tecnico-professionale per enti di formazione, associazioni e ordini professionali. Esperta nella gestione di finanziamenti per la formazione, erogati dal Fondo Sociale Europeo, con competenze certificate dalla Regione Marche secondo la Dgr 1071/05. E’autrice di pubblicazioni per riviste tecniche di settore. Un’opera che ripercorre il modus operandi che il professionista deve seguire in tutte le fasi della consulenza, partendo dalle fonti normative: Codice di Procedura Civile, altre norme codicistiche e di legge: dagli aspetti preliminari fino alla definizione dei compensi, con approfondimenti relativi al rito amministrativo e penale, alla responsabilità sia civile sia penale, alla gestione della privacy. Comprende il software “Ctu Gestione Ufficio”, che consente di gestire e ottimizzare al meglio l’attività funzionale di un qualunque studio tecnico adattandosi bene alle esigenze sia dei piccoli studi, sia di quelli più evoluti.

Tuesday, November 24, 2020

Parziale illegittimità Costituzionale

ART. 131 BIS C.P., PARZIALE ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE: BREVI RIFLESSIONI SUL RUOLO DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE Sommario: 1. Premesse – 2. Gli effetti sui giudicati di condanna, ruolo del giudice dell’esecuzione ed una trasversale necessità di limiti – 3. La comprensibile mitezza della Corte e i limitati poteri del giudice dell’esecuzione 1. Premesse La sentenza n. 156 Corte Cost., del 21 luglio 2020, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 131 bis c.p. recante la disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di reato. Brevemente, la vicenda prende spunto dalla censura della norma nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto al reato di ricettazione attenuata da particolare tenuità previsto dall’art. 648, secondo comma, c.p. . Come è noto, l’applicazione della disciplina dell’art. 131 bis suddetto, è subordinata alla previsione di un massimo edittale contenuto nella soglia di anni 5 di reclusione, tuttavia la norma non prevede un limite minimo di applicabilità. Così, spesso gli interpreti hanno dovuto confrontarsi con le aporie derivanti dalla impossibilità di applicare la particolare tenuità a fatti decisamente poco offensivi e puniti in maniera lieve dal legislatore, proprio perché il reato superava il massimo edittale previsto come limite, ma d’altra parte era caratterizzato da un minimo esiguo. Si tratta di quei casi, non rari, che sono stati definiti dal “compasso largo” tra la pena minima e massima, cioè caratterizzati da una sproporzionata distanza tra limiti estremi della cornice edittale. Già la Corte Costituzionale si era interessata del tema nel 2017 con la sentenza n. 207, rilevando l’anomalia della comminatoria per la ricettazione di particolare tenuità, reato che interessa lo stesso giudizio de quo, in ragione dell’inconsueta ampiezza dell’intervallo tra minimo e massimo di pena detentiva (da quindici giorni a sei anni di reclusione), della larga sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata (da due anni a otto anni), nonché dell’asimmetria scalare tra gli estremi del compasso, giacché mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme. Allo stesso modo, la suddetta pronuncia ha evidenziato che “se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione”, cioè una pena che, “secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività”: per ovviare all’incongruenza “oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità”[1]. “Per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui”, pur rigettando la questione, la medesima corte nel 2017 aveva invitato il legislatore ad occuparsi di una riforma del testo dell’art. 131 bis che tenesse conto anche del minimo edittale. Viceversa, il legislatore si è dimostrato sordo agli inviti della Corte Costituzionale la quale non ha potuto fare a meno, riscontrato il vizio di irragionevolezza della scelta legislativa e superando legittimamente i limiti del sindacato sulle scelte politico – legislative, di dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 131 bis c.p. . E lo ha fatto sottolineando che se il legislatore non ha previsto espressamente un limite minimo per la ricettazione attenuata e pertanto si applica il limite minimo di 15 giorni di reclusione, è evidente che nella scelta politico-criminale ha valutato tale illecito come dotato di una modesta entità offensiva. Pertanto risulta incongruo, illogico e irrazionale che ad una condotta che sia stata già identificata portatrice di una ridottissima capacità lesiva del bene giuridico tutelato, non possa applicarsi l’esimente in questione. Ebbene la Corte giunge, quindi, alla declaratoria di incostituzionalità della norma del 131 bis c.p., si badi bene, nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’esimente ai casi in cui non sia previsto un minimo edittale, e quindi esso si identifichi per legge nella misura di giorni 15 di reclusione. La sottolineatura è necessaria perché la Corte non ha sindacato e sanzionato la norma nella parte in cui non prevede un limite minimo, ritenendo incongrua la sua assenza, né, pare doversi ritenere, avrebbe potuto farlo in quanto, come già affermato solennemente nella sentenza di rigetto della questione del 2017, la individuazione delle soglie minime e massime di pena cui è subordinata l’operatività dell’esimente è certamente materia di competenza esclusiva del potere legislativo e sottratta ad un sindacato di legittimità costituzionale. Solo la manifesta irragionevolezza del quantum di pena può condurre ad un intervento del giudice delle leggi, caso che tuttavia non è riscontrato nelle sentenze di cui ci si occupa. Pertanto, restando ancorata alla vicenda del caso concreto, stabilisce l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede la possibilità di applicazione della stessa ai soli casi in cui non sia previsto un minimo edittale. La valutazione di irragionevolezza investe pertanto i soli casi limite del minimo edittale…minimo. La Corte interviene quindi sui casi al confine, quelli di eclatante ridotta offensività che tuttavia non vengono sottoposti all’applicazione potenziale del 131 bis c.p. perché relativi a reati aventi un minimo edittale che supera comunque i 5 anni di reclusione. Ad ogni modo, le critiche che erano state rivolte alle teorie che ritenevano e ritengono incongrua l’assenza di un limite minimo, erano basate sulla considerazione che l’istituto della suddetta causa di non punibilità è volto ad accertare un fatto sì offensivo ma non bisognoso di pena, sulla base degli indici e dei requisiti che lo stesso art. 131 bis c.p. prevede. Pertanto, deve ritenersi destinato a garantire un particolare vantaggio nei confronti dei soggetti resisi autori di reati che prevedono una pena comunque vicina al massimo di anni 5 di reclusione, sottraendoli ad una pena detentiva comunque gravosa in virtù di requisiti che dimostrino l’assenza di un effettivo bisogno di pena. Il reato viene considerato, in questi casi, un mero incidente di percorso sulla strada dell’attore, che non necessita di attività di risocializzazione o della concretizzazione di finalità generalpreventive o specialpreventive. D’altra parte, nel caso di pene di modesta o modestissima entità, la necessità dell’istituto perde quasi valore. Lì dove la pena minima sia di giorni 15, infatti, tra l’esecuzione della pena e l’applicazione della causa di non punibilità non vi è una differenza così netta e determinante come sarebbe quella tra lo scontare anni di reclusione a fronte della assenza di ogni punizione. Altri hanno, al contrario, ritenuto che proprio lì dove il trattamento sanzionatorio sia minimo, ed in questo senso si esprime la sentenza qui in commento, sia più necessario evitare al reo l’ingresso nel contesto carcerario, seppur per un breve periodo. Ma tant’è e, allo stato, non può che prendersi atto che il 131 bis c.p. si applicherà anche ai reati che superino la soglia dei 5 anni di reclusione nel massimo ma che, in virtù dell’ampio compasso di cui più sopra, abbiano un minimo sanzionatorio indeterminato ed innominato e pertanto siano investite dalla previsione legale del minimo di 15 giorni di reclusione previsto per i delitti. 2. Gli effetti sui giudicati di condanna, ruolo del giudice dell’esecuzione ed una trasversale necessità di limiti Immediatamente dopo il deposito del dispositivo della sentenza si è posto il problema della sorte dei giudicati già intervenuti e basati sulla norma ormai incostituzionale. Per addivenire ad una disamina consapevole e precisa del tema è necessario procedere ad una serie di annotazioni preliminari che involgono tematiche non solo complesse ma oggetto di costante dibattito ed evoluzione. Il primo principio cardine in materia è certamente da individuare nella intangibilità dei rapporti giuridici già esauriti e quindi, nella specie, nella incontrovertibilità delle pene ormai definitivamente scontate al momento in cui perviene la dichiarazione di incostituzionalità. In tali casi, è ovvio, l’esigenza di evitare la inflizione di una condanna, per così dire, incostituzionale viene meno. Viceversa, ove sia maturato il giudicato e la pena sia ancora in esecuzione, il procedimento deve considerarsi ancora sub iudice e perciò l’autorità giudiziaria dell’esecuzione è abilitata ad intervenire per rimuovere le conseguenze comminatorie di condanna derivanti da una norma incostituzionale, oppure ad adottare il trattamento sanzionatorio più mite adatto al caso di specie[2]. Come vedremo, tuttavia, a seconda di come si intenda questo assunto, i risvolti in termini di ampiezza del sindacato del giudice dell’esecuzione mutano con effetti sostanziali soprattutto nel diverso campo delle pronunce in contrasto con le sentenze Cedu. Per il momento, ci si può limitare ad aggiungere che è evidente che tale intervento possa avere un senso soltanto ove le conseguenze dell’incostituzionalità siano in bonam partem e, in via di principio, che ulteriore limite è che quello di esecuzione non si trasformi in un aggiuntivo e non previsto grado di giudizio. Quanto agli effetti in bonam partem, essi devono ritenersi certamente gli unici utili alla tutela dei principi di legalità che ispirano anche la L. 87 del 1953 la quale disciplina la costituzione ed il funzionamento della Corte Costituzionale. Ebbene, dalla disciplina di questa norma emerge la tensione tra la natura ricognitiva della dichiarazione di incostituzionalità, che era esistente dal momento della emanazione della norma o a partire dall’intervenuto conflitto con altre fonti sovraordinate, con il principio dell’affidamento del singolo sulla norma che ha ritenuto valida nel momento in cui si è prefigurato le conseguenze della sua condotta. La norma incostituzionale è considerata come mai esistita nell’ordinamento, eppure produce degli affidamenti legittimi di cui bisogna tener conto. Ciò brevemente detto, la giurisprudenza ha ampiamente arato il campo dei poteri del giudice dell’esecuzione senza mai poter pervenire, in assenza di una disciplina legislativa puntuale, ad una precisa individuazione dei limiti che tale organo incontra. Nella specie, infatti, l’art. 673 c.p.p. si interessa del caso, probabilmente più semplice, in cui a venir dichiarata incostituzionale sia la norma incriminatrice. Non si ritiene applicabile lo stesso articolo al caso in cui a subire la pronuncia di incostituzionalità sia una norma che ne regola le conseguenze in termini di punibilità. Si è ritenuto strumento utile a tali fini, l’art. 670 c.p.p.[3] che fa riferimento al titolo esecutivo mancante, tale potendo essere considerata anche la sentenza che prende le mosse da una norma dichiarata inesistente nell’ordinamento ab origine a causa della sua incostituzionalità. Ciò in combinato disposto con l’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953 il quale fa riferimento alla “norma”, dichiarata incostituzionale, in applicazione della quale una condanna penale è stata pronunciata. Il generico riferimento deve ritenersi rivolto non solo alle norme incriminatrici, ma anche a quelle incidenti sul trattamento sanzionatorio, da cui consegue che pure la dichiarazione di illegittimità di queste ultime possa riverberarsi post-iudicatum, determinando la cessazione dell’esecuzione della quota di pena inflitta in applicazione della norma illegittima.[4] L’approccio che spesso risulta all’origine della fallacia in materia e che ha sovente determinato un ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione, giungendo all’obiettivo meritorio attraverso una strada probabilmente non percorribile, trova la sua fonte nella concezione che l’attività del giudice dell’incidente di esecuzione debba confrontarsi direttamente con la regola della legge sanzionatoria e debba subire le sue vicende, consentendo una nuova applicazione o disapplicazione del suo dettato inciso dalla pronuncia di illegittimità costituzionale. Questo orientamento, sostenuto eminentemente dalla Suprema Corte, trova compiuta origine nell’assunto che tale attività di rimaneggiamento del giudicato sia espressione di un principio che attiene alla fisiologia del ruolo del giudice finché la questione rimanga sub iudice[5]. Piuttosto, sembra più corretto evidenziare che in materia interviene il fondamentale principio della intangibilità del giudicato e che tale possibilità di incisione del decisum con valore di giudicato risulti essere una circoscritta eccezione a detto principio, proprio in virtù della forza dirompente che deriva dal giudicato costituzionale e dei valori fondamentali che esso tutela. Il giudice dell’esecuzione deve confrontarsi con la regola del caso concreto, con la sentenza emanata, ed emendare quella soltanto. E’ il comando del caso specifico che si sostanzia nel giudicato, quindi nella concreta applicazione della norma incostituzionale, a dover subire l’intervento del giudice dell’esecuzione che deve quindi prendere atto del venir meno delle porzioni di sentenza che si basano sulla norma incostituzionale. Tanto tale processo non appartiene alla fisiologia dell’attività giudiziaria bensì al rimedio del patologico, che è solo e soltanto in virtù della speciale previsione dell’art. 30, comma 4 della summenzionata norma, che il giudicato può subire un intervento, sia esso totalmente caducatorio o modificativo, che deve ritenersi eccezionale. Come ha brillantemente evidenziato un autore[6], la distinzione ed il trapasso dalla norma alla regola applicata in sentenza è ben evidenziato dai tempi verbali utilizzati nell’articolo citato della norma del 1953. Infatti, essa specifica che quando è stata pronunciata sentenza di condanna in applicazione della norma dichiarata illegittima ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali: si opera una piana distinzione tra il momento passato dell’applicazione della norma e quello presente in cui il giudice dell’esecuzione non può fare altro che riscontrare la caducazione degli effetti penali. E non potrebbe farlo, si ritiene, ove mancasse la disposizione dell’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953. Precisare ciò è di basilare importanza non solo per i riflessi che tale tesi potrebbe produrre sulla ampiezza dei poteri del giudice dell’esecuzione[7], ma soprattutto nello scongiurare il disinvolto e fisiologico utilizzo dell’incidente di esecuzione per reagire alle sentenze della Corte Edu[8] nei casi dei c.d. fratelli minori, così come si è paventato nel caso Scoppola-Ercolano[9] e, più recentemente, per c.d. i fratelli minori del caso Contrada. Ebbene, i casi più eclatanti hanno riguardato, tra le altre, la materia degli stupefacenti[10] rispetto alla quale però, per inciso, non si era verificato un vuoto di tutela come esito del fenomeno di declaratoria di incostituzionalità della Legge Fini – Giovanardi (vuoto che caratterizza il caso di specie), bensì una riespansione della disciplina previgente dopo la pronuncia della Corte Costituzionale che sanzionava la equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti. Ad ogni modo, l’intervento del giudice dell’esecuzione è stato ritenuto idoneo ad utilizzare tutti i poteri cognitivi utili a superare l’applicazione della norma incostituzionale ed a rimodulare il trattamento sanzionatorio per ricondurlo a legalità[11], compresa l’applicazione delle pene accessorie. Ciò concettualmente in controtendenza con una più risalente tesi che riteneva l’intervento del giudice dell’esecuzione legittimo solamente se “a rime obbligate” cioè solo ove la decisione, anche additiva, fosse meramente dichiarativa di quanto già prescritto dalla norma come derivante dall’emenda della Corte Costituzionale, quasi che potesse dar luogo solo ad una mera operazione matematica di sostituzione della pena “vecchia” con quella “nuova”. La regola generale che investe l’operato del giudice dell’esecuzione e si erge a baluardo insuperabile si sostanzia nella prescrizione che esso non possa porsi in contrasto col dictum del giudice della cognizione, proprio per evitare che l’incidente di esecuzione si sostanzi in una forma larvata di un nuovo grado di giudizio, una non prevista impugnazione straordinaria. Pertanto il giudice dell’esecuzione non potrà mai controvertere quanto deciso dal giudice della cognizione, anche se soltanto la questione sia stata assorbita, quindi non oggetto di espressa pronuncia del giudice, ma viceversa abbia fatto parte degli elementi sottoposti a valutazione e su di essa sia calato il giudicato. Infatti, lo strumento dell’art. 670 c.p.p. è stato spesso utilizzato per rimuovere gli effetti di una sentenza che condanni ad una pena illegale solo ove essa sia conseguenza di una mera “svista” o dimenticanza percettiva e non di un errore di valutazione che solo tramite i rimedi tipici di impugnazione potrebbe essere contestato. Al contrario, nel caso di pronuncia incostituzionale, al giudice dell’esecuzione è affidato un ruolo di cognizione più ampio che riguarda anche il decisum del giudice della cognizione. Ciò in quanto quest’ultimo era basato sulla norma dichiarata incostituzionale e quindi definitivamente esclusa ex tunc dall’ordinamento giuridico. Si crea un vuoto che il giudice dell’esecuzione dovrà colmare con la sua attività che, come hanno evidenziato le SS.UU. Gatto, ha un ampio margine di operatività e comprende, come detto, anche la inflizione di pene accessorie. Allo stesso modo lo strumento dell’incidente di esecuzione è stato utilizzato, o se ne è paventato l’uso, per rimuovere le contraddizioni derivanti dal conflitto con una sentenza della Corte EDU. Proprio in questa materia, per breve inciso, si acuiscono le difficoltà derivanti da una normativa poco esplicita sul ruolo del giudice dell’esecuzione lì dove rimangono ancora fumosi i confini con la revisione “europea”. Pertanto negli ultimi decenni, più che in tempi passati, si è proposto il tema della esatta collocazione dei vari poteri all’interno della vicenda processuale, materia che sembra necessitare di un intervento che chiarisca limiti e confini, non solo per le vicende che coinvolgono autorità giudiziarie sovranazionali ma anche per quelle tutte nostrane in cui è la Corte Costituzionale ad incidere sulla norma penale. 3. La comprensibile mitezza della Corte e i limitati poteri del giudice dell’esecuzione In questo contesto si inserisce la questione de quo, e pur senza prendere posizione sulla teoria ormai prevalente in giurisprudenza che impone una lettura ampia dei poteri del giudice dell’esecuzione, si pongono dei dubbi che appaiono essere fondati. Ebbene, in primo luogo bisogna sottolineare che probabilmente l’intervento del Giudice delle Leggi non basta, o meglio non soddisfa appieno le necessità di ragionevolezza del sistema giuridico. Infatti, esso parte dall’assunto che lì dove il giudice non preveda espressamente il minimo di pena per il reato, individui quella situazione come di offensività così esigua da non necessitare quasi menzione o disciplina. L’obiezione più basilare è che situazione non sostanzialmente dissimile è quella dei reati che prevedono una pena minima di poco differente, quale quella di 30 giorni o di due mesi o così via. Anche in quei casi, seppur non operi l’automatismo dei 15 giorni, il legislatore ritiene la condotta potenzialmente portatrice di una offensività minima. Si tratta sempre di reclusione tipica dei delitti e di un trattamento di privazione della libertà scontato nelle strutture carcerarie e una differenza di pochi giorni non sembra poter giustificare una diversa intenzione o una differente valutazione. Quindi sembra che la Corte si sia limitata alla prudenza nella sua declaratoria, limitandosi a censurare le manchevolezze del 131 bis in relazione al reato oggetto della questione dinanzi ad essa sollevata. Ben avrebbe potuto sindacare, sempre sulla base della irragionevolezza, la generale mancanza di un limite minimo nell’art. 131 bis. L’approccio rimane morbido e mite, e forse non avrebbe potuto essere altrimenti, come detto, per non contraddire la precedente pronuncia del 2017 e non arrogarsi poteri di politica legislativa, ma anche e soprattutto per non produrre necessità di ritornare su tutti i giudicati ancora in esecuzione che potenzialmente avrebbero potuto godere di una pronuncia di lieve entità. Probabilmente una strada ulteriore poteva essere quella di dichiarare l’incostituzionalità dell’intero articolo 131 bis, che non avrebbe prodotto alcun nocumento ai soggetti che sono stati già destinatari di una pronuncia in tal senso, in quanto la decisione della Corte sarebbe stata in malam partem. Tuttavia ciò avrebbe privato dello strumento tutti i soggetti che nell’intervallo tra la declaratoria di incostituzionalità e la possibile emenda del legislatore, chiamato ad introdurre un nuovo 131 bis, avessero scontato interamente la pena. Ciò avrebbe creato dei vuoti di tutela che sarebbero stati probabilmente tacciati come produttivi di una ingiustificata disparità di trattamento. Ulteriore strumento di dialogo avrebbe potuto essere quello di un rinvio a tempo, come quello adottato nella vicenda Cappato, che, seppur non incidente su beni di così alto rango, ben avrebbe potuto rappresentare l’ultima chance data al legislatore prima di un intervento più penetrante del Giudice delle Leggi. Inoltre, non può risolversi in maniera semplicistica la questione dell’attività del giudice dell’esecuzione. Qualunque siano i suoi poteri ed al netto della diatriba su questi, qualcuno di coloro che ritengono una accezione ampia degli stessi, sarebbe certamente spinto ad individuare nella mera rivalutazione quella che deve essere l’attività del giudice dell’esecuzione, chiamato quindi a decidere se ci siano o meno i presupposti per la non punibilità. Ebbene, così non sembra poter essere, o almeno non pare potersi affermare ciò in via assoluta, proprio a causa della sovrapposizione necessaria tra la valutazione dei requisiti dell’art. 131 bis c.p. e quella già operata dal giudice della cognizione ex art. 133 c.p. che si riscontrerebbe in tal caso. Come sopra anticipato, infatti, l’unico limite certo ed incontrovertibilmente individuato, anche dalla giurisprudenza più ampliativa che si è occupata della materia, è certamente quello di non sovrapposizione di tali giudizi al fine di evitare la moltiplicazione di gradi di giudizio non previsti dal codice di procedura. Il giudice dell’esecuzione non potrà, infatti, ritornare su questioni già oggetto della cognizione. Potrà farlo solo ove tali valutazioni cadano come effetto della declaratoria di incostituzionalità della norma che le sostiene. Nel caso di specie, l’incostituzionalità ha coinvolto soltanto l’art. 131 bis nella parte in cui non è consentita la sua applicazione ai casi di minimo edittale di 15 giorni di reclusione e di certo non le norme che impongono la valutazione del comportamento del reo ex art. 133 c.p., valutazione che ha già operato il giudice della cognizione, e che dovrebbe compiere anche il giudice dell’esecuzione per verificare i requisiti del 131 bis. Tanto tale comunanza degli oggetti della ponderazione è effettivamente esistente, che tale ultima norma menziona lo stesso art. 133 c.p., sottolineando pertanto che quella del 131 bis c.p. è una valutazione complessiva che tiene conto, ai fini della qualificazione della condotta come di particolare tenuità e non abituale, delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, profili da considerare già ai sensi dell’articolo 133, primo comma c.p. . E’ evidente che lo spazio di operatività del giudice dell’esecuzione sarà compresso dalle valutazioni comunque compiute dal giudice della cognizione ai sensi del 133 c.p. per la quantificazione della pena. Quest’ultimo è sempre chiamato a valutare la gravità del reato e la capacità a delinquere, quindi certamente quelle modalità della condotta da considerare ai fini del 131 bis e che sono un indice sia della gravità del reato (art. 133, comma 1, n. 1), sia della capacità a delinquere (art. 133, comma 2, n.3). A meno che non si sia effettivamente stabilita nel giudicato di condanna la pena minima di giorni 15, quale limite invalicabile oltre il quale il giudice non può discendere e quale espressione del riconoscimento della sostanziale esiguità dell’offesa arrecata dalla condotta criminosa al bene giuridico, sarà oltremodo complesso ritenere che il giudice della cognizione non abbia già considerato il fatto come di una gravità non lieve e soprattutto addurre la giustificazione di una tale affermazione. A meno, inoltre, di specifico riconoscimento nel giudicato della sostanziale lieve gravità del reato, rispetto al quale il giudice dimostra di non poter fare altro che applicare la pena minima, in assenza della possibilità di applicare il 131 bis nella vigenza della sua versione ancora non destinataria della pronuncia di incostituzionalità, si ritiene molto complesso accordare al g.e. la possibilità di tornare sulla questione e determinarsi nel senso della non punibilità. Tale difficoltà di coordinamento discende, lo si ripete, dalla natura del giudizio richiesto per l’applicazione del 131 bis. Anche la collocazione topografica all’interno del codice non è casuale e impone la qualificazione di esso come di un giudizio complessivo che si affianca a quello necessario per la quantificazione della pena. Essendo un giudizio complessivo, nasce per essere compiuto nella sede di cognizione lì dove il giudice ha a disposizione il più ampio spazio di manovra per la valutazione totale della condotta per come caratterizzata nelle sue molteplici sfaccettature. E’ evidente che il g.e., per quanto ampi siano i suoi poteri, non avrà mai la stessa possibilità di valutare la vicenda nel suo complesso, ma si troverà sempre a risolvere a valle delle incongruenze o delle sopravvenienze che provengono da monte. Colmerà il vuoto, o tapperà la falla, per come potrà, ma in virtù di quanto evidenziato, devono ritenersi decisamente angusti gli spazi operativi ad esso riservati a seguito della declaratoria di incostituzionalità de quo. Sarà sempre oltremodo complesso, a fronte di una pena anche esigua o mite, poter operare un giudizio che incide su spazi già colmati dalla fase di cognizione. Anche se ad altri fini, la condotta è già stata oggetto di valutazione e la compatibilità di quest’ultima con un giudizio che individui la lieve entità del fatto è tutt’altro che scontata. Il g.e. sarà obbligato a confrontarsi con la sentenza passata in giudicato e da questa dovrà trarre gli elementi che giustifichino il suo ulteriore intervento. Quantomeno dovranno riscontrarsi, in tale dettato, degli indici da cui si possa esplicitamente o implicitamente desumere quantomeno che il giudice della cognizione non abbia giudicato come sostanzialmente non lieve il fatto. E ciò è sicuramente complesso in quanto lì dove il giudice della cognizione sa di non poter operare con il 131 bis, e quindi se pure le parti lo domandano la questione è risolta facendo valere la ragione più liquida della inammissibilità, certamente non indugerà sui profili che potrebbero condurre all’applicazione potenziale della causa di non punibilità. Le maggiori difficoltà e le maggiori incertezze si avranno lì dove il g.e. rinvenga nell’implicito della sentenza le ragioni che gli consentono di esercitare il proprio potere decisorio ai fini del 131 bis. Se certamente la condanna, nell’assenza della possibilità di utilizzare il 131 bis, non può essere considerata un indice di incompatibilità con la lieve entità, perché quello lieve è comunque un fatto antigiuridico ed offensivo seppure ritenuto non punibile per ragioni di opportunità criminologica, sarà arduo individuare viceversa delle valide ragioni di compatibilità lì dove la condanna si erga, anche di poco, dalla base del minimo edittale. E’ complesso desumere da una condanna, dalle valutazioni sulla condotta operate per determinare il quantum di pena e soprattutto dal non detto della sentenza, che il giudice della cognizione non abbia valutato come non lieve il fatto, in modo tale che, ove fosse stato possibile applicare il 131 bis al caso di specie, avrebbe potenzialmente potuto scegliere tale opzione. Quella che appariva una semplice conseguenza della declaratoria di incostituzionalità, sembra essere un difficile banco di prova della compatibilità del giudizio complessivo di cui al 131 bis con una fase che pare non addirsi del tutto ad esso. Per concludere ed in sintesi, quello composto dal 131 bis e del 133 c.p. è un binomio dai legami saldi che difficilmente consente al g.e. di penetrare nelle strette intersezioni dei suoi nodi. [12] Quello sulla particolare tenuità del fatto è un giudizio che assorbe valutazioni oggettive e soggettivo – personologiche tipiche di una visione complessiva della vicenda, le medesime che vengono compiute per la quantificazione della pena ex art. 133 c.p. E’ inoltre una valutazione che è quanto di più lontano dalle “rime obbligate” di cui più sopra si è dato conto e che rappresentavano un confine, ormai antico e ampiamente valicato, dell’attività del g.e. ma che comunque incontra o incespica, a quanto pare, nel suo limen attuale seppur individuato con grossolana certezza, o incertezza, in ragione della persistente fumosità dell’orizzonte giuridico in materia. Si tratta di giudicare considerando il passato, il presente e la prognosi sul futuro del reo, attività che risulta complessa da operare nella sede dell’esecuzione. Una parziale giustificazione ai dubbi che si pongono sulla applicabilità del 131 bis in tale sede è ulteriormente fornita dalla disciplina del 620 c.p.p., cioè della cassazione della sentenza senza rinvio. Quando si è posto il problema se fosse possibile per la Corte di Cassazione applicare direttamente il 131 bis c.p. ex art. 620 c.p.p. lett. I) , cioè in quei casi in cui si “ritenga superfluo il rinvio, ovvero può essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari”, una parte della giurisprudenza ha risposto in modo affermativo ma con dei limiti. Una pronuncia[13] ammette l’utilizzo della causa di non punibilità de quo “quando risulti palese, nella sentenza impugnata, la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi” che giustifichino appunto l’utilizzo del 131 bis. Se comunque non si ignorano le differenze sostanziali in termini di accesso al fatto ed alla prova che connotano il giudizio di Cassazione e quello di esecuzione, ebbene, l’utilizzo della causa di non punibilità, in una sede che latamente potrebbe essere comparata con quella dell’esecuzione per il ridotto spazio di manovra concesso al giudice, è subordinata al fatto che sia “palese” la lieve entità del fatto. Sebbene anche la definizione di un tale termine e la sua concreta espressione nel linguaggio tecnico giuridico ponga non poche difficoltà, ciò è comunque prova non solo della sostanziale residualità casistica di una pronuncia di tal fatta, ma soprattutto che un sindacato come quello del 131 bis non può essere generalmente operato ex abrupto in un contesto che non sia dotato delle caratteristiche per contenerlo e sostenerlo. Salve le dovute eccezioni che si ritiene debbano intendersi, come più sopra chiarito, nel caso di una sentenza più che “loquace” sul punto di lieve entità o in una pronuncia che comunque non superi il minimo del minimo edittale previsto per legge per i delitti. [1] Dal testo della sent. 156 Corte Cost., del 21 luglio 2020 che a sua volta richiama in più punti il dictum della sentenza n. 207 del 2017 del medesimo consesso. [2] BontempellI, La resistenza del giudicato alla violazione del principio di legalità penale, in Rev. bras. der. proc. pen., 2018, n. 4, 1059 s.; Centorame, La cognizione penale in fase esecutiva, Torino, 2018, 77. [3] Corbi- Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, 223; Caprioli- Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, 264. [4] Lavarini L’incidente di esecuzione a rimedio della pena e della condanna illegale: tra riforme “pretorie” e mancate riforme legislative, in Archivio Penale, n. 3/2019; Caprioli, Il giudice e la legge processuale: il paradigma rovesciato, in Ind. pen., 2017, n. 3 (Appendice), 967 [5] Vigoni, Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, in Proc. pen. giust., 2015, n. 4, 8; Gambardella, Norme incostituzionali e giudicato penale: quando la bilancia pende tutta da una parte, in Cass. pen., 2015, 82 ss; Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, in Dir. pen. cont. (Riv. trim.), 2015, n. 1, 32 s.; Vicoli, L’illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria travolge il giudicato: le nuove frontiere della fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni unite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1006 ss [6] B. Lavarini, I rimedi post iudicatum alla violazione dei canoni europei, in I principi europei del processo penale, a cura di Gaito, Roma, 2016, p. 112. [7] Caprioli, Giudicato e illegalità della pena: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale, in Bargis (a cura di), Studi in ricordo di Maria Gabriella Aimonetto, Milano, 2103, 286 ss [8] Randazzo, Interpretazione delle sentenze della Corte europea dei diritti ai fini dell’esecuzione (giudiziaria) e interpretazione della sua giurisprudenza ai fini dell’applicazione della CEDU, in Rivista AIC, 2015, n. 2, 7. [9] Esposito, Il divenire dei giudici tra diritto convenzionale e diritto nazionale, in Archivio Penale 2018, 39 ss. [10] Lavarini, Incostituzionalità della disciplina penale in materia di stupefacenti e ricadute ante e post iudicatum, in Giur. cost., 2014, 1907. [11] Sentenza Gatto, Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in Cass. pen., 2015, p. 41, con nota di M. Gambardella,op. cit.; Si veda altresì G. Romeo, Le Sezioni Unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di una pena “incostituzionale”, in Dir. pen. contemp., 17 ottobre 2014. [12] Così come ha eminentemente evidenziato Cass., SS.UU., 25 febbraio 2016, n. 13682 [13] Cass., sez. pen. VI, 16 settembre 2015, n. 45073; si veda anche Cass., sez. pen. V, 7 ottobre 2015, n. 48020 secondo la quale è comunque un’ipotesi eccezionale quella che vede la cassazione senza rinvio della sentenza con applicazione del 131 bis a casi in cui appaia certa ed incontrovertibile l’esistenza dei presupposti richiesti dalla norma. consulenza_per_privati_e_aziende consulenza_per_avvocati Scopri le nostre soluzioni professionali per il web marketing e la comunicazione Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica Ideatore, Coordinatore e Capo redazione Avv. Giacomo Romano Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775 Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it POSTED 1 DAY AGO / ATTO INESISTENTE, FALSITÀ IDEOLOGICA, FALSITÀ MATERIALE, FEDE PUBBLICA LEGGI 0

Monday, November 23, 2020

Giudicato

04 luglio 2016 | Camilla Mostardini visualizza allegato SULLA POSSIBILITÀ DI REVOCARE PER SOPRAVVENUTA ABOLITIO CRIMINIS LE SENTENZE DI PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO PASSATE IN GIUDICATO Trib. Enna, ord. 22 giugno 2016, Giud. Minnella 1. L'ordinanza in commento revoca per sopravvenuta abolitio criminis, sulla base di una interpretazione analogica dell'art. 673 c.p.p., una sentenza dichiarativa della non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p., fornendo così un primo significativo riscontro giurisprudenziale alla tesi della natura non pienamente assolutoria di questo tipo di sentenze, che ppresuppongono una almeno implicita affermazione della colpevolezza dell'imputato. 2. I fatti prendono avvio da una sentenza di non punibilità emessa a norma dell'art. 131 bis nei confronti di un soggetto imputato del reato di cui all'art. 2 comma 1 bis l. 638/1983. Nel caso di specie, l'omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali per un valore pari a 94,94 euro era stato ritenuto dal giudice di particolare tenuità. Successivamente, il d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8 interveniva con effetto di parziale abolitio criminis rispetto alla norma penale in questione: l'omesso versamento continua a risultare penalmente perseguibile solo qualora superi la soglia dei diecimila euro; tutte le ipotesi quantitativamente sottostanti, invece, risultano oggi sanzionabili solo amministrativamente. Alla luce di questa novità normativa, la difesa dell'imputato proponeva davanti al giudice dell'esecuzione istanza di revoca della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, passata ormai in giudicato, invocando l'art. 673 del codice di rito. 3. Il giudice ritiene fondata l'istanza, sulla base dei seguenti argomenti. Anzitutto, l'ordinanza precisa che anche la depenalizzazione comporta un'abrogazione del reato, tale da consentire la revoca del giudicato ex art. 673 c.p.p., dal momento che il giudice dell'esecuzione sarà tenuto a dichiarare che il fatto non è - più - previsto dalle legge come reato[1]. In verità, un ostacolo alla possibilità di applicare nel caso di specie la revoca del giudicato sembrerebbe derivare dal tenore letterale dello stesso art. 673 c.p.p., che parrebbe confinare la possibilità di revoca, nel primo comma, alla "sentenza di condanna" e al "decreto penale", e nel secondo comma; alla "sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di punibilità". Occorre dunque stabilire se la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ex art 131 bis c.p. possa o meno essere ricondotta entro l'alveo applicativo dall'art. 673 c.p.p. 4. L'ordinanza osserva preliminarmente come l'art. 673 c.p.p., in quanto espressione del principio nullum crimen, nulla poena sine lege - sancito dall'art. 25, comma 2 della nostra Costituzione e dall'art. 7 della CEDU - consenta di superare l'intangibilità del giudicato ogni qual volta il venir meno della premessa maggiore (la fattispecie incriminatrice) renda "doveroso rimuovere anche la conclusione del sillogismo giuridico basato su quella premessa (sentenza di condanna)". In questo senso, la revoca di cui all'art. 673 c.p.p. permette di adeguare, di volta in volta, l'esecuzione del comando originario, divenuta iniqua per l'intervenuto mutamento del diritto, alle nuove esigenze di giustizia sopravvenute, assicurando così il rispetto non solo del principio di legalità, ma anche di quello di meritevolezza/proporzionalità della pena. Ora, osservando l'ambito applicativo delineato dalla norma in esame, risulta evidente come la possibilità di revoca non sia limitata alle sole sentenze di condanna di cui all'art. 533 c.p., ma sia estesa più in generale a quelle tipologie di pronunce che finiscono comunque per produrre effetti pregiudizievoli a carico dell'imputato - è questo il caso delle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato o difetto di imputabilità, espressamente indicate dal comma secondo dell'art. 673. Non sembra quindi difficile individuare la ratio che sta alla base della revoca in esame: il legislatore ha inteso concedere all'imputato la possibilità di vedere eliminata ogni conseguenza a lui più o meno sfavorevole derivante dal provvedimento divenuto ormai, lato sensu, ingiusto - e privo di fondamento normativo -, sì da ottenere una piena riaffermazione della propria innocenza. Ed allora, quanto alla declaratoria ex art 131 bis, l'ordinanza osserva come non sembra possa affermarsene il carattere pienamente assolutorio. Con questa causa di esclusione di punibilità di recente introduzione, il legislatore ha dato effettiva attuazione ai principi di sussidiarietà e proporzione del diritto penale, ritenendo inopportuna la repressione penale di fatti sì tipici, ma produttivi di un disvalore di entità talmente lieve da rendere sproporzionata l'eventuale applicazione di una pena; al tempo stesso, l'istituto in esame presenta indubbia natura deflattiva, tale da consentire un significativo alleggerimento di quei carichi processuali che - inutilmente - ingolfano il sistema penale. Invero, proprio la natura di causa di non punibilità dell'art. 131 bis risulta indicativa del fatto che, anche nelle ipotesi suscettibili della declaratoria di particolare tenuità, si ha comunque a che fare con la commissione di un fatto di reato completo di tutti i suoi elementi: e dunque di un fatto tipico, e, al tempo stesso, colpevolmente commesso dall'imputato; mentre il proscioglimento che ne deriva nasce dalla sola rinuncia alla pena compiuta dal legislatore, proprio in ossequio ai principio che confina il ricorso alla sanzione penale all'extrema ratio. L'ordinanza rileva poi come questa conclusione trovi riscontro normativo nell'art. 651 bis c.p.p., introdotto insieme all'art. 131 bis dallo stesso d.lgs. 28/2015, ove si afferma che anche la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto "ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso" in ambito civile o amministrativo. Ancora, la natura in un certo modo pregiudizievole per l'imputato della sentenza di proscioglimento ex art 131 bis viene ulteriormente avvalorata attraverso il richiamo ad una recentissima pronuncia della Cassazione, che ha ritenuto prevalente sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, dal momento che, mentre quest'ultima estingue ontologicamente il reato, la prima "lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica"[2]. Dall'implicita affermazione di colpevolezza dell'imputato prosciolto, perché ritenuto non punibile per la particolare tenuità dell'offesa cagionata, derivano dunque conseguenze sfavorevoli per lo stesso. E ciò non solo per quanto visto circa l'efficacia dell'accertamento in sede civile o amministrativa, ma anche in termini di iscrizione del casellario giudiziale: secondo quanto disposto dall'art. 3, comma 1, lettera f) del d.P.R. 313/2002, così come modificato dal d.lgs. 28/2015, le sentenze di proscioglimento per particolare tenuità del fatto devono essere comunque iscritte nel casellario giudiziale - disposizione, quest'ultima, volta a precostituire gli strumenti per poter compiere il giudizio di non abitualità del comportamento, in caso di un'eventuale, nuova commissione di un fatto di reato del quale si discuta la possibile applicazione dell'art. 131 bis. L'ordinanza fonda poi la ritenuta possibilità di revocare le sentenze emesse ex art 131 bis sull'ulteriore argomento che, diversamente operando, verrebbe leso il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. Nell'ipotesi in esame, infatti, sorgerebbe un'evidente disparità di trattamento tra chi, avendo omesso versamenti per cifre fino a 9.999,99 euro, potrebbe beneficiare della revoca della condanna passata in giudicato, mentre dovrebbe continuare a soffrire degli effetti pregiudizievoli scaturenti dalla "assoluzione" ex art 131 bis chi abbia posto in essere omissioni pari a poche decine di euro. Tutto ciò premesso, ritiene il giudice che non vi sia necessità di investire la Corte Costituzionale per annoverare tra le sentenze suscettibili di revoca ex art. 673 c.p.p. anche le declaratorie di non punibilità per particolare tenuità del fatto, dal momento che ad un simile risultato può pervenirsi ricorrendo all'interpretazione analogica dello stesso art. 673 c.p.p. Né, così facendo, si incorre in una violazione dell'art. 14 delle preleggi, posto che l'estensione analogica opera qui in bonam partem. Il giudice passa in effetti in rassegna tutti i presupposti dell'analogia, in modo da dimostrarne la sussistenza nel caso concreto. Anzitutto, ritiene pacifica la presenza di una lacuna normativa, dal momento che la sentenza di proscioglimento ex art. 131 bis non può essere ricondotta ad alcuno dei provvedimenti indicati all'art. 673, non trattandosi né - come evidente - di una sentenza di condanna propriamente detta, né, d'altra parte, di una delle ipotesi indicate dal secondo comma: tanto le sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato, quanto quelle per mancanza di imputabilità rappresentano infatti pronunce circoscritte a ipotesi ben specifiche, nelle quali non rientra la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. In secondo luogo, riscontra una identità di ratio legis tra la revoca delle pronunce espressamente indicate nella norma in esame e quella delle sentenze di proscioglimento ex art. 131 bis; ciò in quanto "anche in questo caso l'abrogazione della norma incriminatrice - sulla quale si fonda il riconoscimento di un fatto tipico, per quanto tenue - rende necessaria la rimozione di una decisione dalla quale derivano effetti comunque pregiudizievoli per il soggetto, alla stregua delle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità". Infine, osserva come la norma di cui all'art. 673 c.p.p. non possa essere ritenuta eccezionale, costituendo anzi applicazione in sede di esecuzione del principio nullum crimen sine lege, in ossequio al quale anche il giudicato può - rectius, deve - essere travolto nel caso di abolizione del reato. L'ordinanza accoglie dunque l'istanza di revoca della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, disponendo contestualmente la cancellazione dell'iscrizione della stessa dal casellario giudiziale. * * * 5. L'ordinanza in commento ci sembra del tutto coerente con quanto finora rilevato da dottrina e giurisprudenza in merito all'art. 131 bis. Come ormai pacificamente riconosciuto, infatti, l'applicazione dell'art. 131 bis richiede come condizione preliminare implicita il riscontro da parte del giudice della commissione di un fatto di reato tipico, e dunque completo di tutti i suoi elementi costitutivi, ivi compresa l'offensività della condotta posta in essere, che costituisce un requisito indefettibile di fattispecie. Affinché un fatto di reato possa dirsi di particolare tenuità è infatti necessario, come ovvio, non solo che sia effettivamente stato commesso, ma che sia anche produttivo di un certo disvalore, la cui eventuale esiguità sarà oggetto di valutazione ai fini della causa di esclusione della punibilità in esame. Qualora, infatti, la condotta illecita non fosse in concreto idonea a ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, l'intero comportamento dovrebbe essere qualificato come un reato impossibile, ricadendo pacificamente nell'ipotesi descritta dal secondo comma dell'art. 49 c.p.; in questo caso, dunque, dovrebbe pervenirsi ad una sentenza di assoluzione secondo la formula "il fatto non costituisce reato", pienamente liberatoria per l'imputato in quanto attinente al merito della questione. Nelle ipotesi di irrilevanza del fatto, invece, il giudice si trova a dover valutare preliminarmente la sussistenza di un fatto di reato antigiuridico e colpevole, del quale l'imputato debba essere ritenuto responsabile[3] - il ché comporta, tra l'altro, la possibilità di agire in legittima difesa nei confronti di una simile condotta. Ne consegue che il fatto di reato manifestatosi in termini di scarsa offensività risulta contrario all'ordinamento giuridico nel suo complesso; ciò che ne esclude la punibilità è, meramente, una valutazione di inopportunità della sanzione penale. 6. Da queste osservazioni deriva la conclusione che una declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto, pur risolvendosi in una sentenza di proscioglimento, porta con sé la necessaria statuizione di colpevolezza dell'imputato. Ne consegue che, da un lato, il giudice dovrà esplicitare in motivazione le ragioni che hanno portato a ritenere che il fatto di reato sia stato commesso e sia attribuibile alla condotta dell'imputato[4]; dall'altro, che qualora vi siano incertezze circa questi elementi costitutivi lo stesso sarà tenuto ad emettere una sentenza pienamente assolutoria nel merito, in ossequio al principio in dubio pro reo. Ma v'è di più: alla sentenza ex art. 131 bis dovrà ricorrersi solo in subordine rispetto ad ogni altra tipologia di pronuncia che dichiari l'estinzione del reato, anche per ragioni attinenti al rito; e ciò proprio in conseguenza del carattere solo apparentemente assolutorio della declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto[5]. A ben vedere, infatti, l'implicita affermazione di colpevolezza dell'imputato contenuta nella sentenza ex art. 131 bis comporta che la stessa non sia immune da qualsivoglia conseguenza sul piano sanzionatorio: si tratta - come indicato nell'ordinanza in commento - dell'iscrizione nel casellario giudiziale e dell'estensione alle sedi civile ed amministrativa dell'efficacia del giudicato penale[6], con tutto ciò che ne consegue[7], anche in termini di etichettamento e stigmatizzazione dell'imputato; tanto da avere indotto una dottrina a definire la declaratoria di proscioglimento per particolare tenuità del fatto come una "cripto condanna"[8]. 7. A ulteriore conferma della natura in una certa misura pregiudizievole della sentenza ex art. 131 bis il legislatore ha disposto la possibilità che non solo l'imputato possa presentare opposizione alla sentenza di proscioglimento predibattimentale emessa ex art. 469, comma 2 bis, ma che anche il soggetto indagato possa far sentire le sue ragioni già in fase di indagini preliminari, attraverso un'interlocuzione; in questa sede, infatti, il p.m. sarà tenuto, ai sensi dell'art. 411, comma 1 bis, a notificare l'avviso della richiesta di archiviazione per tenuità del fatto non solo alla persona offesa, ma anche - appunto - all'indagato, il quale entro dieci giorni potrà presentare opposizione[9]. 8. Il carattere sostanzialmente pregiudizievole della sentenza di proscioglimento ex art 131 bis trova del resto conferma da un'osservazione degli analoghi istituti rinvenibili altrove nell'ordinamento penale. Il riferimento è, in particolare, all' art. 27 d.P.R. 448/1988, che, in sede di procedimento a carico di imputati minorenni, prevede una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto; e all'art. 34 d.lgs. 274/2000, laddove si dispone l'esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto nell'ambito del giudizio davanti al giudice di pace. Ebbene, entrambe queste pronunce sottendono un'affermazione di responsabilità dell'imputato[10]. Tanto che, da una parte, al minorenne è attribuita dal comma 3 dell'art. 27 la facoltà di impugnare la sentenza che dichiara l'improcedibilità per tenuità del fatto; dall'altra, davanti al giudice di pace l'imputato potrà, una volta esercitata l'azione penale, proporre opposizione ad una pronuncia ex art 34. Ora, anche in considerazione del fatto che entrambe queste pronunce non sono neppure soggette a iscrizione nel casellario giudiziale, risulta evidente che l'unico interesse che l'imputato potrebbe avere a ostacolare una declaratoria di questo tipo consiste - ancora una volta - nell'auspicio di ottenere una sentenza totalmente assolutoria nel merito, sapendosi il soggetto estraneo ai fatti o comunque sperando in un esito a lui più favorevole, privo di qualsiasi effetto stigmatizzante. 9. Quanto poi al procedimento ermeneutico utilizzato dall'ordinanza in commento per ricomprendere entro l'ambito applicativo dell'art. 673 c.p.p. la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, il ricorso all'analogia ci pare parimenti ineccepibile. La possibilità di interpretare analogicamente anche le norme penali, se in una direzione in bonam partem, è infatti ormai dato acquisito dalla dottrina e giurisprudenza maggioritarie. A sostegno di questa conclusione si è rilevato come il termine "leggi penali" di cui all'art. 14 delle Preleggi debba essere letto restrittivamente, come indicativo delle sole norme incriminatrici e non anche di eventuali disposizioni che restringano l'ambito della repressione penale, anche in quanto attuative di principi generali ricavabili dall'ordinamento giuridico nel suo complesso. [1] Circostanza che, come ricorda la stessa ordinanza in commento, viene già - superfluamente - chiarita nello stesso d.lgs. 8/2016, al comma 2 dell'art. 8. [2] Cass. pen., Sez. III, 26 maggio 2015 n. 27055. [3] " Siamo in presenza di un fatto che va esente da pena, ma illecito, contrario all'intero ordinamento giuridico, capace pertanto di produrre conseguenze sanzionatorie extrapenali": così R. Bartoli, Le definizioni alternative del procedimento, in Dir. pen e proc., 2001, p. 175 e ss. [4] Cfr. R. Dies, Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità, in questa Rivista, 13 settembre 2015, p. 7. [5] In questo senso si sono espresse anche le Linee guida della Procura di Palermo, pubblicate in questa Rivista, 2 luglio 2015, con nota di G. Alberti, Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: le linee guida della Procura di Palermo. [6] Anche se, per vero, una simile conseguenza è espressamente attribuita alle sole sentenze emesse a seguito del dibattimento o del giudizio abbreviato, ove sono possibile una cognizione piena e un contraddittorio integrale; l'estensione non varrà, invece, per le pronunce predibattimentali emesse ex art 469, comma 1 bis, né in caso di archiviazione ex art. 411, comma 1, come modificato dal l.lgs. 28/2015 - ed è evidente che proprio questa dovrebbe essere, almeno nelle intenzioni del legislatore, la sede naturale per l'operatività dell'art. 131 bis. [7] Si osservi come il prevalente orientamento giurisprudenziale ritenga sussistente l'interesse dell'imputato ad impugnare la sentenza di proscioglimento pronunciata perché il fatto non costituisce reato, se finalizzata ad ottenere una assoluzione per insussistenza del fatto, proprio in considerazione degli effetti più favorevoli che ne derivano in sede civile ed amministrativa. Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2003, n. 13261, in Cass. pen., 2004, p. 4128 e ss.; Cass. pen., Sez. II, 18 maggio 2010, n. 33847, CED, 248127; Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, CED, 235655; Cass. pen., Sez. V, 28 settembre 2004, n. 14542, in Cass. pen., 2006, p. 2542. [8] Cfr. F. Piccioni, Per gli avvocati "armi spuntate" nella strategia, in Guida dir., 2015, n. 15, p. 41 e ss. Riconoscono gli effetti negativi derivanti dalla sentenza di proscioglimento per tenuità del fatto anche la relazione dell'Ufficio del massimario della Corte di Cassazione penale in materia di art. 131 bis (A. Corbo - G. Fidelbo, Problematiche processuali riguardanti l'immediata applicazione della "particolare tenuità del fatto", 23 aprile 2015). [9] "Una specifica interlocuzione non è invece espressamente prevista dopo l'esercizio dell'azione penale, né in sede di udienza preliminare, né in sede dibattimentale, giacché in tali fasi è già aliunde garantito il contraddittorio pieno" (G. Amato, L'archiviazione presuppone sempre l'avviso alle parti, in Guida dir., 2015, n. 15, p. 38). Si osservi, tuttavia, come una simile disposizione non garantisca un vero e proprio diritto di veto alla declaratoria ex art. 131 bis, essendo il gip comunque libero di accogliere la richiesta di archiviazione presentata dal p.m; né è stata data all'imputato la possibilità di impugnare il provvedimento di archiviazione nel merito, avendo il legislatore ritenuto opportuno far prevalere qui le esigenze deflattive alla base dell'istituto. Tanto che, secondo alcuni, "sarebbe stato più opportuno prevedere un meccanismo attraverso il quale ottenere il necessario consenso dell'indagato ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione" (F. Piccioni, Per gli avvocati "armi spuntate" nella strategia, cit.). Come indicato dallo stesso autore, in tal senso si è espresso anche il presidente dell'Unione delle Camere penali italiane nel parere reso nel corso dell'audizione in Commissione Giustizia. Si osserva, per inciso, come non appaia difficile ravvisare l'interesse che potrebbe spingere l'indagato ad opporsi ad un'archiviazione per tenuità del fatto: egli, infatti, potrebbe sperare di ottenere una pronuncia pienamente liberatoria nel merito ed alla quale non segua alcun effetto sfavorevole. [10] Contra, in riferimento all'art. 27 d.P.R. 448/1988, Corte Cost., 22 ottobre 1997, n. 311, in DeJure.it, ove si ritiene che la prospettazione accusatoria viene assunta "come mera ipotesi e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l'imputato ne porta la responsabilità". Una simile statuizione ci sembra collidere con la ratio dell'istituto, aprendo la via, oltretutto, a una possibile lettura contra reum della norma: perché, infatti, il mero dubbio circa la responsabilità del minore dovrebbe essere risolto in termini affermativi confluendo in una declaratoria di improcedibilità, lasciando dunque presumere la colpevolezza dello stesso, con tutto ciò che ne deriva in termini di etichettamento? Cosa ne sarebbe del principio in dubio pro reo? Critico nei confronti di questa sentenza anche G. Riccio, voce Irrilevanza penale del fatto (dir. proc. pen.) in Enc. Giur., XIX, 1990 p. 7.

La particolare tenuinità del Fatto riduce sempre di più i reati punibili

Italia Oggi, 31 agosto 2020 Gli effetti della sentenza n. 156/2020 della Consulta sull'art. 131-bis del codice penale. Sempre più reati non punibili. Si allarga la fascia degli illeciti penali, che, se particolarmente tenui, possono essere perdonati. Non conta se il reato è grave e se ha una pena, sulla carta, elevata, cioè più di cinque anni. Conta, invece, se, nella realtà, il fatto è stato trascurabile e se l'imputato è meritevole. Il giudice penale, infatti, può ritenere non punibile qualunque reato, per cui il codice o la legge penale speciale non prevede una sanzione minima (e usa la formula della punizione "fino a" seguito dal massimo della pena). Il principio è stato formulato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 156/2020, nella quale ha dichiarato illegittimo l'articolo 131bis del codice penale nella parte in cui non consente l'applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva. Il codice penale. Per comprendere a pieno di che cosa si stia parlando, va ricordato che, in base all'articolo 131-bis del codice penale, un reato (punito in astratto dalla legge nel massimo fino a 5 anni), non è in concreto sempre punibile. È il giudice che deve valutare l'offensività in concreto del singolo fatto, oltre ad altri presupposti che riguardano le caratteristiche soggettive e comportamentali dell'autore del fatto. In relazione al fatto, bisogna considerare se è di "particolare tenuità". Se il reato è particolarmente tenue, allora il giudice (che deve accertare la tenuità) può assolvere l'incolpato. Anche chi ha commesso un fatto, che coincide esattamente con il divieto/obbligo previsto dalla legge penale, avrà la possibilità di sostenere che, per le caratteristiche del fatto specifico e per il suo curriculum di vita e per la sua personalità, il suo comportamento è inoffensivo e, quindi, la punizione penale è esagerata. La Consulta. La Corte costituzionale è intervenuta per dire che la causa di non punibilità della "particolare tenuità del fatto" è applicabile a tutti i reati per i quali, pur essendo previsto un massimo di pena superiore a cinque anni, non sia, però, previsto il minimo edittale di pena. La Consulta ha motivato lo sforamento della soglia massima dei cinque anni ragionando sul fatto che il solo fatto che non sia prevista una pena minima significa che alcune condotte possano essere della più tenue offensività. Per esse, quindi, dice la Corte costituzionale, è irragionevole escludere a priori l'applicazione dell'esimente. In sintesi. Abbiamo una legge che non punisce chi commette un reato sanzionato nel massimo fino a cinque anni. La Consulta ha, in maniera ineccepibile, allargato le maglie e conseguentemente evita la punizione chi commette un reato che non ha una sanzione minima. Ciò innegabilmente rafforza la constatazione che, ormai, in questi casi, il codice penale e le leggi penali non predeterminano più le conseguenze dei comportamenti illeciti. Questo perché avere commesso un fatto descritto da una norma incriminatrice non basta per essere puniti. È come se tutte le disposizioni penali avessero un'aggiunta che più o meno suona così: "A condizione che il fatto non sia di particolare tenuità". Questo sistema, in un'organizzazione statuale che pretende di ispirarsi al principio di uguaglianza, per diventare effettivo deve costruire e diffondere una casistica di situazioni in cui la collettività sociale avverte la sussistenza della particolare tenuità del fatto. Inoltre, la percezione collettiva deve basarsi su un alto grado di condivisione sociale dei valori della convivenza. A ciò si aggiunge che al fatto tenue deve conseguire una risposta tenue e non una inerzia (altrimenti la tenuità diventa un'abrogazione parziale della norma penale). Impossibile, infine, prescindere da un sistema di responsabilizzazione del giudice togato e/o da un diverso meccanismo di assunzione della decisione sulla colpevolezza (non basato solo su un raffronto tecnico tra condotta del reo e norma incriminatrice astratta).

Tuesday, November 17, 2020

Il Giudice dell'esecuzione

Il GIUDICE dell'esecuzione L’attuale codice di procedura penale ha ridisegnato, rispetto al precedente, il ruolo e la funzione del giudice dell’esecuzione prevedendo una nutrita serie di poteri, più o meno incidenti sul giudicato, che la dottrina ha classificato come selettivi (art. 699 c.p.p.), risolutivi (art. 673 c.p.p.), di conversione (art. 2, comma 3, c.p.), modificativi (artt. 672, 676 c.p.p.), ricostruttivi (art. 671 c.p.p. e 188 disp. att. c.p.p.), complementari e supplenti (art. 674 c.p.p.). Dal contenuto di tali disposizioni emerge come la fase esecutiva abbia acquistato una dimensione centrale e complementare a quella di cognizione, concorrendo al completamento funzionale del sistema processuale. Per la maggiore latitudine dei poteri di cui è stato dotato il giudice dell’esecuzione, questi non si limita, quindi, a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 1, 671, 672 e 673 c.p.p.). In aggiunta alle previsioni normative che tipizzano espressamente possibilità di modifica del giudicato e della sanzione inflitta, la giurisprudenza ha da tempo ampliato i poteri di intervento del giudice dell’esecuzione sul titolo esecutivo, configurandone alcuni che a ben vedere completano gli spazi di intervento in executivis. Quello di determinare esattamente il tempus commissi delicti, derivandone poi da ciò dirette o indirette conseguenze in termini di rimodulazione del trattamento sanzionatorio, rientra in questo scenario ed è un potere di interpretazione del titolo esecutivo da sempre ammesso sebbene entro limiti determinati che, giustamente, tendono a configurare l’intervento in executivis come suppletivo e non concorrente con quello del giudice di cognizione. A fronte della linearità precettiva delle regole giurisprudenziali, la prassi applicativa lascia ad ogni modo registrare non sempre facili soluzioni alle questioni in concreto trattate, di cui i provvedimenti di merito che si commentano sono evidente dimostrazione.

Monday, November 16, 2020

Non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis, c.p.). “ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo nel reato di cui all’art. 483 c.p., non sempre rileva la condotta di chi dichiari di non aver riportato condanne nel caso in cui gli sia stata applicata la pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – purché siano rispettati i criteri-parametro ostativi rispetto al riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis, c.p., la Corte di legittimità non può entrare nel merito di una decisione del giudice della cognizione adeguatamente motivata”. Cassazione Penale, Sez. V, sent. n. 11240/19 dep. 13.3. 2019, ud. 28.2.2019. Commento a cura dell’Avv. Emanuele Lai. Fatto. Il Tribunale di Salerno ha prosciolto A.C. dal reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) ai sensi dell’art. 131-bis, c.p. I fatti ascritti all’imputato attengono alla dichiarazione di incensuratezza, sostitutiva dell'atto di notorietà, resa alla Provincia di Salerno a corredo dell'istanza di rilascio del decreto di nomina a guardia giurata volontaria ittica. A carico di A.C., infatti, era stata emessa anni prima una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Avverso la sentenza di proscioglimento proponeva ricorso il Procuratore generale sulla base dell’asserita violazione dei criteri di cui all’art. 131-bis c.p., ritenendo il fatto di rilevante gravità. Rilievi giuridici. La V Sezione penale ha ritenuto il ricorso infondato. Con riferimento al delitto di cui all’art. 483 c.p., si è premesso che, se è vero che integra il delitto in parola la condotta di chi, in una autocertificazione sostitutiva diretta alla pubblica amministrazione, dichiari di non avere riportato condanne penali o di non avere procedimenti penali in corso, non altrettanto può dirsi laddove la dichiarazione attenga a sentenze di patteggiamento. In considerazione della natura affatto peculiare di tale pronuncia e degli effetti ad essa connessi, infatti, possono insorgere difficoltà nella prova di una piena consapevolezza in capo al dichiarante circa la falsità delle attestazioni. Il delitto, infatti, è da escludersi laddove le condotte contestate siano da ricondursi ad un contegno colposo, dovuto alla scarsa dimestichezza con determinati istituti giuridici come quello di cui agli artt. 444 e ss. c.p.p., salva la possibilità, ovviamente, di pervenire a sentenza di condanna laddove si sia raggiunta la piena prova circa la malafede del dichiarante. Ciò posto, i giudici di legittimità, dopo aver ripercorso l’iter giurisprudenziale attraverso il quale si è meglio precisato l’ambito applicativo della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis, c.p., ne hanno condivisa l’estendibilità altresì alla fattispecie portata al loro vaglio. In particolare, la tenuità dell’offesa si articolerebbe in due c.d. “indici-requisiti”: modalità della condotta e esiguità del danno. Onere del giudice, quello di rilevare, sulla base di tali requisiti, la tenuità dell’offesa che – unitamente al giudizio di non abitualità del comportamento ed entro le soglie di pena indicate dalla norma – consentiranno di escludere la punibilità nonostante l’accertamento della commissione del reato. La Corte prosegue richiamando le Sezioni Unite che, con pronuncia del 25.2.2016 n. 13681, hanno evidenziato come, ai fini della non punibilità ex 131-bis c.p., occorra una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, c.p. delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo. Ogni automatismo – eccetto le “rime obbligate” dei limiti edittali e dell’abitualità – va ripudiato. Anche eventuali precedenti penali, pur potendo rappresentare materia per la valutazione della gravità della condotta e dell’allarme sociale, non possono essere posti acriticamente a fondamento della mancata concessione del beneficio. Il Tribunale di Salerno – ritiene la V Sezione – ha fatto buon uso dei principi su riportati, pervenendo alla declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Il precedente per il quale veniva applicata la pena ex art. 444 c.p.p., infatti, risulta così risalente e superato dalla successiva condotta dell’interessato da non ostacolare il riconoscimento della causa di non punibilità. Per il resto, apparendo la decisione del primo giudice adeguatamente motivata, non può rappresentare oggetto di valutazione dei giudici di legittimità i quali, pur potendo scrutinare eventuali violazioni dei criteri-parametro ostativi predeterminati (quelli attinenti ai limiti di pena, all’abitualità, etc.) certamente non possono entrare nel merito di una valutazione motivata che rientra nel margine di discrezionalità del giudice della cognizione. non punibilità per particolare tenuità del fatto Stampa Email

Friday, November 13, 2020

SENTENZA N. 231 ANNO 2018 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 2, 24 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)», promossi dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 18 novembre 2016, dal Tribunale ordinario di Palermo con ordinanza del 19 marzo 2018 e dal Tribunale ordinario di Genova con due ordinanze del 20 e 27 marzo 2018, iscritte rispettivamente al n. 47 del registro ordinanze 2017 e ai nn. 91, 117 e 118 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2017 e nn. 25 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2018. Visti l’atto di costituzione di F. C. e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella udienza pubblica del 6 novembre e nella camera di consiglio del 7 novembre 2018 il Giudice relatore Francesco Viganò; udito l’avvocato Barbara Baroni per F. C. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 18 novembre 2016 (r.o. n. 47 del 2017), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)» (d’ora in poi, anche: t.u. casellario giudiziale), nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), in riferimento al «principio di eguaglianza e conseguentemente di ragionevolezza» di cui all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui «non prevedono che nel certificato generale del casellario giudiziale e nel certificato penale chiesto dall’interessato non siano riportate le ordinanze di sospensione del processo emesse ai sensi dell’art. 464-quater c.p.p.». Il giudice a quo, dopo aver premesso di essere chiamato a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 464-septies del codice di procedura penale, sull’esito della messa alla prova dell’imputato, ritiene che la questione sia rilevante, dal momento che la disciplina sopra richiamata si applicherebbe nel caso di specie nei confronti dell’imputato. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo evidenzia come la mancata inclusione, da parte delle disposizioni censurate, delle ordinanze di sospensione del processo con messa alla prova tra quelle la cui menzione deve essere omessa nei certificati richiesti dai privati determini una irragionevole disparità di trattamento rispetto a «quanto stabilito dal legislatore per percorsi processuali che pure addivengono a provvedimenti definitori non radicalmente diversi», come la sentenza pronunciata su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 445 cod. proc. pen. o il decreto penale di condanna (art. 460 cod. proc. pen.). Con particolare riferimento a quest’ultimo provvedimento, il giudice a quo sottolinea la maggiore meritevolezza del beneficio della non menzione nel certificato del casellario giudiziale per chi, anziché prestare mera acquiescenza a un decreto penale, si sia «attivato in un comportamento di utilità sociale che gli vale una sentenza di estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen.». Il giudice a quo è consapevole che i due tertia comparationis individuati hanno ad oggetto «procedimenti definitori […] ritenuti meritevoli dal legislatore che ha previsto delle premialità, tra le quali la non iscrizione del provvedimento definitorio sul certificato del casellario giudiziale richiesto dall’interessato». Tuttavia, egli ritiene incompatibile con il principio di eguaglianza che il beneficio della non menzione sia negato proprio rispetto al provvedimento di messa alla prova, il quale, tra i tre considerati, è quello che, perseguendo uno scopo parimenti deflattivo, «prevede una condotta attiva dell’imputato in lavori socialmente utili, in un percorso di sensibilità e di recupero sociale tutt’altro che indispensabile negli altri due procedimenti considerati». 1.1.– Con atto depositato il 26 aprile 2017, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce anzitutto che il giudizio a quo è destinato a concludersi con una pronuncia di estinzione del reato, stante l’esito favorevole della messa alla prova, senza che le disposizioni censurate possano trovare in alcun modo applicazione in quella sede, tali disposizioni concernendo piuttosto una fase procedimentale successiva; dal che l’irrilevanza delle questioni proposte. Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che «la scelta delle decisioni giurisdizionali da riportare nei certificati a richiesta dell’interessato rientra nella piena discrezionalità del Legislatore», come già affermato in passato da questa Corte con sentenza n. 223 del 1994, e che tale discrezionalità incontri l’unico limite della manifesta irragionevolezza, nel caso di specie non ravvisabile. 2.– Con ordinanza del 19 marzo 2018 (r.o. n. 91 del 2018), il Tribunale ordinario di Palermo, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del d.P.R. n. 313 del 2002, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale del casellario giudiziale e nel certificato penale chiesto dall’interessato non siano riportate l’ordinanza di sospensione del processo emessa ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen. e la sentenza che dichiara l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen. Il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi nell’ambito di un procedimento di esecuzione instaurato da un soggetto nei cui confronti era stata pronunciata, all’esito positivo della messa alla prova, sentenza di estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen., al fine di ottenere la cancellazione delle iscrizioni di entrambi i provvedimenti dai certificati richiesti dai privati. Quanto alla rilevanza delle questioni, il giudice rimettente ritiene di «essere chiamato ad esercitare una effettiva e attuale potestas decidendi proprio in relazione alle norme sospettate di incostituzionalità», posto che, ove la questione non venisse prospettata, egli dovrebbe respingere l’istanza della parte, stante il tenore letterale delle disposizioni impugnate che non contemplano, tra le eccezioni alle iscrizioni nel casellario da riportarsi nei certificati a richiesta dell’interessato, i provvedimenti relativi alla messa alla prova. Né sarebbe possibile, ad avviso del giudice a quo, «addivenire a una interpretazione conforme, a meno di non cedere ad una manipolazione additiva delle previsioni relative a casi analoghi espressamente contemplati fra le “eccezioni” previste dai due articoli». Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni con riguardo all’art. 3 Cost., il giudice a quo richiama l’ordinanza del 18 novembre del 2016 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze (r.o. n. 47 del 2017) sulle stesse disposizioni, ribadendo l’irragionevolezza di una disposizione che impone la menzione nei certificati del casellario di vicende giudiziarie meno gravi di altre per le quali è invece prevista la non menzione. Un ulteriore motivo di irragionevolezza è ravvisato rispetto al diverso e più favorevole trattamento riservato ai provvedimenti che dichiarano la non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis del codice penale, anch’essi esclusi dalla menzione nei certificati del casellario giudiziale. Dinanzi a fatti di identico disvalore, ben potrebbe infatti il giudice applicare la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, così come accogliere la richiesta di messa alla prova. Ciò perché «l’area di applicazione dei due istituti – prima nella legge e poi nella prassi – appare in gran parte coincidente». Di qui l’irragionevolezza consistente nel riservare un trattamento deteriore, rispetto alla menzione nei certificati del casellario, all’ipotesi in cui l’imputato, per ottenere l’estinzione del reato, si impegna in condotte risocializzatrici. Rispetto poi all’art. 27 Cost., il giudice a quo ritiene che l’iscrizione dei provvedimenti relativi alla messa alla prova in relazione a un reato dichiarato estinto per esito positivo della messa alla prova farebbe permanere «l’onta legata al trascorso giudiziale […] così vanificando la positiva esperienza risocializzatrice» del soggetto interessato. Ciò perché «l’ingiustizia delle conseguenze legate alle proprie azioni è di ostacolo alla funzione rieducatrice alla quale è finalizzato l’intervento statuale per il tramite della sanzione penale, con considerazioni che devono essere estese anche agli effetti penali della non-condanna in discorso». 2.1.– Con atto depositato il 10 luglio 2018, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, assistito e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata alla luce di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni impugnate. L’Avvocatura generale dello Stato, in particolare, ritiene che l’ipotesi di estinzione del reato in esito a messa alla prova sia assimilabile a quella dell’estinzione del reato in esito al periodo di sospensione condizionale della pena, in assenza di commissione di delitti o contravvenzioni della stessa indole e in presenza dell’adempimento degli obblighi imposti da parte del condannato a pena condizionalmente sospesa, ai sensi dell’art. 167, primo comma, cod. pen.; ipotesi, quest’ultima, la cui non menzione nei certificati richiesti dal privato è espressamente prevista dalle disposizioni in questa sede censurate. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato sarebbe, dunque, «il genus dell’estinzione del reato che “eccepisce” all’iscrizione, indipendentemente dalla sua species». A sostegno di tale prospettazione, l’Avvocatura generale dello Stato richiama la giurisprudenza con la quale la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile il beneficio della non menzione nei certificati del casellario anche all’ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444, comma 1, cod. proc. pen. (cosiddetto patteggiamento allargato), la cui introduzione è sopravvenuta allo stesso t.u. casellario giudiziale. Ben avrebbe potuto, pertanto, il giudice a quo ricondurre la fattispecie a quella prevista espressamente nella richiamata lettera b) (estinzione del reato ai sensi dell’art. 167, primo comma, cod. pen.) e accogliere l’istanza del ricorrente. 3.– Con ordinanza del 20 marzo 2018 (r.o. n. 117 del 2018), il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 2, e 24 del d.P.R. n. 313 del 2002, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.: la prima disposizione nella parte in cui non prevede l’eliminazione dal casellario giudiziale dell’iscrizione dell’ordinanza che, ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen., dispone la sospensione del processo per messa alla prova, allorché il procedimento penale venga concluso con sentenza che dichiara l’estinzione del reato a seguito di esito positivo della messa alla prova; e l’art. 24 nella parte in cui non prevede, tra i provvedimenti che non devono essere riportati nel certificato generale del casellario giudiziale richiesto dall’interessato, la sentenza che dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova. Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a pronunciarsi, in sede di esecuzione, su un ricorso proposto da un soggetto nei cui confronti è stata emessa una sentenza di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ex art. 464-septies cod. proc. pen. Il ricorrente chiedeva, in particolare, la cancellazione dell’iscrizione tanto dell’ordinanza che aveva sospeso il processo ai sensi dell’art. 464-bis cod. proc. pen., quanto della successiva sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato. Dopo avere evidenziato la rilevanza della questione – posto che, in assenza dell’intervento caducatorio richiesto a questa Corte, il ricorso dovrebbe essere respinto –, il giudice osserva, con riguardo al principio d’eguaglianza, che l’art. 24 del d.P.R. n. 313 del 2002 dispone la non menzione nel certificato del casellario a richiesta dell’interessato di una serie di provvedimenti – quali, in particolare, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e i decreti penali di condanna – relativi a situazioni ben più gravi di quella della messa alla prova con esito positivo, nella quale non viene neppure emessa una sentenza di condanna. Con riguardo poi alla funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27, comma terzo, Cost., il Tribunale rimettente osserva che il soggetto, che pure ha beneficiato con esito positivo della messa alla prova, non solo non verrebbe agevolato nel proprio percorso di reinserimento sociale, ma addirittura finirebbe per essere «quasi pregiudicato dalla menzione sia dell’ordinanza che della sentenza in oggetto, riguardante peraltro un reato estinto», con particolare riguardo al rischio che tale menzione possa influire negativamente sulle sue prospettive lavorative. 3.1.– Con atto depositato il 26 settembre 2018, si è costituita la parte privata C. F. a mezzo del proprio difensore, rilevando, in riferimento all’art. 5, comma 2 del d.P.R. n. 313 del 2002, l’irragionevolezza del mantenimento dell’iscrizione dell’ordinanza di sospensione con messa alla prova, posto che il procedimento penale in questione si chiude una volta intervenuta la sentenza di estinzione del reato. Tale irragionevolezza sarebbe aggravata dal fatto che detta iscrizione permane anche in caso di revoca dell’ordinanza di sospensione. In riferimento all’art. 24 del d.P.R. n. 313 del 2002, la parte privata ha sostanzialmente ribadito le argomentazioni svolte dal giudice rimettente con riguardo a entrambi i parametri di costituzionalità da questi evocati. 4.– Con ordinanza del 27 marzo 2018 (r.o. n. 118 del 2018), il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del d.P.R. n. 313 del 2012, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., articolando argomentazioni, in punto di non manifesta infondatezza, che ricalcano quelle della già menzionata ordinanza del 20 marzo 2018 sollevata dallo stesso ufficio giudiziario (r.o. n. 117 del 2018). Rispetto al contrasto tra le disposizioni impugnate e l’art. 3 Cost., il giudice a quo evidenzia, altresì, l’ulteriore profilo di disparità di trattamento tra l’obbligo di menzionare i provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati richiesti dai privati e la non menzione delle sentenze di condanna per le quali il giudice abbia espressamente disposto tale beneficio ai sensi dell’art. 175 cod. pen. Considerato in diritto 1.– Con quattro ordinanze di contenuto analogo, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze e i Tribunali ordinari di Palermo e di Genova hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, comma terzo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)» (d’ora in poi, anche: t.u. casellario giudiziale), nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale chiesti dall’interessato non siano riportate le ordinanze di sospensione del processo emesse ai sensi dell’art. 464-quater del codice di procedura penale e le sentenze di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ex art. 464-septies cod. proc. pen. Il solo Tribunale ordinario di Genova, nell’ordinanza iscritta al r.o. n. 117 del 2018, solleva altresì questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., dell’art. 5, comma 2, del medesimo t.u. casellario giudiziale. 2.– Preliminarmente, considerata la stretta connessione delle questioni sottoposte all’esame di questa Corte, i giudizi devono essere riunti per una decisione congiunta. 3.– Con riguardo alla questione sollevata dal GIP del Tribunale di Firenze (r.o. n. 47 del 2017), l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce la sua irrilevanza nel giudizio a quo, che appare destinato a concludersi con pronuncia di estinzione del reato per esito favorevole della messa alla prova, senza che le disposizioni censurate possano trovare in alcun modo applicazione in tale sede, tali disposizioni concernendo piuttosto una fase procedimentale successiva. L’eccezione è fondata. Come già questa Corte ha avuto modo di chiarire in altra vicenda analoga, nel giudizio di cognizione il giudice «non può in nessun caso ritenersi investito della applicazione di una disciplina […] come quella relativa alle iscrizioni nel casellario giudiziale», le cui questioni «potranno […] venire in discorso e assumere correlativa rilevanza soltanto in executivis» (ordinanza n. 414 del 2000). Ai sensi dell’art. 40 del t.u. casellario giudiziale, infatti, spetta soltanto al giudice dell’esecuzione, in composizione monocratica, pronunciarsi «[s]ulle questioni concernenti le iscrizioni e i certificati del casellario giudiziale e dei carichi pendenti». 3.– Va poi dichiarata l’inammissibilità, per totale carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza, delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, del t.u. casellario giudiziale sollevate dal Tribunale di Genova (r.o. n. 117 del 2018), nella parte in cui la disposizione censurata non prevede l’eliminazione dal casellario giudiziale dell’iscrizione dell’ordinanza che, ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen., dispone la sospensione del processo per messa alla prova, allorché il procedimento penale venga concluso con sentenza che dichiara l’estinzione del reato a seguito dell’esito positivo della messa alla prova. Sebbene, infatti, il giudice rimettente faccia oggetto di censura sia tale disposizione sia quella di cui all’art. 24 del t.u. casellario giudiziale, la motivazione sulla non manifesta infondatezza è riferita esclusivamente al citato art. 24. 4.– In via ancora preliminare, occorre dare atto che, nelle more del presente giudizio, è sopravvenuto il già citato d.lgs. n. 122 del 2018, con cui il Governo ha provveduto a riformare, tra l’altro, anche le disposizioni oggetto delle censure formulate nelle ordinanze dei giudici a quibus. Oltre a rendere esplicito, all’art. 1, comma 1, l’obbligo di iscrivere nel casellario giudiziale – accanto alle ordinanze che sospendono il processo e concedono la messa alla prova ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen. – anche le sentenze che dichiarano estinto il reato in seguito all’esito positivo della messa alla prova ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen., la novella fa confluire in un unico documento i certificati generale e penale del casellario giudiziale, rilasciati a richiesta dell’interessato, previsti dalla previgente normativa (art. 4, comma 1, lettera b); e, per quanto qui più direttamente rileva, esclude la menzione in tale certificato unico di entrambi i provvedimenti concernenti la messa alla prova (art. 4, comma 1, lettera b, n. 5, che aggiunge le lettere m-bis e m-ter all’elenco contenuto nell’art. 24, comma 1, del t.u. casellario giudiziale). L’esclusione della menzione di tali provvedimenti nel certificato del casellario giudiziale a richiesta dell’interessato persegue lo scopo di superare i dubbi di costituzionalità relativi alla disciplina previgente. Si legge, infatti, nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 122 del 2018, in riferimento ai due menzionati provvedimenti sulla messa alla prova, che la decisione «di razionalizzare il sistema delle iscrizioni e dell’oscuramento parziale di tali indicazioni nelle certificazioni rilasciate su richiesta dell’interessato» è stata ispirata proprio dall’esigenza di superare le «irragionevoli disparità di trattamento e [la] violazione del principio rieducativo della pena già denunciate da più autorità giurisdizionali alla Corte costituzionale». La sopravvenuta modifica legislativa, tuttavia, non impone la restituzione degli atti ai giudici remittenti, essendo essa ininfluente nei giudizi a quibus. Il decreto legislativo n. 122 del 2018 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 26 ottobre 2018, n. 250, Supplemento ordinario n. 50), infatti, prevede che le disposizioni in esso contenute «acquistano efficacia decorso un anno dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» (art. 7). 5.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, t.u. casellario giudiziale, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, sono fondate. 5.1.– Va anzitutto esclusa la proposta interpretativa che, nell’atto di intervento relativo all’ordinanza del Tribunale ordinario di Palermo, è stata avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato al fine di superare i dubbi di costituzionalità che concernono le disposizioni censurate attraverso una loro interpretazione conforme; in particolare, va esclusa l’estensione analogica ai provvedimenti sulla messa alla prova della previsione della non menzione, nei certificati del casellario giudiziale, delle condanne per reati estinti a norma dell’art. 167, primo comma, del codice penale (ossia per i reati dichiarati estinti una volta decorso il periodo di sospensione condizionale della pena in assenza di commissione di nuovi delitti o contravvenzioni della stessa indole, e in presenza dell’adempimento degli obblighi imposti). Infatti, le disposizioni relative al contenuto dei certificati del casellario giudiziale, oggetto delle censure dei giudici a quibus, sono articolate attorno a una regola generale – quella per cui tutti i provvedimenti iscritti nel casellario vanno riportati nei certificati – assistita da una serie di puntuali deroghe (le lettere dalla a alla m dell’art. 24, comma 1, e dalla a alla o dell’art. 25, comma 1, del t.u. casellario giudiziale), che costituiscono altrettante eccezioni a tale regola generale. In omaggio al criterio ermeneutico di cui all’art. 14, secondo comma, delle Preleggi, queste deroghe non possono che intendersi come tassative, e insuscettibili pertanto di estensione analogica, tanto più a fronte delle importanti differenze normative e concettuali tra gli istituti della sospensione condizionale della pena e della messa alla prova. 5.2.– Rispetto alle censure formulate in relazione all’art. 3 Cost., occorre osservare come l’implicito obbligo di includere i provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti da privati finisca per risolversi in un trattamento deteriore dei soggetti che beneficiano di questi provvedimenti, orientati anche a una finalità deflattiva con correlativi risvolti premiali per l’imputato, rispetto a coloro che – aderendo o non opponendosi ad altri procedimenti, come il patteggiamento o il decreto penale di condanna, ispirati essi pure alla medesima finalità – beneficiano già oggi della non menzione dei relativi provvedimenti nei certificati richiesti dai privati. Rispetto in particolare al patteggiamento, questa Corte ha in effetti già avuto modo di qualificare il beneficio ex lege della non menzione delle sentenze ex art. 444 e seguenti cod. proc. pen. nel certificato del casellario giudiziale come un incentivo finalizzato a indurre «l’imputato a pervenire sollecitamente alla definizione del processo» (sentenza n. 223 del 1994). Poiché tanto la messa alla prova quanto il patteggiamento costituiscono procedimenti «diretti ad [assicurare all’imputato] un trattamento più vantaggioso di quello del rito ordinario» (sentenza n. 91 del 2018), non è conforme a ragionevolezza che il beneficio della non menzione venga riconosciuto ex lege a chi si limiti a concordare con il pubblico ministero l’applicazione di una pena sulla base di un provvedimento equiparato a una sentenza di condanna, salve le eccezioni previste dalla legge (art. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen.), e non – invece – a chi eviti la condanna penale attraverso un percorso che comporta l’adempimento di una serie di obblighi risarcitori e riparatori in favore della persona offesa e della collettività, per effetto di una scelta volontaria, e con esiti oggettivamente e agevolmente verificabili: e ciò nella medesima ottica di risocializzazione cui avrebbe dovuto tendere la pena, qualora il processo si fosse concluso con una condanna. Inoltre, mentre per la generalità dei casi esiste la possibilità di beneficiare della non menzione della condanna nei certificati qualora si sia ottenuta la riabilitazione (art. 24, comma 1, lettera d e art. 25, comma 1, lettera d, del t.u. casellario giudiziale), nel caso dei provvedimenti relativi alla messa alla prova la riabilitazione è per definizione esclusa, non trattandosi di condanne. Il che costituisce un ulteriore profilo di irragionevolezza ingenerato dalla disciplina censurata. 5.3.– Fondate sono, altresì, le questioni sollevate in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost. Come affermato da una recente sentenza delle Sezioni unite dalla Corte di cassazione, già citata in senso adesivo da questa Corte (sentenza n. 91 del 2018), la sospensione del procedimento con messa alla prova costituisce «istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272)». In tale ottica, l’istituto – al quale va riconosciuta una dimensione processuale e, assieme, sostanziale – costituisce parte integrante del sistema sanzionatorio penale, condividendo con il patteggiamento la base consensuale del procedimento e del trattamento che ne consegue (così, ancora, la sentenza n. 91 del 2018). L’istituto non può, pertanto, che essere attratto dal finalismo rieducativo, che l’art. 27, terzo comma, Cost. ascrive all’intero sistema sanzionatorio penale. La menzione dei provvedimenti concernenti la messa alla prova nei certificati richiesti dai privati appare, tuttavia, disfunzionale rispetto a tale obiettivo, costituzionalmente imposto. La menzione relativa risulta, anzi, suscettibile di risolversi in un ostacolo al reinserimento sociale del soggetto che abbia ottenuto, e poi concluso con successo, la messa alla prova, creandogli – in particolare – più che prevedibili difficoltà nell’accesso a nuove opportunità lavorative, senza che ciò possa ritenersi giustificato da ragioni plausibili di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti, dal momento che l’esigenza di garantire che la messa alla prova non sia concessa più di una volta (art. 168-bis, comma 4, cod. pen.) è già adeguatamente soddisfatta dall’obbligo di iscrizione dei menzionati provvedimenti sulla messa alla prova e della loro indicazione nel certificato “ad uso del giudice” (rispettivamente artt. 3, comma 1, lettera i-bis, e 21, comma 1, del t.u. casellario giudiziale). Non v’è invece alcuna ragione plausibile perché si debba menzionare anche sui certificati richiesti dai privati – con gli effetti pregiudizievoli di cui si è detto, a carico di un soggetto che la Costituzione pur vuole sia presunto innocente sino alla condanna definitiva – un provvedimento interinale come l’ordinanza che dispone la messa alla prova, destinata comunque a essere travolta da un provvedimento successivo (la sentenza che dichiara l’estinzione del reato, nella normalità dei casi; ovvero l’ordinanza che dispone la prosecuzione del processo, laddove la messa alla prova abbia avuto esito negativo). D’altra parte, una volta che il processo si sia concluso con l’estinzione del reato per effetto dell’esito positivo della messa alla prova, la menzione della vicenda processuale ormai definita contrasterebbe con la ratio della stessa dichiarazione di estinzione del reato, che comporta normalmente l’esclusione di ogni effetto pregiudizievole – anche in termini reputazionali – a carico di colui al quale il fatto di reato sia stato in precedenza ascritto. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)», nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale richiesti dall’interessato non siano riportate le iscrizioni dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato ai sensi dell’art. 464-quater, del codice di procedura penale e della sentenza che dichiara l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies, cod. proc. pen. 2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 313 del 2002, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 117 del 2018; 3) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, del d.P.R. n. 313 del 2002, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 47 del 2017. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2018.