Monday, January 25, 2021

Gli Uffici Iscrizione

3.12.5 L'ufficio iscrizione L'ufficio iscrizione rappresenta una ennesima novità, rispetto al sistema precedente che - a proposito di iscrizioni - distingueva due fasi: l'una volta alla compilazione della scheda, di competenza del cancelliere in forza presso l'Autorità giudiziaria che aveva emesso la sentenza; l'altra, successiva, di spettanza dell'ufficio locale del Casellario giudiziale, istituito presso ogni Procura della repubblica. Oggi le due fasi sono state riunite: con la redazione della scheda e l'iscrizione del contenuto della stessa nel sistema, ad opera di un unico centro di implementazione del data base, responsabile al contempo della completezza del dato e della iscrizione dello stesso nel sistema. E' così nata una nuova entità funzionale: l'ufficio iscrizione che, ai sensi della lettera m) dell'art. 2 del Testo unico, è "l'ufficio presso l'Autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento giudiziario soggetto ad iscrizione o a eliminazione, che ha competenze nella materia del presente testo unico". Tale ufficio ha il compito principale, ex art. 15, di iscrivere l'estratto dei provvedimenti nel sistema, accanto a quello di eliminare le iscrizioni nei casi previsti. Se un Decreto ministeriale del 10 Novembre 1999 aveva, infatti, già autorizzato gli 'uffici schede' degli organi giudicanti ad inserire, in via informatica, l'estratto del provvedimento da essi emesso direttamente sul sistema centrale (evitando di gravare gli oberati uffici del Casellario), è con la novella del 2002 che ci si pone sulla stessa lunghezza d'onda e si cerca di terminare quel processo che porterà alla completa abolizione delle schede cartacee. Così l'art. 46 della norma attuale di riferimento ha autorizzato gli uffici giudiziari, a seconda del livello delle loro potenzialità tecniche, ad inserire i dati nel sistema o tramite il supporto cartaceo o tramite quello informatico; sino alla completa operatività del sistema sull'intero territorio nazionale (di nuovo si veda il capitolo 4). In tal modo si cerca di arrivare non solo all'eliminazione delle schede cartacee ma anche dei fogli complementari (introdotti con le modifiche del 1931), adesso oggetto di autonoma registrazione nel sistema ad opera della Autorità giudiziaria. Il comma 3 dell'articolo in esame continua precisando che "L'iscrizione o l'eliminazione è effettuata quando il provvedimento giudiziario è definitivo; nel caso di iscrizione di provvedimenti non definitivi, quando il provvedimento è pubblicato nelle forme di legge". I commi successivi prescrivono le verifiche che debbono essere svolte da tale ufficio iscrizione (sulla presenza dei codici identificativi delle persone e del procedimento loro riferito): in caso di mancanza o incompletezza dei dati previsti l'ufficio fa segnalazione all'autorità competente alla integrazione; mentre la segnalazione vede come destinatario il Pubblico ministero, qualora si riscontri un contrasto tra il provvedimento da iscrivere e altri già presenti nel sistema. Come abbiamo già avuto occasione di osservare, il successivo art. 16 - qui riportato per continuità espositiva - dispone che: L'ufficio di cancelleria del Giudice dell'esecuzione comunica all'ufficio iscrizione l'avvenuta esecuzione della pena pecuniaria e di ogni altra pena ai fini della eliminazione delle iscrizioni collegate al decorso del tempo dall'esecuzione della pena. 3.12.6 Un possibile dubbio interpretativo La corretta individuazione dell'ufficio iscrizione, competente ad inserire nel sistema i dati relativi ad una sentenza penale definitiva, può creare qualche difficoltà che la lettera della norma sopra richiamata non riesce a chiarire. Ciò può accadere in quelle ipotesi in cui la sentenza diventi irrevocabile: o a seguito di una pronuncia di rigetto nel merito, o di inammissibilità del gravame. La domanda, alla quale si deve rispondere, riguarda quale sarà l'organo giudiziario competente ad inserire il provvedimento negli archivi del Casellario: il Giudice di primo grado, quello di appello o il supremo Giudice di cassazione? Esclusa la possibilità di ricorrere alle norme generali sulla competenza, ex art. 665 c.p.p, trattandosi di situazioni specifiche e differenti, certa dottrina (33) ha sostenuto la competenza del Giudice di primo grado. Questo dovrebbe essere competente ad iscrivere "tutti i provvedimenti in ordine ai quali l'interposto gravame (sia esso l'appello, sia il ricorso per cassazione) si sia risolto con una pronuncia di inammissibilità" (34). Quando, invece, sull'impugnazione sia intervenuta una pronuncia di merito, sia essa di accoglimento parziale o di rigetto, sembra più opportuno ritenere competente il giudice di secondo grado. In ipotesi di rigetto del ricorso o di annullamento parziale senza rinvio da parte della suprema Corte, sembra gravi su di essa l'onere di procedere all'iscrizione dell'estratto del provvedimento nel sistema, ma la cosa non è del tutto pacifica; mancando un riferimento analogo a quello che, sotto la vigenza del R.d. n. 778/1931, prevedeva espressamente tale casistica. Una soluzione che si ponga, comunque, su questa scia non può non mostrare il pregio di privilegiare l'ufficio che, per ultimo, si è espresso sul merito della questione. 3.13 Questioni concernenti le iscrizioni e i certificati L'art. 40 del Testo unico, titolato come questo paragrafo, prevede l'organo giudiziario competente a decidere, qualora sorgano questioni sulle iscrizioni o sulle certificazioni del Casellario giudiziale. Tale organo è individuato nel "Tribunale del luogo dove ha sede l'ufficio locale nel cui ambito territoriale è nata la persona cui è riferita l'iscrizione o il certificato", il quale decide in composizione monocratica e nelle forme di cui all'art. 666 c.p.p., cioè secondo le regole proprie del procedimento di esecuzione. Il rinvio a tali forme procedurali ha voluto sottolineare la necessaria partecipazione paritaria all'udienza in camera di consiglio, davanti al Giudice dell'esecuzione, sia del Pubblico ministero sia del difensore dell'interessato, rispecchiando l'esigenza di sistematicità dell'intera materia esecutiva. Opportunamente, precisa la norma che è competente il tribunale di Roma, per i casi di persone nate all'estero o delle quali non è accertato il territorio di nascita (in Italia). Per quanto riguarda i poteri del Giudice dell'esecuzione, allorquando statuisce sulla legittimità di una iscrizione, può risultare opportuno richiamare la sentenza n. 38033 del 18/06/2004 della I Sezione penale della Corte di cassazione. Questa, con esemplare linearità, ha precisato che il Giudice - quando riconosce l'illegittimità per violazione dell'art. 27 D.p.r. n. 313/2002 - non ha la facoltà di ordinare all'ufficio del Casellario giudiziale di cancellare l'iscrizione illegittima. Ciò in quanto il Giudice, ai sensi degli artt. 4 e 5 della Legge 20 Marzo 1865 n. 2248, allegato E, non può comminare un facere, ma limitarsi ad ordinare a chi ha ottenuto il certificato dichiarato illegittimo di non farne uso. In questo, la persona oggetto delle iscrizioni effettuate con violazione di legge sarebbe comunque tutelata, proprio grazie alla non utilizzabilità delle certificazioni ottenute. 3.14 L'art. 495 comma 3 c.p La norma in questione si occupa, incidenter tantum, del Casellario, prevedendo la reclusione fino a tre anni per "chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, l'identità o lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona". Il comma 3 aggiunge che la pena non può essere inferiore ad un anno per l'imputato che, per le suddette false dichiarazioni, abbia causato che "nel Casellario giudiziale una decisione penale viene iscritta sotto un falso nome". Il tribunale di Perugia sollevò, con ordinanza del 17 Dicembre 1976, questione di legittimità costituzionale della norma, nella parte in cui prevedeva che tra le qualità da dichiarare all'Autorità giudiziaria fossero comprese quelle sui precedenti penali, utilizzabili a suo discapito sotto il profilo della determinazione della pena (recidiva). La Corte costituzionale, con sentenza 6 Maggio 1976 n. 108 (35), ritenne non fondata le questione, ritenendo che l'imputato avrebbe potuto rifiutarsi di fornire le notizie richieste; anche perché nessun rilievo si darebbe, sotto il profilo della fattispecie del reato in analisi, al silenzio o alle reticenza (Manzini, Pagliaro, Cristiani). Giurisprudenza (36) sostiene altresì che il reato non venga meno neppure se manca, in concreto, la possibilità per il pubblico ufficiale o per l'Autorità di essere ingannata, risultando i precedenti penali già in atti. Personalmente riteniamo una simile posizione, seppur corretta sotto il profilo strettamente ermeneutico (poiché, per il perfezionamento del reato è sufficiente rendere la dichiarazione mendace), viziata da una certa qual forzatura di fondo, nella misura in cui sembra non tener conto delle acquisizioni d'ufficio delle risultanze del Casellario giudiziale, specialmente laddove previste come obbligatorie da disposizioni di legge (ad esempio artt. 431 e 236 c.p.p.). Addirittura, però, secondo il Manzini (37), si avrebbe mendacio sui procedimenti penali anche a seguito di riabilitazione dell'imputato, in quanto questa non potrebbe incidere sul fatto storico della condanna pregressa, foriera di dati effetti sfavorevoli. Il richiamo alla norma ed ai precedenti, per evidenziare nuovamente l'importanza riconosciuta dal nostro ordinamento al Casellario ed alle notizie ivi iscritte, dalle quali derivano spesso conseguenze, anche inaspettate, per chi viene imputato o condannato. 3.15 Il beneficio della non menzione Art. 175 c.p. Se, con una prima condanna, è inflitta una pena detentiva non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore ai cinquecentosedici Euro, il Giudice, avuto riguardo alle circostanze indicate dall'art. 133, può ordinare in sentenza che non sia fatta menzione della condanna nel certificato del Casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragione di diritto elettorale. La non menzione della condanna può essere altresì concessa quando è inflitta congiuntamente una pena detentiva non superiore a due anni ed una pena pecuniaria che, ragguagliata a norma dell'art. 135 e cumulata alla pena detentiva, priverebbe complessivamente il condannato della libertà personale per un tempo non superiore a trenta mesi. Se il condannato commette successivamente un delitto, l'ordine di non fare menzione della condanna precedente è revocato. In origine il testo prevedeva che il beneficio (spesso, ma non necessariamente (38), concesso assieme alla sospensione condizionale della pena, in quelli che vengono chiamati 'doppi benefici') non fosse concesso se erano state comminate sanzioni accessorie alla condanna. La legge 7 Febbraio 1990 n. 19 ha, per ragioni di equità (39), eliminato tale divieto. In ogni caso, il condannato - non recidivo, come appare dall'inciso "prima condanna" - in possesso dei requisiti previsti dalla legge non ha alcun diritto soggettivo alla non menzione, essendo questa rimessa all'arbitrium judicis, seppure regolatum dall'obbligo di motivazione (40), in riferimento all'art. 133 c.p. La norma in analisi prevede, dunque, una causa estintiva degli effetti penali della condanna, che fa apparire la dicitura 'nulla' sul certificato penale (non, come correttamente osservato dal Dolce (41) e dal Bellavista (42), una causa estintiva della pena). Ovviamente ciò non comporta che nel data base del Casellario non vengano registrati gli estremi della condanna, ma solo il fatto che essa non appaia sulle certificazioni richiedibili dai privati. Il che, a sua volta, vuol dire che comunque la condanna apparirà in quei certificati richiesti, per esempio, da Pubbliche amministrazioni o acquisiti dall'Autorità giudiziaria per ragioni di giustizia. La qual cosae, a ben vedere, potrebbe scontrarsi, seppure parzialmente, con la funzione ultima della non menzione, assimilata dall'Antolisei alla riabilitazione in quanto "mira a favorire il ravvedimento e la risocializzazione del condannato" (43). E' opportuno soffermarsi anche sull'ultimo comma dell'art. 175, che prevede la revoca del beneficium in qualsiasi tempo, col compimento di un nuovo reato; avendosi in tal modo, in effetti, nulla più di una 'sospensione' di un effetto della condanna, costituito dalla "buona fama che il condannato gode presso i privati". (44) In ciò la disciplina si differenzia dall'istituto della sospensione condizionale della pena, sovente accomunato alla non menzione, in quanto la prima prevede il decorso di un dato periodo di tempo (due anni per le contravvenzioni e cinque per i delitti), trascorso il quale cessa la sospensione della condanna, a favore della estinzione del reato. A nostro avviso la disciplina della non menzione, per come oggi articolata, non risponde alle esigenze di tutela, del condannato a pene non gravi, dal pregiudizio che potrebbe ricevere dalla diffusione della notizia del suo 'precedente'. Per essere funzionale al suo scopo, dovrebbe essere previsto un tempo, trascorso il quale la condanna non possa 'miracolosamente riapparire', e dovrebbe riguardare tutte le certificazioni e le visure estraibili dal Casellario da chicchessia (con eccezione per l'Autorità giudiziaria, se proprio vogliamo). Nello stesso senso, il Dolcini che osservò il carattere di "pena perpetua della menzione della condanna nel Casellario, alla stessa stregua dell'ergastolo" (45), data la possibilità - ex u.c. dell'art. 175 c.p. - che essa riviva, a seguito della revoca del beneficio.

Tuesday, January 19, 2021

Sentenza nr. 198. Corte d'appello di Messina no incidente probatorio .

1. Con la sentenza resa il 19 marzo 2019 dalla Corte d'appello di Messina, che ribalta il verdetto del Tribunale della stessa località [1], si arricchisce di un nuovo episodio la saga giudiziaria avviata più di otto anni orsono con il promovimento, da parte del tutore dei figli di una donna uccisa dal marito, dell'azione risarcitoria ai sensi della legge n. 117/88, mediante la quale si faceva valere la responsabilità dei magistrati addetti a una Procura della Repubblica per non aver espletato determinati atti di indagini nei confronti dell'uomo che si sarebbe poi macchiato del gravissimo delitto e per non aver comunque assunto iniziative rientranti nelle loro prerogative. Ricapitoliamo brevemente la vicenda processuale che già a ridosso della decisione ora riformata ebbe a suscitare l'interesse di diversi commentatori [2]. In un primo tempo il ricorso introduttivo pareva destinato a non fare molta strada in ragione della ritenuta operatività della decadenza triennale sancita dal legislatore. Sennonché la suprema Corte, nel 2004, fu dell'avviso che la reazione doveva considerarsi tempestiva, evidenziando come non fosse corretto far decorrere il termine prima della nomina del tutore [3]. Superato così lo scoglio dell’ammissibilità, il procedimento ripartì per le valutazioni di merito dinanzi ai giudici peloritani i quali, in relazione ad alcuni degli episodi contestati, giungevano a ravvisare un’inerzia della Procura tale da rivestire gli estremi della grave violazione di legge caratterizzata da negligenza inescusabile, presupposto per la condanna dello Stato in base alla normativa previgente, applicabile ratione temporis ai fatti in esame. Per quel che concerne, poi, il nesso di causalità tra omissione ed evento pregiudizievole, il collegio investito della controversia stabiliva, su basi probabilistiche, una concatenazione tra la denuncia della donna relativa alle minacce ricevute dal partner che impugnava un coltello a scatto, la mancata perquisizione locale o personale a carico della persona denunciata, il mancato rinvenimento dell’arma impropria, il suo mancato sequestro e i colpi inferti dall’uxoricida con un coltello dello stesso tipo di quello cui si riferiva la denuncia. La decisione è stata criticata, anche con toni decisi, vuoi per aver sorvolato sul requisito della negligenza inescusabile [4], vuoi per aver operato troppe semplificazioni in punto di accertamento del nesso causale [5]. Proprio su quest’ultimo elemento si appuntano le censure della sentenza d’appello. Per i giudici di secondo grado non era, invero, dubitabile che si erano creati i presupposti per attivarsi e, quindi, effettuare la perquisizione e disporre l’eventuale sequestro. Sennonché il ragionamento svolto nella motivazione prosegue sottolineando la carenza di un solido sostegno probatorio per la correlazione tra la cennata inerzia e la soppressione della vita della donna. L’analisi del contesto segnalava una serie di indici, i quali se mai deponevano per suffragare l’opposta ricostruzione secondo cui, anche ponendo in essere l’attività omessa, sarebbero state modeste le chances di evitare il tragico assassinio. La pronuncia della Corte d’appello, che si basa su una puntigliosa disamina dei fatti ed è stata inopinatamente accostata ad altre decisioni che nello stesso torno di tempo hanno assolto (ovvero sono state tacciate di aver sanzionato con eccessiva mitezza) gli autori di crimini violenti commessi in ambito familiare o domestico, offre lo spunto per ulteriori riflessioni sulla responsabilità scaturente dall’attività di indagine del pubblico ministero, il cui ambito non può essere certo ridotto ai minimi termini, a pena di rinnegare scelte largamente condivise in sistemi giuridici omogenei al nostro e persino di infrangere principi di rango sovranazionale. Di contro, la responsabilità in parola, per un verso, non deve surrettiziamente comportare un’indebita invasione dell’area riservata alla «valutazione» [6] e, per altro verso, va modulata (anche prestando la necessaria attenzione al funzionamento dei meccanismi dell’illecito civile) in ragione della delicatezza del ruolo affidato al pubblico ministero al quale, nella fase che precede il giudizio, «è affidato l’intervento in nome della società e nell’interesse pubblico per rispettare e proteggere i diritti dell’uomo e le libertà» [7]. 2. Allargando lo sguardo oltre i confini nazionali, non c’è dubbio che, rispetto alla tematica in esame, nel nostro Paese siamo lontani anni luce dal modello statunitense, caratterizzato dalla concessione di un’immunità pressoché totale ai public prosecutors, per tutto ciò che concerne il proprium dell’attività compiuta nella veste di soggetti che incarnano la funzione accusatoria in ambito penale [8]. Gli standard internazionali, tuttavia, non contengono nessuna preclusione al riguardo, limitandosi alla (non secondaria) precisazione che eventuali regole di responsabilità debbano trovare un’idonea «giustificazione» [9]. E il Consiglio d’Europa si è posto sulla medesima lunghezza d’onda, allorché, in un documento del 2000, sottolineò che il rischio da scongiurare non si identifica con la condanna al risarcimento tout court, bensì è quello che il pubblico ministero incorra «al di là di quanto ragionevole, in responsabilità civili» [10]. Ben diverso da quello nordamericano è l’approccio europeo, nel quale a ben vedere possono identificarsi diversi punti comuni, quantunque lo stesso si presenti variegato in ragione della pluralità delle modalità con cui intervengono i singoli sistemi nazionali e della mancata convergenza su alcune scelte sistematiche di fondo, ivi compresa quella attinente al coinvolgimento diretto dei singoli inquirenti o all’indicazione di figure metaindividuali chiamate a rispondere delle mancanze dei primi. Invero, una sensibilità comune emerge, sia pur indirettamente, dal Regolamento UE istitutivo della Procura europea (EPPO) [11] che, all’art. 113, addossa senza mezzi termini a tale organo dell’Unione un’apposita forma di responsabilità extracontrattuale per i danni cagionati, nell’esercizio delle rispettive funzioni, dal procuratore capo europeo, dai suoi sostituiti e dai procuratori europei (par. 3), nonché dai procuratori europei delegati (par. 4) [12]. La competenza a disporre il risarcimento dei danni risentiti dai singoli in tale eventualità è attribuita alla Corte di giustizia, la quale dovrà attenersi ai principi generali comuni agli Stati membri. Anche focalizzando l’attenzione sulle epifanie europee della Common Law, in primis su quelle facenti capo al Regno Unito, dove residuano consistenti vuoti di tutela sul piano privatistico nei confronti dei provvedimenti emanati dalle corti, si può notare che gli atti ascrivibili ai rappresentanti della pubblica accusa, ove forieri di pregiudizi per taluno degli interessati, possono essere contrastati con azioni risarcitorie. Segnatamente, la legislazione britannica individua come bersaglio di queste azioni il Crown Prosecution Service [13]. Se poi si volge lo sguardo alle esperienze di Civil Law, il quadro complessivo evidenzia una forte propensione a inglobare nell’orbita della responsabilità civile anche l’attività della magistratura requirente. Vero è che nel caso spagnolo, rispetto alla posizione del Ministerio Fiscal, taluno ha espresso qualche dubbio, ma tali perplessità non sono riuscite a far breccia nella parte preponderante della dottrina [14]; e, peraltro, consistenti margini per andare alla ricerca dei presupposti di un obbligo risarcitorio derivano dall’indeterminatezza di uno dei titoli di responsabilità [15], rappresentato dall’anormale funzionamento dell’amministrazione della giustizia. Fatto sta che, in altri quadranti significativi della medesima area, non vi sono titubanze di sorta. Oltre all’Italia, si può ricordare la Francia che, dando primario alla natura dell’attività effettivamente svolta, non contempla esenzioni ratione personae dalle regole sulla responsabilità [16]; quindi il Belgio, che conosce una procedura ad hoc innescabile a seguito di talune specifiche mancanze [17]; e ancora la Germania, in cui vige peraltro un regime con significative restrizioni [18]. 3. Ritornando all’esperienza italiana, occorre certamente fare i conti con la vis expansiva dell’illecito extracontrattuale che, una volta inteso come presidio di qualsiasi interesse meritevole di tutela, è stato utilizzato con disinvoltura senza minimamente preoccuparsi di fagocitare altri istituti che ostacolavano il suo incedere. Emblematico è il caso della tutela aquiliana, offerta con generosità alle vittime del dolo contrattuale, mettendo di fatto in disparte le restrizioni proprie della relativa disciplina. Del resto, trattando della responsabilità dello Stato per gravi errori del pubblico ministero, ci troviamo al cospetto di un illecito che, pur con le sue specifiche connotazioni, si iscrive a pieno titolo nella responsabilità aquiliana, sottoposto al vaglio del plesso giurisdizionale di tale genus di responsabilità che tiene le redini; l’illecito in esame non può subire una manipolazione che lo faccia diventare un qualcosa di ibrido che partecipa di alcune caratteristiche dell’illecito disciplinare o addirittura di quello penale. Sennonché, anche ponendo un freno anche alla segnalata tendenza a occupare ogni spazio disponibile, permanendo nelle logiche della responsabilità civile – e anzi valorizzando alcuni dei suoi capisaldi – si può, e si deve, tenere conto della peculiare posizione del potenziale danneggiante nel momento in cui pone in essere l’attività cui si ricollegano i pregiudizi. Non si tratta soltanto di un baluardo volto a preservare la coerenza sistematica del rimedio risarcitorio; è in ballo anche la ponderazione tra i valori sottostanti. E ciò vale a maggior ragione quando l’asserito danneggiante si identifica con il pubblico ministero impegnato nelle indagini preliminari. Va da sé che non sarebbero tollerabili, oltre che non conformi alle indicazioni sovranazionali, condizionamenti ipoteticamente così forti da snaturare il ruolo istituzionale del pubblico ministero. Si pensi alla possibilità che l’intento di minimizzare il rischio di incorrere in responsabilità nei confronti delle persone offese trasformi il pubblico ministero in un implacabile inquisitore. Più in generale è stata paventata una deriva verso la «giurisprudenza difensiva», fenomeno foriero di «innumerevoli costi […] anche di ordine costituzionale» [19]. Sono rinvenibili nello strumentario della responsabilità civile gli antidoti per distorsioni di questo genere? In parte, si può tentare di scovarli nei contenuti speciali inseriti dal legislatore nella fattispecie, ancorché a seguito della riforma del 2015 occorre misurarsi con elementi descrittivi che minacciano di offuscare alcune peculiarità inerenti all’attività del pubblico ministero. Ma non bisogna credere che siano irrilevanti i lineamenti di fondo dell’illecito aquiliano. Il riferimento è innanzitutto alla funzione selettiva affidata al legame di derivazione eziologica del danno rispetto alla condotta del soggetto cui si vuole addebitare la lesione dell’interesse protetto. Il che collima con la recente tendenza ad assegnare a tale requisito, e alla relativa dimostrazione, un ruolo preponderante nell’analisi delle problematiche inerenti alla responsabilità civile. La precisa scelta giurisprudenziale nel segno dell’allontanamento dagli standard probatori di matrice penalistica, per abbracciare la regola della preponderanza dell’evidenza (efficacemente espressa con la formula “più probabile che non”), non sta certo a significare che la strada sia automaticamente spianata verso la condanna al risarcimento del danno. Nella ricostruzione del nesso causale in seno alle controversie promosse contro lo Stato da chi si dolga di scorrettezze commesse da un pubblico ministero nello svolgimento delle attività investigative, è ragionevole ritenere che l’atteggiamento corretto, da parte dei giudici della responsabilità civile, sia quello di non ignorare il ventaglio di opzioni con cui lo stesso pubblico ministero si confrontava durante le indagini [20]. In particolare, a fronte del rimprovero di non aver fatto qualcosa, occorrerebbe in primo luogo chiedersi se l’attività omessa era realmente doverosa nella situazione data. Né avrebbe la stessa valenza di una risposta affermativa a tale quesito la convinzione che potevano essere adottare, nei confronti dell’indagato, determinate misure che ex post sarebbero apparse come teoricamente dotate di maggiore incisività ai fini della tutela dell’interesse che si rivelerà leso ad opera di quest’ultimo: altrimenti, si configurerebbe un regime sostanzialmente parificato a quello che il codice civile riserva alle attività pericolose. In seconda battuta, anche a fronte di un’inerzia rilevante, non ci si può accontentare di stabilire che siffatto contegno abbia in qualche modo incrementato il rischio di esporre a un vulnus determinati interessi individuali; l’omissione, piuttosto, deve assurgere a fattore che abbia inciso in maniera rilevante, in termini probabilistici, nella verificazione del pregiudizio manifestatosi. Rifuggire dalla comoda tentazione di lasciare il danno là dove cade non significa evidentemente che si debba sempre e comunque traslare le conseguenze pregiudizievoli su chi capita a tiro, perché in qualche modo implicato nella vicenda che ha avuto la perdita quale esito. D’altronde, di eventuali istanze solidaristiche, specie a fronte di persone offese da crimini ripugnanti che versano in particolare situazione di debolezza, potrebbe opportunamente farsi carico, senza interferire con la trama della responsabilità civile, ancora una volta lo Stato attraverso meccanismi permeati da una forte vocazione indennitaria, se del caso prendendo spunto da quelli architettati per venire incontro ai bisogni delle vittime di reati violenti. [1] Trib. Messina 30 maggio-1 giugno 2017, in Merito, 2017, fasc. 11, 11 con nota di N. Gentile, Responsabilità del magistrato e risarcibilità del danno non patrimoniale. [2] E. Scoditti, La responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione: la sottile linea fra percezione e valutazione, in questa Rivista on-line, 26 giugno 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/la-responsabilita-civile-del-pubblico-ministero-pe_26-06-2017.php; G. Cascini-P. Ielo, La decisione del Tribunale di Messina sulla responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione. Un punto di vista di parte, in questa Rivista on-line, 5 luglio 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/la-decisione-del-tribunale-di-messina-sulla-respon_05-07-2017.php; G. Marra, Uxoricidio, condanna dello Stato per inerzia dei P.M.: la sentenza del Tribunale di Messina, in Il quotidiano giuridico, 16 giugno 2017; J. De Vivo, Mancata tutela delle vittime e responsabilità civile dei pubblici ministeri, in Forum di quaderni costituzionali, 27 luglio 2017; V. Giglio-G. Giglio Sarlo, L’Araba Fenice riappare in Sicilia: la responsabilità civile dello Stato-giustizia e una sua recente applicazione ad opera del Tribunale di Messina, in Filodiritto, 7 luglio 2017. [3] Cass. 12 settembre 2014, n. 19265, in Giur. it., 2014, 2717, con nota di F. Tizi, Decorrenza del termine per la proposizione dell'azione di responsabilità per danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e soggetti incapaci. [4] Diversamente, come osserva E. Scoditti, op. cit., nello scenario post l. 18/15, «lo Stato risponde del mero errore percettivo del magistrato, che sia stato causa o concausa del danno, salvo rivalersi su di lui se quell’errore percettivo sia stato determinato da negligenza inescusabile (o da dolo)». [5] Secondo G. Cascini-P. Ielo, op. cit., è mancato ogni approfondimento sulla prevedibilità dell’evento, che sarebbe stato invece indispensabile ai fini della ricostruzione della dimensione eziologica. Dal canto proprio, G. Marra, op. cit., ha qualificato come «punto debole della sentenza […] l’affermazione in ordine alla sussistenza del nesso causalità tra l’omissione e l’evento morte». [6] Osserva in proposito E. Scoditti, op. cit.: «La distinzione valutazione/percezione diventa particolarmente delicata quando è in gioco la figura del pubblico ministero, perché investe l’autonomia e la discrezionalità di cui gode tale soggetto nelle attività di indagine». Nel senso che la richiesta di rinvio a giudizio da parte del magistrato del pm postula l'apprezzamento prognostico circa l'idoneità degli elementi probatori a sostenere l'accusa in dibattimento, sicché essa, anche se reiterata per vizi formali e seguita infine dall'assoluzione, integra attività di valutazione del fatto e della prova, per la quale non è ammessa l'azione di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, tranne che l'attore dimostri essersi basata la richiesta medesima su fatti pacificamente insussistenti o avulsi dal contesto probatorio, vds. Cass. 26 febbraio 2015, n. 3916, in Foro it., 2015, I, 1207. [7] Così M. Guglielmi, Introduzione. Ragioni del processo, ragioni dell’ordinamento: rinunciare a un’istituzione di garanzia, in Questione giustizia trimestrale, n. 1, 2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/1/introduzione-ragioni-del-processo-ragioni-dell-ordinamento-rinunciare-a-un-istituzione-di-garanzia-_505.php. [8] Sottolinea K. Roach, Regulating the Prosecutorial Role in Wrongful Convictions, in The Evolving Role of the Public Prosecutor. Challenges and Innovations, a cura di V. Colvin-P. Stenning, Routledge, New York-Abingdon, 2018, 255: «The prospects for holding prosecutors civilly liable are not strong in any country but especially in the US where prosecutors enjoy absolute immunity from civil liability with respect to matters related to the prosecutorial process»; si veda altresì D.W. Neubauer-H.F. Fradella, America's Courts and the Criminal Justice System, 13th ed., Cengage, Boston, 2019, 187. Alcune incongruenze del sistema statunitense vengono stigmatizzate da K. McClelland, “Somebody Help Me Understand This”: The Supreme Court's Interpretation of Prosecutorial Immunity and Liability Under § 1983, 102 J. Crim. L. & Criminology 1323 (2013). [9] R. Waters, Overview: Design and Reform of Public Prosecution Services, inAa.Vv., Promoting Prosecutorial Accountability, Independence and Effectiveness, Open Society Institute, Sofia, 2008, 51, che nondimeno evidenzia come «in most jurisdictions, actual judgments against prosecutors for civil damages are quite unusual». [10] Si veda la Raccomandazione del 6 ottobre 2000, intitolata Il ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento penale. [11] Regolamento (UE) 2017/1939 del 12 ottobre 2017. [12] Paventa il rischio di problemi legati all’eccessiva genericità delle disposizioni sulla responsabilità dell’EPPO e dei suoi componenti A. Martínez Santos, The Status of Independence of the European Public Prosecutor’s Office and Its Guarantees, in The European Public Prosecutor's Office. The Challenges Ahead, a cura di L. Bachmaier Winter, Springer, Cham, 2018, 21. [13] A. Dell’Orfano, La responsabilità civile del magistrato: profili di diritto comparato, in federalismi.it, 6 aprile 2016. [14] L. Bairati, La responsabilità per fatto del giudice in Italia, Francia e Spagna, fra discipline nazionali e modello europeo, Esi, Napoli, 2013, p. 216. [15] Sul punto si rinvia a V. Moreno Catena, Le garanzie costituzionali del giudice e la responsabilità per il funzionamento della giustizia in Spagna, in Studi Urbinati, A - Scienze giuridiche, politiche ed economiche, 2013, v. 59, n. 2, pp. 339 ss. [16] L. Bairati, op. cit., p. 217. [17] J. Du Jardin, The Public Prosecution Service in the Belgian Criminal Justice System, in Aa.Vv., Harmonisation and Co-operation Between Prosecutors at European Level, Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2002, p. 78. [18] E. Trendafilova-W. Róth, Report on the Public Prosecution Service in Germany, in Aa.Vv., Promoting Prosecutorial Accountability, cit., p. 225. [19] E. Scoditti, op. cit. [20] Da ultimo, E. Bruti Liberati, Le scelte del pubblico ministero: obbligatorietà dell’azione penale, strategie di indagine e deontologia, in Questione giustizia trimestrale, n. 1, 2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/1/le-scelte-del-pubblico-ministero-obbligatorieta-dell-azione-penale-strategie-di-indagine-e-deontologia_507.php. L’autore ha posto l’accento sugli «ampi spazi di discrezionalità che connotano le scelte del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari». 15/05/2019