Wednesday, December 16, 2020

Cementi Armati

In merito alle competenze delle figure professionali impiegate nel settore AEC, si è spesso dibattuto e a volte il confine delle stesse è risultato tanto sottile da creare situazioni dubbiose e di incertezza. Negli anni si è assistito ad una specializzazione sempre più specifica e settoriale delle professionalità tanto che a fare la differenza non è più solo il titolo, ma la formazione e l’esperienza maturata in un ambito anziché in un altro. Competenze che vanno di pari passo alle responsabilità. L’ultimo caso oggetto di sentenza interessa le competenze strutture cemento armato ed i geometri che non possono progettare interventi su opere in cemento armato, a eccezione di piccole costruzioni rurali. Che la progettazione e direzione delle strutture in cemento armato, a prescindere dalla loro importanza, fosse riservata soltanto agli ingegneri e agli architetti, iscritti ai relativi albi professionali se n’era già parlato anni fa con la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, del 23 febbraio 2015, n. 883 – circolare del 24 aprile 2015 CNI – che ribaltava la decisione del TAR Veneto n. 1312/2013. La questione si riferiva alla delibera del comune di Torri (VR) che contemplava “tra le competenze professionali dei geometri e dei geometri laureati iscritti al Collegio professionale, la progettazione e direzione dei lavori di modeste costruzioni almeno fino a mc. 1500”. Tali indicazioni sono state oggetto di ricorso conclusosi con la sentenza del 23 febbraio 2015, n.883, che fissava i seguenti principi: “l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti, è riservata allo Stato”; “nessun potere normativo in materia di professioni, neppure a livello regolamentare, è rinvenibile in capo ai Comuni”; “esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l’importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali”. Con la circolare del 24 aprile 2015 XVIII SESSIONE N. 526, in merito, il CNI motivava i principi e specificava che: la privativa professionale dei Geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l’adozione, anche parziale, di strutture in cemento armato (solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) dell’art.16 RD n.274/1929, “purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone”) – A creare discussioni ed interpretazioni è l’aggettivo modeste. Leggi anche: Cultura dell’integrità. Quando il dilemma assale l’ingegnere Competenze strutture cemento armato. Cosa dice l’ultima sentenza? Oggi si ritorna sulla questione competenze strutture cemento armato con la sentenza della Corte di Cassazione, ordinanza n. 29227 depositata in cancelleria il 12 novembre 2019, in risposta al ricorso presentato da un tecnico diplomato geometra. Con tale ordinanza viene annullato il contratto da oltre 52 mila euro stipulato tra i condomini ed il professionista che aveva eseguito la progettazione dell’intervento di risanamento statico e funzionale del fabbricato condominiale. Il caso ha inizio con il ricorso presentato dallo stesso tecnico diplomato geometra, in quanto il condominio si era rifiutato di pagare la parcella per la progettazione dell’intervento ritenuto “esorbitante le competenze del geometra che non consentono la progettazione e la direzione dei lavori di costruzioni civili che prevedono come nel caso di specie l’uso del cemento armato”. La Cassazione sulla base delle norme e della giurisprudenza pronunciatasi sul tema delle competenze strutture cemento armato dei geometri, negli anni, ha concluso rigettando il ricorso del tecnico. Nella sentenza si legge che tale risultato è legato a: “la disposizione secondo la quale i geometri non siano abilitati a redigere progetti di massima ove riguardanti, fuori dalle ipotesi eccezionalmente consentite dalla lett. I), costruzioni richiedenti l’impiego di strutture in cemento armato”. Tale disposizione risponde ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse che lascia all’interprete ristretti margini di discrezionalità» e anzi indica «un preciso requisito, e cioè la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai geometri, anche nei casi di impiego di cemento armato». Consulta la sentenza n. 29227 Consulta la circolare cni 24/04/2015 – XVIII SESSIONE N. 526

Competenze Cementi Armati

In merito alle competenze delle figure professionali impiegate nel settore AEC, si è spesso dibattuto e a volte il confine delle stesse è risultato tanto sottile da creare situazioni dubbiose e di incertezza. Negli anni si è assistito ad una specializzazione sempre più specifica e settoriale delle professionalità tanto che a fare la differenza non è più solo il titolo, ma la formazione e l’esperienza maturata in un ambito anziché in un altro. Competenze che vanno di pari passo alle responsabilità. L’ultimo caso oggetto di sentenza interessa le competenze strutture cemento armato ed i geometri che non possono progettare interventi su opere in cemento armato, a eccezione di piccole costruzioni rurali. Che la progettazione e direzione delle strutture in cemento armato, a prescindere dalla loro importanza, fosse riservata soltanto agli ingegneri e agli architetti, iscritti ai relativi albi professionali se n’era già parlato anni fa con la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, del 23 febbraio 2015, n. 883 – circolare del 24 aprile 2015 CNI – che ribaltava la decisione del TAR Veneto n. 1312/2013. La questione si riferiva alla delibera del comune di Torri (VR) che contemplava “tra le competenze professionali dei geometri e dei geometri laureati iscritti al Collegio professionale, la progettazione e direzione dei lavori di modeste costruzioni almeno fino a mc. 1500”. Tali indicazioni sono state oggetto di ricorso conclusosi con la sentenza del 23 febbraio 2015, n.883, che fissava i seguenti principi: “l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti, è riservata allo Stato”; “nessun potere normativo in materia di professioni, neppure a livello regolamentare, è rinvenibile in capo ai Comuni”; “esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l’importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali”. Con la circolare del 24 aprile 2015 XVIII SESSIONE N. 526, in merito, il CNI motivava i principi e specificava che: la privativa professionale dei Geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l’adozione, anche parziale, di strutture in cemento armato (solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) dell’art.16 RD n.274/1929, “purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone”) – A creare discussioni ed interpretazioni è l’aggettivo modeste. Leggi anche: Cultura dell’integrità. Quando il dilemma assale l’ingegnere Competenze strutture cemento armato. Cosa dice l’ultima sentenza? Oggi si ritorna sulla questione competenze strutture cemento armato con la sentenza della Corte di Cassazione, ordinanza n. 29227 depositata in cancelleria il 12 novembre 2019, in risposta al ricorso presentato da un tecnico diplomato geometra. Con tale ordinanza viene annullato il contratto da oltre 52 mila euro stipulato tra i condomini ed il professionista che aveva eseguito la progettazione dell’intervento di risanamento statico e funzionale del fabbricato condominiale. Il caso ha inizio con il ricorso presentato dallo stesso tecnico diplomato geometra, in quanto il condominio si era rifiutato di pagare la parcella per la progettazione dell’intervento ritenuto “esorbitante le competenze del geometra che non consentono la progettazione e la direzione dei lavori di costruzioni civili che prevedono come nel caso di specie l’uso del cemento armato”. La Cassazione sulla base delle norme e della giurisprudenza pronunciatasi sul tema delle competenze strutture cemento armato dei geometri, negli anni, ha concluso rigettando il ricorso del tecnico. Nella sentenza si legge che tale risultato è legato a: “la disposizione secondo la quale i geometri non siano abilitati a redigere progetti di massima ove riguardanti, fuori dalle ipotesi eccezionalmente consentite dalla lett. I), costruzioni richiedenti l’impiego di strutture in cemento armato”. Tale disposizione risponde ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse che lascia all’interprete ristretti margini di discrezionalità» e anzi indica «un preciso requisito, e cioè la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai geometri, anche nei casi di impiego di cemento armato». Consulta la sentenza n. 29227 Consulta la circolare cni 24/04/2015 – XVIII SESSIONE N. 526

Tuesday, December 8, 2020

Amnistia e Indulto

1. Riformare una Costituzione per sua natura destinata a durare nel tempo è impresa difficile quanto scriverne una nuova: ciò rende le sue modifiche strutturali evento raro, spesso destinato al fallimento (citofonare Berlusconi e Renzi). Più utile è porre mano a singole disposizioni, se incoerenti con l’ordito costituzionale. Tale è il suo art. 79 che disciplina l’approvazione di amnistia e indulto, già oggetto di sciagurata revisione nel 1992. Un caso esemplare di riforma sbagliata da riformare di nuovo. 2. L’attuale art. 79 richiede per una legge di clemenza la «maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale». È un mostruoso procedimento rafforzato. Le sue soglie superano quelle richieste per leggi costituzionali, così da risultare più agevole modificarne l’art. 79 che approvare un’amnistia o un indulto. Sono quorum che regalano, gratis, paralizzanti veti incrociati: basta che un terzo dei votanti si sfili o minacci di farlo, e il ricatto avrà successo. Risultato? A parte l’indulto del 2006, da trent’anni l’Italia non conosce provvedimenti di clemenza. È un copione andato in scena anche in pieno lockdown. Per disinnescare in tempo la bomba epidemiologica di carceri sovraffollati, serviva un calibrato indulto. Non lo si è preso neppure in considerazione (preferendo scaricare oneri e responsabilità sulla magistratura di sorveglianza). Invocarlo, peraltro, sarebbe stato tecnicamente vano: la maggioranza dolomitica necessaria, calcolandosi sugli aventi diritto al voto, era preclusa in partenza per ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, in un Parlamento che ha scelto di lavorare a ranghi ridotti. LEGGI ANCHE Giustizia, ora l’amnistia è inevitabile Su indulto e amnistia bisogna cambiare il quorum Amnistia e indulto servono o sarà caos processi 3. Amnistia e indulto, dunque, non si possono né si debbono concedere. Eppure rientrano tra gli strumenti di politica criminale che la Costituzione repubblicana mette a disposizione del legislatore. Perché, allora, questo tabù? Contro di essi pesano radicate riserve ideologiche, cioè pregiudizi. Nell’ordine: il loro abuso in passato, quando tra il 1953 e il 1990 vennero approvati – in media – ogni triennio. L’essere una cura palliativa per problemi strutturali, destinati a riproporsi. L’enfasi sulla paura collettiva per la messa in libertà di detenuti (che non hanno finito di scontare la pena) e di imputati (che l’hanno fatta franca). La retorica della vittimizzazione secondaria di chi ha subìto il reato. La preoccupazione di non mostrare uno Stato debole, preferendolo tutto chiacchiere e distintivo. Soprattutto, essere contrari a un atto di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Scritta in piena Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, la formulazione ostativa dell’art. 79 fu (anche) una risposta a tali pulsioni giustizialiste. Qui, però, demagogia e intransigenza fanno a pugni con il ripristino della legalità. Quando costringe gli imputati in un limbo processuale infinito, e i condannati in carceri inumani o degradanti, lo Stato vìola la sua stessa Costituzione e i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. A ciò deve porre obbligatoriamente riparo, e presto, esercitando tutte le sue prerogative. Tra queste, la Costituzione annovera anche la clemenza quale strumento di deflazione giudiziaria e carceraria. Il vero problema, allora, è come restituirle agibilità politica e parlamentare. Il che ripropone la necessità di mettere nuovamente mano al suo art. 79. Ci prova ora il disegno di legge costituzionale n. 2456, presentato alla Camera il 2 aprile scorso, per iniziativa di quattro spiriti liberi: i deputati Magi (+Europa), Giachetti e Migliore (Iv), Bruno Bossio (Pd). La premessa da cui muove la riforma è che amnistia e indulto rientrino nell’orizzonte costituzionale di un diritto punitivo rieducativo e mai contrario al senso di umanità. Le leggi di clemenza, infatti, agiscono sempre sulla punibilità, estinguendola: dunque, partecipano della duplice finalità cui la pena deve sempre guardare, da quando nasce «fino a quando in concreto si estingue» (come insegna la Corte costituzionale). Come contenerle entro questo perimetro? Condizionandone l’approvazione a “situazioni straordinarie” o “ragioni eccezionali”. Le prime rimandano a eventi imprevedibili, le seconde a valutazioni collegate all’indirizzo di politica criminale della maggioranza parlamentare. In presenza dell’uno o dell’altro presupposto, debitamente motivato nel preambolo della legge, le Camere approvano l’atto di clemenza secondo l’iter legislativo ordinario, garanzia di massima pubblicità della loro deliberazione. Sulla coerenza tra presupposti motivati in preambolo, contenuto normativo e finalità costituzionalmente orientata, diventa così possibile un duplice controllo di legalità per linee interne alla legge: a monte, da parte del Quirinale in sede di promulgazione; a valle, da parte della Corte costituzionale. Controlli oggi solo teoricamente possibili, ma mai efficacemente esercitabili. Entro questa cornice, si ipotizza un abbassamento ragionevole dell’attuale quorum deliberativo alla «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella [sola] votazione finale». 4. Ci sono ottimi motivi per sostenere il cammino parlamentare di una simile riforma. Dei tanti che si possono squadernare, ne illustro solo alcuni. Il primo è il disvelamento dell’ipocrisia che l’attuale art. 79 cela: la sua rigidità normativa, infatti, è solo apparentemente virtuosa. In realtà, fu il prezzo pagato all’approvazione della legge di amnistia e indulto del 1990, che estingueva reati riguardanti (anche) comportamenti politici e di partito: quel parlamento, «vergognandosene un po’, se ne assolse firmando un impegno a non farlo più in futuro» (Adriano Sofri). Questo è il contesto rimosso della revisione costituzionale intervenuta nel 1992. Un falso movimento che va invece denunciato, perché da cattive coscienze nascono solo cattive regole che impediscono buone pratiche. Al contrario, la proposta di legge n. 2456 trasforma l’art. 79 da norma sterile, perché interamente difensiva, a norma feconda, perché capace di modellare amnistia e indulto in strumenti di buon governo. 5. Farisaica è anche la granitica contrarietà a leggi di clemenza. È facile dimostrarlo. Quelle misure che – anche nell’attuale legislatura – prendono il nome di rottamazione delle cartelle esattoriali, voluntary disclosure, pace fiscale, saldo e stralcio, altro non sono che condoni fiscali, cioè sospensione per il passato della legge penale, dunque strumenti di impunità retroattiva. Ogni condono altro non è che un atto di clemenza atipica, una “oscena amnistia”, per la concessione della quale però ci si serve della legge ordinaria (approvata a maggioranza semplice) senza temere né il dissenso della pubblica opinione, né la crisi di governo, né la vergogna che pure dovrebbe accompagnare l’ipocrisia di chi, a parole, è incondizionatamente contrario ad atti di clemenza. La proposta di legge n. 2456 ha anche il merito di squarciare il velo che copre questa doppia morale. 6. Altra ragione a suo favore è nel valorizzare la natura emancipante degli strumenti di clemenza, rispetto alla consueta rappresentazione patibolare del diritto punitivo. Un diritto penale esclusivamente retributivo e vendicativo, applicato in modo meccanico e impersonale, mostra un’arcaica origine veterotestamentaria. La logica degli atti di clemenza è invece quella evangelica, spiegata da Luca con la parabola del figliol prodigo: celebrando l’evento del figlio ritrovato, il padre spezza «l’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono», consapevole che «la Legge è fatta per gli uomini», mai viceversa (il copyright è di Massimo Recalcati). Vale in psicanalisi, vale nel diritto. La clemenza legislativa ha smarrito da tempo questa sua autentica matrice. Condannata come rifugio del potere arbitrario, oggi è disprezzata dalla doxa dominante, per la quale l’indulto è un insulto e l’amnistia un’amnesia. La clemenza è stata uccisa dalla sua storia, passata e presente: abusata allora, cancellata ora. Questo circolo vizioso è finalmente spezzato dalla proposta di legge n. 2456, capace di sottrarre amnistia e indulto alla falsa alternativa tra bulimia e anoressia (perché, entrambi, sono comportamenti patologici). 7. È una facile previsione: l’iniziativa legislativa in esame sarà accusata di colpire a morte la certezza della pena. Ma chi pensa questo ha una mente che mente. La certezza della pena, oggi, è (fra)intesa come indefettibilità della detenzione in carcere, fino all’ultimo giorno: perché, per i più, pena vuol dire sanzione ma, prima ancora, sofferenza. Nasce da qui lo stigma verso leggi di clemenza, accusate di inaccettabile perdonismo. Tutto verosimile, ma non vero. Perché non è questo il modo in cui la Costituzione intende la certezza della pena. Costituzionalmente, la pena è certa quando è predeterminata dalla legge a evitare che sia il frutto, ex post, dell’arbitrio del potente. Adoperarla come clava contro una riforma dell’art. 79 che rende praticabili leggi di clemenza significa essere ignoranti, nel senso etimologico di chi non sa ciò di cui pure parla. Significa aver letto non la Costituzione, ma gli editoriali del Fatto Quotidiano, confondendo questi con quella. 8. Da ultimo, riformare di nuovo l’art. 79 restituirà potere e responsabilità a un Parlamento sempre più a bordo vasca, marginalizzato dal governo e dai suoi comitati tecnico-scientifici. Su questo obiettivo possono convergere trasversalmente deputati e senatori che conservino ancora coscienza del proprio ruolo, rivendicandolo orgogliosamente. Torneranno, poi, a dividersi sul se, quando e come deliberare una legge di clemenza. Ma, prima, andrà revocata quella cessione unilaterale di sovranità fatta nel 1992, che molto assomiglia ad una resa indecorosa alle piazze popolate da cappi, gogne e tricoteuses. © RIPRODUZIONE RISERVATA LEGGI ANCHE Giustizia, ora l’amnistia è inevitabile Giustizia, ora l’amnistia è inevitabile Franco Corleone Su indulto e amnistia bisogna cambiare il quorum Amnistia e indulto servono o sarà caos processi Amnistia: per il Consiglio d’Europa non è più un tabù Su indulto e amnistia bisogna cambiare il quorum Su indulto e amnistia bisogna cambiare il quorum Vincenzo Maiello Amnistia e indulto servono o sarà caos processi Amnistia: per il Consiglio d’Europa non è più un tabù L’amnistia è il minimo, detenuti vivono in condizioni inaccettabili Amnistia e indulto servono o sarà caos processi Amnistia e indulto servono o sarà caos processi Riccardo Polidoro Il Garante dei detenuti di Napoli scrive a Bonafede: “Pianificare una fase 2 per le carceri” Carcere Santa Maria, il racconto dei detenuti: “Ci hanno fatti spogliare e picchiati” Carcere, emergenza covid-19: l’appello di 14 Paesi all’Ue per l’amnistia Amnistia: per il Consiglio d’Europa non è più un tabù

Thursday, December 3, 2020

Varie norme del codice penale (di seguito CP) contengono l’espressione che dà il titolo a questo scritto. L’art. 2 comma 2: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. L’art. 20: “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa”. L’art. 77 comma 1: “Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati”. L’art. 106: “Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena. Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali”. L’art. 174: “L’’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna”. L’art. 178: “La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti”. La stessa espressione è poi contenuta negli artt. 12, 556 comma 3 e 609 nonies CP. Anche il codice di procedura penale (di seguito CPP) contiene espliciti riferimenti in tal senso negli artt. 445, 572, 587, 622 e 669. Dal canto suo la Legge 354 del 1975, meglio nota come Ordinamento penitenziario, prevede nell’art. 47 comma 12 che “L’esito positivo della prova estingue la pena e ogni altro effetto penale”. Lo stesso fa l’art. 93 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 (Testo unico sugli stupefacenti) il quale prevede l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale a beneficio del condannato per reati in materia di stupefacenti che li abbia commessi in conseguenza della sua condizione di tossicodipendenza, sempre che abbia attuato il programma terapeutico che gli è stato assegnato e non commetta nuovi delitti non colposi nel quinquennio successivo alla sospensione dell’esecuzione. Una locuzione ricorrente, dunque, e nella maggior parte dei casi utilizzata in collegamento ad un fenomeno estintivo. Serve allora comprenderne il significato e l’ambito applicativo. Non si tratta tuttavia di un’operazione semplice, per due ragioni essenziali: il legislatore non ha offerto alcuna definizione degli effetti penali; è sempre più intenso il collegamento di effetti pregiudizievoli operanti in ambito extrapenale a sentenze di condanna in sede penale. 2. Il punto di vista della giurisprudenza Il punto di partenza obbligato è facilmente individuabile nella ormai risalente sentenza n. 7/1994, emessa dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione nel procedimento VOLPE. Il collegio chiarì nell’occasione che: “Gli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possono determinare quell’effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, “ope legis”, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale”. Le Sezioni unite individuarono dunque tre requisiti indefettibili: l’esistenza di un rapporto causale necessario tra una condanna penale irrevocabile e l’effetto, l’automaticità di questo e la sua natura sanzionatoria che rimane tale anche allorché si esplichi in un ambito diverso da quello penale. L’orientamento espresso dal Supremo collegio non è stato smentito dalla giurisprudenza successiva che anzi l’ha arricchito di nuovi e più avanzati significati. Si legge ad esempio nella recente sentenza n. 32438/2016 della prima sezione penale della Corte di Cassazione che: “Per “effetto penale” della condanna deve intendersi ogni conseguenza di essa che si risolva in incapacità giuridiche o che comporti limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà o alla possibilità di ottenere benefici o che rappresenti il presupposto di inasprimento del sistema precettivo o sanzionatorio riguardante il successivo comportamento del soggetto”. Il riferimento a concetti come incapacità giuridiche, limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà e possibilità di ottenere benefici accentua significativamente la proiezione extrapenale degli effetti penali, che già le Sezioni unite del 1994 avevano riconosciuto. 3. L’effettiva latitudine della categoria degli effetti penali e la loro estensione agli ambiti extrapenali È piuttosto controverso in dottrina se gli effetti penali possano dispiegarsi anche in ambiti diversi da quello di provenienza. Un primo orientamento nega questa possibilità. Il suo fondamento viene principalmente individuato in un argomento di ordine letterale: il legislatore ha usato l’espressione “effetti penali della condanna” – anziché quella, pure astrattamente possibile, di “effetti della condanna penale” -intendendo così esplicitare che questa può produrre effetti solo nell’ambito suo proprio, quello della legge penale. La ragione sottostante – si aggiunge – è l’affermazione del principio garantistico del favor rei che sarebbe frustrato se si ammettesse che l’affermazione di responsabilità in sede penale possa produrre conseguenze negative anche in ambiti differenti. Un secondo e contrapposto orientamento ammette invece l’estensione extrapenale degli effetti penali. Anche questa posizione dottrinale è dichiaratamente giustificata da un intento garantista. I suoi sostenitori ritengono infatti che la qualificazione in senso penalistico degli effetti pregiudizievoli nascenti da una sentenza di condanna è l’unico mezzo per assoggettarli alla disciplina propria degli istituti penali sostanziali e rendere quindi operative le garanzie derivanti dalla Costituzione e dai principi generali dell’ordinamento. Questo secondo orientamento convince assai più del primo. Non solo perché avallato dalla giurisprudenza penale di legittimità con la sentenza 7/1994 e le successive, ma perché più adatto alla realtà legislativa di questi anni e ad offrire strumenti di salvaguardia della civiltà giuridica altrimenti inapplicabili. Si prende a prestito, per la sua efficacia descrittiva, l’espressione “La società punitiva” usata come titolo di uno scritto nato dalla collaborazione di prestigiosi esponenti della scuola penalistica italiana e pubblicato il 21 dicembre 2016 sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo. Nella visione degli Autori, chiaramente esplicitata dal sottotitolo “Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista”, la legislazione penale di questi anni è stata ispirata da prospettive di fondo ben poco rassicuranti: “Libertà versus sicurezza è il leitmotiv di questa originale tavola rotonda, che rappresenta un tentativo di riflettere su usi e abusi del diritto penale nell’era della complessità: un diritto penale “liquido” si forgia sempre più spesso su esigenze politiche di consenso, di rassicurazione sociale, dimenticando le sue caratteristiche di Magna Charta del reo” [sono le parole usate da Lucia Risicato nell’introduzione allo scritto]. Una riflessione pienamente condivisibile che può e deve essere allargata ad ambiti diversi da quello penale. È indiscutibile che il legislatore stia trasformando il diritto penale in una testa d’ariete, creando incessantemente nuove fattispecie incriminatrici, inasprendo quelle già esistenti, annichilendo l’equilibrio tra le parti processuali mediante scorciatoie probatorie collegate tra l’altro all’aumento costante dei reati di pericolo astratto e di sospetto. Ma accade anche qualcos’altro: sempre più di frequente vengono varate leggi non penali che tuttavia assumono la condanna penale, talvolta anche non definitiva, come unico e indiscutibile presupposto genetico per la produzione di effetti giuridici svantaggiosi in danno dei destinatari. Effetti destinati a incidere in modo pesante e in qualche caso irreparabile in aree costituzionalmente protette: non solo la libertà personale ma anche la proprietà, il patrimonio e il risparmio, il lavoro, il diritto di elettorato ed altro ancora. Ecco, se si ritenesse che questi effetti non sono penali, si escluderebbe per ciò stesso che gli si applichino il fondamentale principio di legalità ed i suoi corollari della riserva di legge, tassatività, divieto di analogia, divieto di irretroattività sfavorevole; si assumerebbe che non rientrano nella sfera protettiva dell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e i diritti fondamentali (di seguito CEDU); si escluderebbe infine la loro cessazione in conseguenza di uno dei provvedimenti estintivi previsti dalla legge. Non serve altro per dimostrare che un’eventualità del genere violerebbe precetti costituzionali primari e renderebbe quel “diritto penale liquido” ancora più punitivo e incoerente rispetto a quanto ci si attende da uno Stato di diritto. Si ritiene perciò di ribadire convintamente che in una visione costituzionalmente orientata devono essere considerati effetti penali tutti gli effetti giuridici pregiudizievoli che posseggano i requisiti indicati dalle Sezioni unite con la sentenza 7/1994. Requisiti che, è bene ricordarlo, sono perfettamente in sintonia con i criteri Engel, così denominati perché affermati dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Engel c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976. Nella visione del giudice di Strasburgo, infatti, una misura ha natura penale se è classificata espressamente come tale dallo Stato che la sancisce o se è conseguenza della violazione di una norma che tutela beni giuridici dell’intera collettività o se ha una natura afflittiva grave, strumentale a fini di prevenzione sociale generale. 4. Le situazioni giuridiche classificabili come effetti penali La conclusione appena tracciata equivale a riconoscere che la sentenza penale di condanna è idonea a produrre effetti non solo diretti, cioè compresi nell’ambito della cosa giudicata, ma anche indiretti, in grado di agire oltre quella nozione e i suoi limiti. Il che è come dire, usando le parole di Francesco Carnelutti, che dalla sentenza deriva un giudizio vincolante in ordine al presupposto di una situazione giuridica, altra e diversa rispetto a quella che ha costituito oggetto del processo [il richiamo al pensiero del Carnelutti e alcuni passaggi classificatori ed esemplificativi contenuti in questo scritto sono stati ispirati da Alessandra Sanna, “Effetti penali della sentenza a pena concordata: il peso insostenibile di una condanna senza giudizio di colpevolezza” in Cassazione penale, dicembre 2013, n. 12]. Non finisce qui però il compito dell’interprete, occorrendo ancora individuare in concreto le situazioni giuridicamente rilevanti che possiedono quei caratteri e producono quei risultati. È un’operazione piuttosto complicata perché, come spesso accade nella scienza giuridica, soprattutto quando il legislatore lascia briglie sciolte, il dibattito registra varie opinioni e orientamenti. a) Gli effetti penali in ambito penale ed extrapenale chiaramente esplicitati dal legislatore Le cose sono abbastanza semplici, e non richiedono scelte interpretative rilevanti, nei casi in cui il rapporto di collegamento sia esplicitamente previsto dal legislatore. Questo può avvenire anzitutto attraverso norme che subordinino la realizzazione di una fattispecie giuridicamente rilevante di tipo penale, civile, amministrativo, disciplinare e contabile all’accertamento giudiziale di un pregresso reato. Rientra certamente in questo ambito la previsione dell’art. 185 CP secondo la quale “Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”, chiaramente speculare a quelle contenute negli artt. 651 e seguenti del CPP. Lo stesso può dirsi, questa volta interamente all’interno del giudizio penale, in riferimento all’art. 238 bis CPP il quale consente l’acquisizione di sentenze irrevocabili emesse in altri procedimenti penali ed attribuisce ad esse valore di prova dei fatti ivi accertati, sia pure nel rispetto del criterio valutativo indicato nell’art. 192 comma 3 CPP. È comune in questi casi un effetto preclusivo del potere discrezionale del giudice del procedimento ad quem, essendo questi tenuto ad uniformarsi all’accertamento già compiuto nel procedimento a quo. È una regola logica e razionale, che protegge tre importanti interessi: la non contraddizione (la tenuta dell’ordinamento sarebbe messa in difficoltà se più pronunce giudiziali arrivassero a conclusioni differenti sullo stesso oggetto), l’economia dei mezzi processuali (è insensato ripetere in una sede giudiziale accertamenti già compiuti in altra sede) e la ragionevole durata dei processi (che sarebbe ingiustificatamente compromessa da inutili duplicazioni di accertamenti). La situazione appena descritta può essere anche il frutto di norme regolatrici di fattispecie sostanziali. Questo avviene quando una fattispecie di tal genere comprende tra i suoi elementi costitutivi un reato o, per meglio dire, la sentenza che lo ha accertato. Sono sicure manifestazioni di questo fenomeno l’inapplicabilità del beneficio della sospensione condizionale della pena e la sua revoca, l’applicazione delle recidiva obbligatoria e la dichiarazione dello status di delinquente abituale o professionale, istituti tutti collegati ad una condanna penale. Lo stesso si può dire per fattispecie incriminatrici come il possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli, applicabili solo in presenza di una pregressa sentenza di condanna. b) Gli effetti penali risultanti dall’applicazione del criterio interpretativo offerto dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione Fin qui l’argomentare è stato facile poiché si è giovato di un percorso guidato esplicitamente dallo stesso legislatore. L’universo giuridico contiene tuttavia molteplici disposizioni normative non altrettanto esplicite che però sanciscono effetti dannosi a carico di taluni in diretta conseguenza di una sentenza penale di condanna. Un primo caso è rappresentato dal complesso di previsioni che precludono, sul presupposto di una condanna penale, l’accesso a determinate posizioni lavorative, spesso collegate all’iscrizione ad un albo professionale. Una rapida ricognizione dei vari ordinamenti professionali evidenzia la generale necessità del requisito dell’assenza di condanne penali, alcune volte sancito in modo autonomo, altre come componente imprescindibile di uno status di onorabilità. L’albo dei promotori finanziari Si pensi, ad esempio, all’ordinamento che regola l’accesso all’albo dei promotori finanziari. I requisiti di onorabilità e professionalità necessari per l’iscrizione a tale albo sono fissati dal regolamento del Ministro dell’Economia n. 472 dell’11 novembre 1998. La potestà regolamentare è stata attribuita dall’art. 31 comma 5 del Decreto Legislativo n. 58/1998. Il testo vigente esclude il requisito dell’onorabilità a fronte di condanne penali di un certo tipo ma lo ripristina in presenza della riabilitazione per tali condanne. Questa disciplina implica necessariamente l’attribuzione della natura di effetto penale all’impossibilità di iscrizione derivante dalla condanna penale, poiché diversamente sarebbe privo di senso giuridico il riferimento all’effetto sanante della riabilitazione, la cui funzione è appunto di estinguere le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna. Conclusione avallata dalla Comunicazione CONSOB n. DIN/51191 del 4 luglio 2000 in cui si afferma che “le preclusioni all’accesso all’Albo dei promotori finanziari disposte dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.m. 472/1998 devono essere qualificate tra gli effetti penali della sentenza di condanna”. Data la struttura gerarchica delle fonti del diritto, né un regolamento ministeriale né la risoluzione di un’autorità amministrativa indipendente avrebbero potuto concepire questa classificazione se una fonte legislativa di rango superiore non glielo avesse consentito o imposto. Questa fonte non può essere il Decreto Legislativo 58/1998 che si è limitato ad attribuire la competenza regolamentare al Ministero dell’Economia e neanche una qualsiasi norma del Codice penale, nessuna di esse contenendo una descrizione contenutistica cui appigliarsi. Cos’è allora che permette o impone di considerare la preclusione all’accesso all’albo in conseguenza di una condanna un effetto penale estinguibile dalla riabilitazione? Un formidabile aiuto viene dalla sentenza 211/1993 della Consulta. In un suo passaggio testuale, anche se di rimando all’ordinanza che ha sollevato la questione di illegittimità, si legge che “gli effetti penali della condanna devono discendere da una fattispecie normativa compresa fra le fonti del diritto penale, dovendo obbedire agli stessi principi che disciplinano la materia penale”. I principi, appunto. È adesso facile, coerentemente alla prospettiva tracciata nei precedenti paragrafi, individuare nel finalismo rieducativo della pena, sancito dall’art. 27 comma 3 Cost., il principio di maggior rilievo in materia. La preclusione all’accesso a un albo impedisce l’esercizio di una facoltà giuridica ed è quindi una sanzione ed un effetto penale nel senso precisato dalla sentenza 32438/2016. Non può quindi sfuggire al raggio applicativo del citato articolo costituzionale il quale impedisce di attribuire alla sanzione penale uno scopo diverso da quello rieducativo. Sicché sarebbe giuridicamente insensato negare a un condannato riabilitato (quindi rieducato per definizione) la chance di esercitare una professione di cui possieda i requisiti e le competenze. Fin qui la disciplina dei promotori finanziari, la cui chiarezza è ovviamente agevolata dal tenore letterale del pertinente complesso normativo. Esistono però altri ordinamenti professionali più complicati. La disciplina dell’ordinamento forense Un esempio significativo può essere individuato nella Legge 247/2012 contenente la vigente disciplina dell’ordinamento professionale forense, il cui art. 17 comma 1 lettera f) preclude l’iscrizione all’albo degli avvocati a coloro che abbiano riportato condanna per uno dei reati ivi previsti. La Legge 247 non contiene per contro alcuna norma che attribuisca alla riabilitazione e istituti analoghi l’idoneità ad estinguere la preclusione. Può questo silenzio essere interpretato nel senso che lo sbarramento dell’art. 17 non sia un effetto penale? La risposta a questa domanda passa preliminarmente attraverso l’esame di un altro “silenzio” legislativo, quello sul significato e sul contenuto della categoria degli effetti penali. Tutte le volte che il legislatore menziona un istituto senza definirlo, sta per ciò stesso affidando agli interpreti il compito di dargli un contenuto significativo e conforme alla ratio legis. Ciò perché una disciplina di dettaglio è impossibile o inopportuna. Si torna così, necessariamente, alla giurisprudenza citata nella parte iniziale di questo scritto, cui va riconosciuto il valore di statuto degli effetti penali. Si deve allora convenire, applicandone i parametri al caso concreto, che l’effetto preclusivo trova la sua unica fonte nell’accertamento giudiziale definitivo, si produce automaticamente dal momento che nessuno spazio discrezionale è lasciato all’organismo competente, cioè il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati al quale l’istante presenta la sua domanda di ammissione, e ha una chiara natura sanzionatoria poiché implica la preclusione all’esercizio di una facoltà giuridica. Un effetto penale della condanna, dunque, con tutto ciò che consegue in ordine alla sua estinguibilità e comunque all’operatività dei principi propri della materia penale. È scontato che questa soluzione si attagli non solo all’ordinamento professionale degli avvocati ma a qualunque altro ordinamento del genere che contempli situazioni giuridiche dotate delle medesima caratteristiche. Prima di abbandonare l’argomento, è giusto menzionare un consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità che nega alla riabilitazione (o provvedimenti di analoga natura) l’idoneità a ripristinare automaticamente l’ulteriore requisito della condotta irreprensibile, anch’esso richiesto dall’art. 17 della Legge 247. È una visione senz’altro condivisibile che non entra affatto in conflitto con le argomentazioni utilizzate in precedenza. Un conto è infatti attribuire alla preclusione derivante da condanne la natura di effetto penale, altro conto è affermare che l’organismo competente in materia di albo degli avvocati conservi un suo potere valutativo sul significato che la condotta accertata in sede penale assume riguardo all’affidabilità professionale di chi, pur rieducato, si affacci ad una professione che richiede requisiti morali di alto profilo. La legge Severino Un’ulteriore questione degna di nota attiene agli istituti di incandidabilità e decadenza creati dal Decreto legislativo 235/2012, meglio noto come Legge Severino dal nome del Guardasigilli pro – tempore [si rinvia, per un approfondimento sistematico dell’argomento, a Vincenzo Nico D’Ascola, “Alla ricerca di un diritto che non c’è. La presunta retroattività della “Legge Severino” tra derive sistematiche e suggestioni moralistiche”, Archivio penale, 2014, n. 1]. Il provvedimento vieta di candidarsi e di continuare a detenere la carica di parlamentare a coloro che hanno riportato condanne definitive per i reati indicati nel suo art. 1. Demanda inoltre alla Camera di appartenenza, quando una causa di incandidabilità si manifesti durante il mandato elettivo, una deliberazione ai sensi dell’art. 66 Cost. È da sottolineare, come dettaglio rilevante, che il Decreto 235 non contiene alcuna norma transitoria sicchè è interamente lasciato agli interpreti il compito di stabilire se le sue disposizioni siano applicabili a situazioni maturate prima della sua entrata in vigore. Diventa di conseguenza imprescindibile la qualificazione giuridica delle misure ivi previste. L’applicazione retroattiva di queste è infatti possibile solo se si esclude la loro natura di istituti appartenenti al diritto penale sostanziale e muniti di valenza sanzionatoria e gli si assegna per contro la funzione di semplice presa d’atto della perdita di un requisito di eleggibilità. Non pare dubbio che la scelta debba propendere per la prima opzione se solo si considera che le misure in esame presentano caratteristiche di piena congruenza ai criteri messi a fuoco dalla nostra giurisprudenza di legittimità e a quelli adottati dalla Corte di Strasburgo. Esse derivano infatti, strettamente, da una condanna penale definitiva, non lasciano alcun significativo spazio di discrezionalità alla Camera chiamata ad applicarle, comportano un’incapacità giuridica rilevante (anche per la durata che non può essere inferiore a sei anni ed è aumentata se il reato per cui c’è stata condanna è caratterizzato in certi modi) che attiene per di più al diritto costituzionale di elettorato passivo e che penalizza, sia pure indirettamente, il diritto di elettorato attivo di coloro che hanno votato il candidato destinatario della sanzione. A ciò si aggiunga che l’art. 15 comma 3 della Legge Severino attribuisce alla riabilitazione la capacità di estinguere l’incandidabilità, con ciò riconoscendone la natura di effetto penale. Chiaro allora che l’incandidabilità non può essere applicata retroattivamente, a pena di violare il divieto di irretroattività sfavorevole sancito dalla Costituzione e dalla CEDU. Eppure, il 27 novembre 2013 un parlamentare, sulla base di una condanna precedente all’entrata in vigore del Decreto legislativo 235, è stato dichiarato decaduto dalla sua Camera di appartenenza. L’interessato ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo e nel luglio del 2016 si è appreso che questa ne ha avviato l’esame (il che implica una valutazione positiva sulla ricevibilità) ed ha inviato il Governo italiano a controdedurre. Se si considerasse la questione esclusivamente dal punto di vista statistico, si constaterebbe che il 90% circa dei ricorsi presentati a Strasburgo non superano il primo filtro ma, quando ci riescono, sono accolti in una percentuale che supera l’80%. Non sarebbe azzardato perciò immaginare che a questo punto il ricorso di quel senatore ha ottime chance di successo. E se così fosse, si sarebbe persa un’altra occasione per evitare figuracce di fronte ai nostri partner europei. Ciò che più conta, come osserva D’Ascola nello scritto citato in precedenza, “La vicenda della quale ci siamo occupati di tutto ciò costituisce una preoccupante dimostrazione. Nessuno – almeno a parole – nega il principio di irretroattività sfavorevole. D’altronde un’affermazione così grossolanamente falsa sarebbe risultata improponibile. Piuttosto si preferisce eluderlo, negandone l’efficacia negli spazi immensi destinati ai giudizi morali. Oggi non importa se ciò avviene al prezzo di sacrificare i principi generali sui quali si è retta – per lo meno sin qui – la nostra civiltà del diritto. Si fa finta di nulla. Tutto ciò lascia intravedere un futuro molto ricco di efficacia punitiva, ma poverissimo sul piano delle garanzie”. Risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni Un altro caso di particolare interesse, anch’esso emblematico della proliferazione delle conseguenze della condanna penale in ambito extrapenale, è costituito dall’istituto del risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni. La sua attuale disciplina, configurata nell’ambito della responsabilità per danno erariale, è contenuta nell’art. 1 comma 1° sexies della L. 20/1994 (come riformato dall’art. 1 comma 62 della Legge 190/2012) il quale stabilisce che “nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertata con sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra attività illecitamente percepita dal dipendente”. Si introduce in tal modo il cosiddetto criterio del duplo, fondato sulla presunzione, apparentemente iuris tantum ma quasi impossibile da contrastare alla luce dei più diffusi criteri di determinazione del danno, che la condotta del dipendente condannato per un reato contro la p.a. abbia prodotto un danno di entità doppia rispetto al valore economico dell’utilità illecitamente perseguita. Sentiamo cosa dicono al riguardo le Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei Conti nella sentenza 8/2015. Occorre, a loro avviso, “cogliere alcuni tratti della responsabilità per danno pubblico che, pur rimanendo di chiara impronta civilistica, partecipa di alcuni caratteri tipici della responsabilità penale che è dominata da principi anche di matrice costituzionale. Ci si riferisce al principio di legalità ed ai suoi corollari: il primo, che trova la sua massima espressione nell’art. 25 Cost. e nell’art. 7 della Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; i secondi (corollari), che ai fini che ne occupano hanno una certa rilevanza ed attengono ai principi di tassatività, determinatezza (o cosiddetta “precisione”) e al divieto di analogia … Si vuole solo ricordare la natura anche personale e sanzionatoria – e quindi afflittiva – della responsabilità amministrativa, e che la fattispecie di danno all’immagine della P.A. qui in rassegna è posta in stretta correlazione con l’accertamento di reati accertati con sentenza irrevocabile, con ciò anche derogandosi al generale principio di separatezza tra giudizio penale e giudizio contabile. Parole ancora una volta inequivocabili che consegnano l’istituto in esame all’area degli effetti penali della sentenza di condanna. La confisca per equivalente Si chiude questo sottoparagrafo con l’istituto della confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter comma 2 CP, a norma del quale “… è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto”. La sentenza 31671/2015 delle Sezioni uniti penali della Cassazione è chiarissima al riguardo: “questa particolare figura di confisca, prevista dall’art. 322 ter c.p., per il profitto o il prezzo di taluni reati contro la pubblica amministrazione, viene ormai pacificamente ritenuta dalla giurisprudenza di questa Corte di natura sanzionatoria. Si è infatti osservato, al riguardo, che, avendo la L. n. 300 del 2000, introduttiva dell’art. 322 ter c.p., espressamente previsto, all’art. 15, la irretroattività della confisca per equivalente del prezzo del reato, una simile opzione si appalesa sintomatica del fatto che il legislatore ha configurato l’ablazione del patrimonio del reo, in proporzione corrispondente all’arricchimento provocato dall’illecito quale misura sostanzialmente sanzionatoria. La confisca per equivalente, infatti, viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. E’ evidente, infatti, che, essendo la confisca di valore parametrata al profitto od al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista ‘quantitativo’, l’oggetto della ablazione finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale, in sè, non presenta alcun elemento di collegamento col reato; il che consente di declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria”. Lo stesso vale naturalmente per la confisca per equivalente in ambito penale - tributario, introdotta dall’art. 1 comma 143 della Legge 244/2007 il quale ha esteso l’art. 322 ter CP ad alcune delle ipotesi di reato previste dal Decreto legislativo 74/2000. La natura sanzionatoria anche di questa particolare tipologia di confisca (e quindi la sua irretroattività) è stata riconosciuta dalla Suprema Corte con la sentenza 18308/2014. Ancora un effetto penale, dunque. La casistica di questi anni consegna all’interprete casi ben più numerosi di quelli qui analizzati. Varrebbe senz’altro la pena esaminarli singolarmente ma questo scritto si accontenta di una riflessione generale nella quale le situazioni specifiche entrano solo perché utili per scopi argomentativi e esemplificativi. Del resto, gli istituti presi in considerazione danno già sufficientemente l’idea di quanto magmatico e azzardato sia diventato l’apparato sanzionatorio varato dal legislatore e di quanto spesso le sue fondamenta siano fragili. c) Le pene accessorie La regolamentazione generale delle pene accessorie è contenuta negli artt. 19 e 20 del Codice penale. Il primo le elenca e le differenzia secondo che si applichino ai delitti o alle contravvenzioni. Il secondo ha cura di precisare che esse conseguono di diritto alla condanna in quanto effetti penali della stessa. Il loro scopo, come suggerisce l’aggettivazione legislativa, è di completare il trattamento sanzionatorio del reo nei casi in cui risulterebbe inadeguato se affidato alla sola pena principale. Sembrerebbe a prima vista che queste misure, proprio perché oggetto di una specifica elencazione nella parte generale del Codice penale, costituiscano un numero chiuso. In realtà non è così. Già lo stesso Codice menziona in più occasioni pene accessorie diverse da quelle contemplate dall’art. 19 (art. 544 sexies, 600 septies – 2, 603 ter e 609 nonies). Ad esse si aggiungono quelle ulteriori previste dalle leggi speciali in tema di alimenti e bevande, fallimento, stupefacenti, truffe sportive e scommesse clandestine, reati finalizzati alla discriminazione e all’odio razziale o religioso ed ancora dal Codice della navigazione e dalle leggi sulla pesca marittima e sull’inquinamento ed altre ancora. Fatta questa ricognizione preliminare, è opportuno evidenziare che, in virtù dell’espressa indicazione legislativa contenuta nel citato art. 20, le pene accessorie sono effetti penali delle sentenze di condanna, ponendosi rispetto a questi in rapporto di specie a genere. Non sono mancati per la verità orientamenti che dubitano di quest’appartenenza ma il criterio letterale non lascia spazio a interpretazioni creative. La questione vera è un’altra: esistono situazioni giuridiche che, pur non essendo classificate esplicitamente come pene accessorie, potrebbero comunque essere assimilate a queste, almeno secondo taluni orientamenti interpretativi. Si analizzeranno adesso due casi interessanti e simbolici. Spese processuali Il primo è quello delle spese processuali. Afferma l’art. 535 CPP che “La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali”. Qual è il fondamento di questo obbligo, quale lo scopo che il legislatore si prefigge per suo tramite? Un’ottima risposta è stata data dalla sentenza 98/1998 della Consulta. La questione riguardava l’illegittimità dell’art. 188 comma 2 CP il quale, pur affermando l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligo del condannato di rimborsare le spese di mantenimento carcerario, non conteneva un’analoga disposizione per il rimborso delle spese processuali. Con una sentenza additiva, la Corte costituzionale dichiarò fondata la questione, affermando l’illegittimità della disposizione per contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 27 comma 2 Cost. Ritenne decisivo a tal fine l’art. 56 dell’Ordinamento penitenziario il quale ha ammesso la rimessione del debito per le spese processuali e di mantenimento carcerario a favore dei condannati e internati che si trovino in disagiate condizioni economiche e abbiano tenuto una condotta regolare. L’introduzione di tale istituto, soprattutto alla luce dei suoi presupposti soggettivi e oggettivi, indusse la Consulta a ritenere che il rimborso delle spese processuali avesse mutato la sua natura giuridica: “non più obbligazione civile retta dai comuni principî della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare denota … il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull’adempimento dell’obbligo economico … Non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era già riconosciuta proprio dall’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a seguito della entrata in vigore dell’articolo 56 dell’ordinamento penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine qualificatoria”. In un altro passaggio motivazionale, la sentenza evidenzia “le nuove potenzialità dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue già disagiate condizioni”. Una decisione chiara, ben argomentata e proveniente dal giudice delle leggi. Poteva e doveva costituire un approdo definitivo, almeno secondo il comune mortale. Non è stato così. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, pronunciatasi sul medesimo argomento con la sentenza 28081/2013, ha ritenuto che “la modificazione in quei termini della natura del debito di rimborso delle spese processuali, rilevata dalla Corte Costituzionale … non comporta necessariamente che l’obbligazione di pagamento delle spese processuali abbia preso, in tutto e per tutto, le caratteristiche di una vera e propria pena accessoria … ciò viene confermato dalla circostanza che la pronuncia della Corte Costituzionale ha ricalibrato il regime dell’obbligo al rimborso delle spese processuali su quello del rimborso delle spese di mantenimento in carcere, con l’intervento sul secondo comma dell’articolo 188 c.p., ed estensione al debito di pagamento delle spese processuali della relativa disciplina di personalizzazione dell’obbligo, che peraltro il primo comma del medesimo articolo sottopone inequivocabilmente alla disciplina delle leggi civili”. È chiaro, e non lo si vuole certo negare, che l’interpretazione giuridica è libera. Ma dovrebbero far parte del suo standard minimo la correttezza e la precisione dei riferimenti. La lettura della sentenza 98/1998 fa comprendere che la Consulta ha escluso con la massima chiarezza la natura di obbligazione civile del debito per le spese processuali e quelle di mantenimento. La pronuncia della Cassazione, dimentica di questa esclusione, risulta quindi fondata su un presupposto oggettivamente errato. Se ne prende atto e proprio per questo si ritiene di ribadire che le spese processuali, al pari di quelle per il mantenimento carcerario, non sono un’obbligazione civile ma una sanzione accessoria alla pena sicché rientrano a buon diritto nel genus degli effetti penali della sentenza di condanna. Il secondo e ultimo caso è quello dell’ordine di demolizione delle opere abusivamente edificate e della loro confisca (rispettivamente previsti dagli artt. 31 comma 9 e 44 comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 380/2001). Piuttosto di recente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9949/2016, ha affermato che “Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale … Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall’incidenza della misura sul bene. In tal senso, non sembra ricorrere neppure l’ulteriore ‘indice diagnostico’ della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell’assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante”. Basta un’occhiata alla giurisprudenza di merito per rendersi conto che non tutti la pensano così. Ad esempio, secondo il Tribunale di Asti, sentenza del 3 novembre 2014, [commentata da Giulia Bucchi Siena, “Strasburgo chiama, Asti risponde: l’ordine di demolizione è una pena e si prescrive”, Archivio penale, 2015, n.1],l’ordine di demolizione è una pena ad ogni effetto ed è quindi soggetta a prescrizione. Quanto infine alla confisca e ai diversi modi di intenderne la natura, sia consentito il rinvio a V. Giglio [“L’insostenibile lontananza di Strasburgo”, 11 luglio 2016, in questa rivista]. 5. Considerazioni finali Un’espressione generica – effetti penali – trascurata dal legislatore, che non si è neanche preoccupato di definirla, e dagli interpreti, che vi accostano in genere con una certa noncuranza. Eppure quelle due parole e il contenitore cui rimandano hanno un peso di non poco conto. Nelle vite dei condannati, anzitutto. Nella civiltà giuridica del nostro Paese, subito dopo. Tutto dipende, come si è tentato di dimostrare, dall’uso che se ne fa: torture permanenti di una “società punitiva” o piccoli laboratori da usare al servizio del fine rieducativo delle pena; gabbie entro cui spegnere ogni speranza di reinserimento del reo o strumenti flessibili per assecondarlo. E si può dire che è tutto. 1. Introduzione Varie norme del codice penale (di seguito CP) contengono l’espressione che dà il titolo a questo scritto. L’art. 2 comma 2: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. L’art. 20: “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa”. L’art. 77 comma 1: “Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati”. L’art. 106: “Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena. Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali”. L’art. 174: “L’’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna”. L’art. 178: “La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti”. La stessa espressione è poi contenuta negli artt. 12, 556 comma 3 e 609 nonies CP. Anche il codice di procedura penale (di seguito CPP) contiene espliciti riferimenti in tal senso negli artt. 445, 572, 587, 622 e 669. Dal canto suo la Legge 354 del 1975, meglio nota come Ordinamento penitenziario, prevede nell’art. 47 comma 12 che “L’esito positivo della prova estingue la pena e ogni altro effetto penale”. Lo stesso fa l’art. 93 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 (Testo unico sugli stupefacenti) il quale prevede l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale a beneficio del condannato per reati in materia di stupefacenti che li abbia commessi in conseguenza della sua condizione di tossicodipendenza, sempre che abbia attuato il programma terapeutico che gli è stato assegnato e non commetta nuovi delitti non colposi nel quinquennio successivo alla sospensione dell’esecuzione. Una locuzione ricorrente, dunque, e nella maggior parte dei casi utilizzata in collegamento ad un fenomeno estintivo. Serve allora comprenderne il significato e l’ambito applicativo. Non si tratta tuttavia di un’operazione semplice, per due ragioni essenziali: il legislatore non ha offerto alcuna definizione degli effetti penali; è sempre più intenso il collegamento di effetti pregiudizievoli operanti in ambito extrapenale a sentenze di condanna in sede penale. 2. Il punto di vista della giurisprudenza Il punto di partenza obbligato è facilmente individuabile nella ormai risalente sentenza n. 7/1994, emessa dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione nel procedimento VOLPE. Il collegio chiarì nell’occasione che: “Gli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possono determinare quell’effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, “ope legis”, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale”. Le Sezioni unite individuarono dunque tre requisiti indefettibili: l’esistenza di un rapporto causale necessario tra una condanna penale irrevocabile e l’effetto, l’automaticità di questo e la sua natura sanzionatoria che rimane tale anche allorché si esplichi in un ambito diverso da quello penale. L’orientamento espresso dal Supremo collegio non è stato smentito dalla giurisprudenza successiva che anzi l’ha arricchito di nuovi e più avanzati significati. Si legge ad esempio nella recente sentenza n. 32428/2016 della prima sezione penale della Corte di Cassazione che: “Per “effetto penale” della condanna deve intendersi ogni conseguenza di essa che si risolva in incapacità giuridiche o che comporti limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà o alla possibilità di ottenere benefici o che rappresenti il presupposto di inasprimento del sistema precettivo o sanzionatorio riguardante il successivo comportamento del soggetto”. Il riferimento a concetti come incapacità giuridiche, limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà e possibilità di ottenere benefici accentua significativamente la proiezione extrapenale degli effetti penali, che già le Sezioni unite del 1994 avevano riconosciuto. 3. L’effettiva latitudine della categoria degli effetti penali e la loro estensione agli ambiti extrapenali È piuttosto controverso in dottrina se gli effetti penali possano dispiegarsi anche in ambiti diversi da quello di provenienza. Un primo orientamento nega questa possibilità. Il suo fondamento viene principalmente individuato in un argomento di ordine letterale: il legislatore ha usato l’espressione “effetti penali della condanna” – anziché quella, pure astrattamente possibile, di “effetti della condanna penale” -intendendo così esplicitare che questa può produrre effetti solo nell’ambito suo proprio, quello della legge penale. La ragione sottostante – si aggiunge – è l’affermazione del principio garantistico del favor rei che sarebbe frustrato se si ammettesse che l’affermazione di responsabilità in sede penale possa produrre conseguenze negative anche in ambiti differenti. Un secondo e contrapposto orientamento ammette invece l’estensione extrapenale degli effetti penali. Anche questa posizione dottrinale è dichiaratamente giustificata da un intento garantista. I suoi sostenitori ritengono infatti che la qualificazione in senso penalistico degli effetti pregiudizievoli nascenti da una sentenza di condanna è l’unico mezzo per assoggettarli alla disciplina propria degli istituti penali sostanziali e rendere quindi operative le garanzie derivanti dalla Costituzione e dai principi generali dell’ordinamento. Questo secondo orientamento convince assai più del primo. Non solo perché avallato dalla giurisprudenza penale di legittimità con la sentenza 7/1994 e le successive, ma perché più adatto alla realtà legislativa di questi anni e ad offrire strumenti di salvaguardia della civiltà giuridica altrimenti inapplicabili. Si prende a prestito, per la sua efficacia descrittiva, l’espressione “La società punitiva” usata come titolo di uno scritto nato dalla collaborazione di prestigiosi esponenti della scuola penalistica italiana e pubblicato il 21 dicembre 2016 sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo. Nella visione degli Autori, chiaramente esplicitata dal sottotitolo “Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista”, la legislazione penale di questi anni è stata ispirata da prospettive di fondo ben poco rassicuranti: “Libertà versus sicurezza è il leitmotiv di questa originale tavola rotonda, che rappresenta un tentativo di riflettere su usi e abusi del diritto penale nell’era della complessità: un diritto penale “liquido” si forgia sempre più spesso su esigenze politiche di consenso, di rassicurazione sociale, dimenticando le sue caratteristiche di Magna Charta del reo” [sono le parole usate da Lucia Risicato nell’introduzione allo scritto]. Una riflessione pienamente condivisibile che può e deve essere allargata ad ambiti diversi da quello penale. È indiscutibile che il legislatore stia trasformando il diritto penale in una testa d’ariete, creando incessantemente nuove fattispecie incriminatrici, inasprendo quelle già esistenti, annichilendo l’equilibrio tra le parti processuali mediante scorciatoie probatorie collegate tra l’altro all’aumento costante dei reati di pericolo astratto e di sospetto. Ma accade anche qualcos’altro: sempre più di frequente vengono varate leggi non penali che tuttavia assumono la condanna penale, talvolta anche non definitiva, come unico e indiscutibile presupposto genetico per la produzione di effetti giuridici svantaggiosi in danno dei destinatari. Effetti destinati a incidere in modo pesante e in qualche caso irreparabile in aree costituzionalmente protette: non solo la libertà personale ma anche la proprietà, il patrimonio e il risparmio, il lavoro, il diritto di elettorato ed altro ancora. Ecco, se si ritenesse che questi effetti non sono penali, si escluderebbe per ciò stesso che gli si applichino il fondamentale principio di legalità ed i suoi corollari della riserva di legge, tassatività, divieto di analogia, divieto di irretroattività sfavorevole; si assumerebbe che non rientrano nella sfera protettiva dell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e i diritti fondamentali (di seguito CEDU); si escluderebbe infine la loro cessazione in conseguenza di uno dei provvedimenti estintivi previsti dalla legge. Non serve altro per dimostrare che un’eventualità del genere violerebbe precetti costituzionali primari e renderebbe quel “diritto penale liquido” ancora più punitivo e incoerente rispetto a quanto ci si attende da uno Stato di diritto. Si ritiene perciò di ribadire convintamente che in una visione costituzionalmente orientata devono essere considerati effetti penali tutti gli effetti giuridici pregiudizievoli che posseggano i requisiti indicati dalle Sezioni unite con la sentenza 7/1994. Requisiti che, è bene ricordarlo, sono perfettamente in sintonia con i criteri Engel, così denominati perché affermati dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Engel c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976. Nella visione del giudice di Strasburgo, infatti, una misura ha natura penale se è classificata espressamente come tale dallo Stato che la sancisce o se è conseguenza della violazione di una norma che tutela beni giuridici dell’intera collettività o se ha una natura afflittiva grave, strumentale a fini di prevenzione sociale generale. 4. Le situazioni giuridiche classificabili come effetti penali La conclusione appena tracciata equivale a riconoscere che la sentenza penale di condanna è idonea a produrre effetti non solo diretti, cioè compresi nell’ambito della cosa giudicata, ma anche indiretti, in grado di agire oltre quella nozione e i suoi limiti. Il che è come dire, usando le parole di Francesco Carnelutti, che dalla sentenza deriva un giudizio vincolante in ordine al presupposto di una situazione giuridica, altra e diversa rispetto a quella che ha costituito oggetto del processo [il richiamo al pensiero del Carnelutti e alcuni passaggi classificatori ed esemplificativi contenuti in questo scritto sono stati ispirati da Alessandra Sanna, “Effetti penali della sentenza a pena concordata: il peso insostenibile di una condanna senza giudizio di colpevolezza” in Cassazione penale, dicembre 2013, n. 12]. Non finisce qui però il compito dell’interprete, occorrendo ancora individuare in concreto le situazioni giuridicamente rilevanti che possiedono quei caratteri e producono quei risultati. È un’operazione piuttosto complicata perché, come spesso accade nella scienza giuridica, soprattutto quando il legislatore lascia briglie sciolte, il dibattito registra varie opinioni e orientamenti. a) Gli effetti penali in ambito penale ed extrapenale chiaramente esplicitati dal legislatore Le cose sono abbastanza semplici, e non richiedono scelte interpretative rilevanti, nei casi in cui il rapporto di collegamento sia esplicitamente previsto dal legislatore. Questo può avvenire anzitutto attraverso norme che subordinino la realizzazione di una fattispecie giuridicamente rilevante di tipo penale, civile, amministrativo, disciplinare e contabile all’accertamento giudiziale di un pregresso reato. Rientra certamente in questo ambito la previsione dell’art. 185 CP secondo la quale “Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”, chiaramente speculare a quelle contenute negli artt. 651 e seguenti del CPP. Lo stesso può dirsi, questa volta interamente all’interno del giudizio penale, in riferimento all’art. 238 bis CPP il quale consente l’acquisizione di sentenze irrevocabili emesse in altri procedimenti penali ed attribuisce ad esse valore di prova dei fatti ivi accertati, sia pure nel rispetto del criterio valutativo indicato nell’art. 192 comma 3 CPP. È comune in questi casi un effetto preclusivo del potere discrezionale del giudice del procedimento ad quem, essendo questi tenuto ad uniformarsi all’accertamento già compiuto nel procedimento a quo. È una regola logica e razionale, che protegge tre importanti interessi: la non contraddizione (la tenuta dell’ordinamento sarebbe messa in difficoltà se più pronunce giudiziali arrivassero a conclusioni differenti sullo stesso oggetto), l’economia dei mezzi processuali (è insensato ripetere in una sede giudiziale accertamenti già compiuti in altra sede) e la ragionevole durata dei processi (che sarebbe ingiustificatamente compromessa da inutili duplicazioni di accertamenti). La situazione appena descritta può essere anche il frutto di norme regolatrici di fattispecie sostanziali. Questo avviene quando una fattispecie di tal genere comprende tra i suoi elementi costitutivi un reato o, per meglio dire, la sentenza che lo ha accertato. Sono sicure manifestazioni di questo fenomeno l’inapplicabilità del beneficio della sospensione condizionale della pena e la sua revoca, l’applicazione delle recidiva obbligatoria e la dichiarazione dello status di delinquente abituale o professionale, istituti tutti collegati ad una condanna penale. Lo stesso si può dire per fattispecie incriminatrici come il possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli, applicabili solo in presenza di una pregressa sentenza di condanna. b) Gli effetti penali risultanti dall’applicazione del criterio interpretativo offerto dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione Fin qui l’argomentare è stato facile poiché si è giovato di un percorso guidato esplicitamente dallo stesso legislatore. L’universo giuridico contiene tuttavia molteplici disposizioni normative non altrettanto esplicite che però sanciscono effetti dannosi a carico di taluni in diretta conseguenza di una sentenza penale di condanna. Un primo caso è rappresentato dal complesso di previsioni che precludono, sul presupposto di una condanna penale, l’accesso a determinate posizioni lavorative, spesso collegate all’iscrizione ad un albo professionale. Una rapida ricognizione dei vari ordinamenti professionali evidenzia la generale necessità del requisito dell’assenza di condanne penali, alcune volte sancito in modo autonomo, altre come componente imprescindibile di uno status di onorabilità. L’albo dei promotori finanziari Si pensi, ad esempio, all’ordinamento che regola l’accesso all’albo dei promotori finanziari. I requisiti di onorabilità e professionalità necessari per l’iscrizione a tale albo sono fissati dal regolamento del Ministro dell’Economia n. 472 dell’11 novembre 1998. La potestà regolamentare è stata attribuita dall’art. 31 comma 5 del Decreto Legislativo n. 58/1998. Il testo vigente esclude il requisito dell’onorabilità a fronte di condanne penali di un certo tipo ma lo ripristina in presenza della riabilitazione per tali condanne. Questa disciplina implica necessariamente l’attribuzione della natura di effetto penale all’impossibilità di iscrizione derivante dalla condanna penale, poiché diversamente sarebbe privo di senso giuridico il riferimento all’effetto sanante della riabilitazione, la cui funzione è appunto di estinguere le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna. Conclusione avallata dalla Comunicazione CONSOB n. DIN/51191 del 4 luglio 2000 in cui si afferma che “le preclusioni all’accesso all’Albo dei promotori finanziari disposte dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.m. 472/1998 devono essere qualificate tra gli effetti penali della sentenza di condanna”. Data la struttura gerarchica delle fonti del diritto, né un regolamento ministeriale né la risoluzione di un’autorità amministrativa indipendente avrebbero potuto concepire questa classificazione se una fonte legislativa di rango superiore non glielo avesse consentito o imposto. Questa fonte non può essere il Decreto Legislativo 58/1998 che si è limitato ad attribuire la competenza regolamentare al Ministero dell’Economia e neanche una qualsiasi norma del Codice penale, nessuna di esse contenendo una descrizione contenutistica cui appigliarsi. Cos’è allora che permette o impone di considerare la preclusione all’accesso all’albo in conseguenza di una condanna un effetto penale estinguibile dalla riabilitazione? Un formidabile aiuto viene dalla sentenza 211/1993 della Consulta. In un suo passaggio testuale, anche se di rimando all’ordinanza che ha sollevato la questione di illegittimità, si legge che “gli effetti penali della condanna devono discendere da una fattispecie normativa compresa fra le fonti del diritto penale, dovendo obbedire agli stessi principi che disciplinano la materia penale”. I principi, appunto. È adesso facile, coerentemente alla prospettiva tracciata nei precedenti paragrafi, individuare nel finalismo rieducativo della pena, sancito dall’art. 27 comma 3 Cost., il principio di maggior rilievo in materia. La preclusione all’accesso a un albo impedisce l’esercizio di una facoltà giuridica ed è quindi una sanzione ed un effetto penale nel senso precisato dalla sentenza 32428/2016. Non può quindi sfuggire al raggio applicativo del citato articolo costituzionale il quale impedisce di attribuire alla sanzione penale uno scopo diverso da quello rieducativo. Sicché sarebbe giuridicamente insensato negare a un condannato riabilitato (quindi rieducato per definizione) la chance di esercitare una professione di cui possieda i requisiti e le competenze. Fin qui la disciplina dei promotori finanziari, la cui chiarezza è ovviamente agevolata dal tenore letterale del pertinente complesso normativo. Esistono però altri ordinamenti professionali più complicati. La disciplina dell’ordinamento forense Un esempio significativo può essere individuato nella Legge 247/2012 contenente la vigente disciplina dell’ordinamento professionale forense, il cui art. 17 comma 1 lettera f) preclude l’iscrizione all’albo degli avvocati a coloro che abbiano riportato condanna per uno dei reati ivi previsti. La Legge 247 non contiene per contro alcuna norma che attribuisca alla riabilitazione e istituti analoghi l’idoneità ad estinguere la preclusione. Può questo silenzio essere interpretato nel senso che lo sbarramento dell’art. 17 non sia un effetto penale? La risposta a questa domanda passa preliminarmente attraverso l’esame di un altro “silenzio” legislativo, quello sul significato e sul contenuto della categoria degli effetti penali. Tutte le volte che il legislatore menziona un istituto senza definirlo, sta per ciò stesso affidando agli interpreti il compito di dargli un contenuto significativo e conforme alla ratio legis. Ciò perché una disciplina di dettaglio è impossibile o inopportuna. Si torna così, necessariamente, alla giurisprudenza citata nella parte iniziale di questo scritto, cui va riconosciuto il valore di statuto degli effetti penali. Si deve allora convenire, applicandone i parametri al caso concreto, che l’effetto preclusivo trova la sua unica fonte nell’accertamento giudiziale definitivo, si produce automaticamente dal momento che nessuno spazio discrezionale è lasciato all’organismo competente, cioè il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati al quale l’istante presenta la sua domanda di ammissione, e ha una chiara natura sanzionatoria poiché implica la preclusione all’esercizio di una facoltà giuridica. Un effetto penale della condanna, dunque, con tutto ciò che consegue in ordine alla sua estinguibilità e comunque all’operatività dei principi propri della materia penale. È scontato che questa soluzione si attagli non solo all’ordinamento professionale degli avvocati ma a qualunque altro ordinamento del genere che contempli situazioni giuridiche dotate delle medesima caratteristiche. Prima di abbandonare l’argomento, è giusto menzionare un consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità che nega alla riabilitazione (o provvedimenti di analoga natura) l’idoneità a ripristinare automaticamente l’ulteriore requisito della condotta irreprensibile, anch’esso richiesto dall’art. 17 della Legge 247. È una visione senz’altro condivisibile che non entra affatto in conflitto con le argomentazioni utilizzate in precedenza. Un conto è infatti attribuire alla preclusione derivante da condanne la natura di effetto penale, altro conto è affermare che l’organismo competente in materia di albo degli avvocati conservi un suo potere valutativo sul significato che la condotta accertata in sede penale assume riguardo all’affidabilità professionale di chi, pur rieducato, si affacci ad una professione che richiede requisiti morali di alto profilo. La legge Severino Un’ulteriore questione degna di nota attiene agli istituti di incandidabilità e decadenza creati dal Decreto legislativo 235/2012, meglio noto come Legge Severino dal nome del Guardasigilli pro – tempore [si rinvia, per un approfondimento sistematico dell’argomento, a Vincenzo Nico D’Ascola, “Alla ricerca di un diritto che non c’è. La presunta retroattività della “Legge Severino” tra derive sistematiche e suggestioni moralistiche”, Archivio penale, 2014, n. 1]. Il provvedimento vieta di candidarsi e di continuare a detenere la carica di parlamentare a coloro che hanno riportato condanne definitive per i reati indicati nel suo art. 1. Demanda inoltre alla Camera di appartenenza, quando una causa di incandidabilità si manifesti durante il mandato elettivo, una deliberazione ai sensi dell’art. 66 Cost. È da sottolineare, come dettaglio rilevante, che il Decreto 235 non contiene alcuna norma transitoria sicchè è interamente lasciato agli interpreti il compito di stabilire se le sue disposizioni siano applicabili a situazioni maturate prima della sua entrata in vigore. Diventa di conseguenza imprescindibile la qualificazione giuridica delle misure ivi previste. L’applicazione retroattiva di queste è infatti possibile solo se si esclude la loro natura di istituti appartenenti al diritto penale sostanziale e muniti di valenza sanzionatoria e gli si assegna per contro la funzione di semplice presa d’atto della perdita di un requisito di eleggibilità. Non pare dubbio che la scelta debba propendere per la prima opzione se solo si considera che le misure in esame presentano caratteristiche di piena congruenza ai criteri messi a fuoco dalla nostra giurisprudenza di legittimità e a quelli adottati dalla Corte di Strasburgo. Esse derivano infatti, strettamente, da una condanna penale definitiva, non lasciano alcun significativo spazio di discrezionalità alla Camera chiamata ad applicarle, comportano un’incapacità giuridica rilevante (anche per la durata che non può essere inferiore a sei anni ed è aumentata se il reato per cui c’è stata condanna è caratterizzato in certi modi) che attiene per di più al diritto costituzionale di elettorato passivo e che penalizza, sia pure indirettamente, il diritto di elettorato attivo di coloro che hanno votato il candidato destinatario della sanzione. A ciò si aggiunga che l’art. 15 comma 3 della Legge Severino attribuisce alla riabilitazione la capacità di estinguere l’incandidabilità, con ciò riconoscendone la natura di effetto penale. Chiaro allora che l’incandidabilità non può essere applicata retroattivamente, a pena di violare il divieto di irretroattività sfavorevole sancito dalla Costituzione e dalla CEDU. Eppure, il 27 novembre 2013 un parlamentare, sulla base di una condanna precedente all’entrata in vigore del Decreto legislativo 235, è stato dichiarato decaduto dalla sua Camera di appartenenza. L’interessato ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo e nel luglio del 2016 si è appreso che questa ne ha avviato l’esame (il che implica una valutazione positiva sulla ricevibilità) ed ha inviato il Governo italiano a controdedurre. Se si considerasse la questione esclusivamente dal punto di vista statistico, si constaterebbe che il 90% circa dei ricorsi presentati a Strasburgo non superano il primo filtro ma, quando ci riescono, sono accolti in una percentuale che supera l’80%. Non sarebbe azzardato perciò immaginare che a questo punto il ricorso di quel senatore ha ottime chance di successo. E se così fosse, si sarebbe persa un’altra occasione per evitare figuracce di fronte ai nostri partner europei. Ciò che più conta, come osserva D’Ascola nello scritto citato in precedenza, “La vicenda della quale ci siamo occupati di tutto ciò costituisce una preoccupante dimostrazione. Nessuno – almeno a parole – nega il principio di irretroattività sfavorevole. D’altronde un’affermazione così grossolanamente falsa sarebbe risultata improponibile. Piuttosto si preferisce eluderlo, negandone l’efficacia negli spazi immensi destinati ai giudizi morali. Oggi non importa se ciò avviene al prezzo di sacrificare i principi generali sui quali si è retta – per lo meno sin qui – la nostra civiltà del diritto. Si fa finta di nulla. Tutto ciò lascia intravedere un futuro molto ricco di efficacia punitiva, ma poverissimo sul piano delle garanzie”. Risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni Un altro caso di particolare interesse, anch’esso emblematico della proliferazione delle conseguenze della condanna penale in ambito extrapenale, è costituito dall’istituto del risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni. La sua attuale disciplina, configurata nell’ambito della responsabilità per danno erariale, è contenuta nell’art. 1 comma 1° sexies della L. 20/1994 (come riformato dall’art. 1 comma 62 della Legge 190/2012) il quale stabilisce che “nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertata con sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra attività illecitamente percepita dal dipendente”. Si introduce in tal modo il cosiddetto criterio del duplo, fondato sulla presunzione, apparentemente iuris tantum ma quasi impossibile da contrastare alla luce dei più diffusi criteri di determinazione del danno, che la condotta del dipendente condannato per un reato contro la p.a. abbia prodotto un danno di entità doppia rispetto al valore economico dell’utilità illecitamente perseguita. Sentiamo cosa dicono al riguardo le Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei Conti nella sentenza 8/2015. Occorre, a loro avviso, “cogliere alcuni tratti della responsabilità per danno pubblico che, pur rimanendo di chiara impronta civilistica, partecipa di alcuni caratteri tipici della responsabilità penale che è dominata da principi anche di matrice costituzionale. Ci si riferisce al principio di legalità ed ai suoi corollari: il primo, che trova la sua massima espressione nell’art. 25 Cost. e nell’art. 7 della Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; i secondi (corollari), che ai fini che ne occupano hanno una certa rilevanza ed attengono ai principi di tassatività, determinatezza (o cosiddetta “precisione”) e al divieto di analogia … Si vuole solo ricordare la natura anche personale e sanzionatoria – e quindi afflittiva – della responsabilità amministrativa, e che la fattispecie di danno all’immagine della P.A. qui in rassegna è posta in stretta correlazione con l’accertamento di reati accertati con sentenza irrevocabile, con ciò anche derogandosi al generale principio di separatezza tra giudizio penale e giudizio contabile. Parole ancora una volta inequivocabili che consegnano l’istituto in esame all’area degli effetti penali della sentenza di condanna. La confisca per equivalente Si chiude questo sottoparagrafo con l’istituto della confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter comma 2 CP, a norma del quale “… è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto”. La sentenza 31671/2015 delle Sezioni uniti penali della Cassazione è chiarissima al riguardo: “questa particolare figura di confisca, prevista dall’art. 322 ter c.p., per il profitto o il prezzo di taluni reati contro la pubblica amministrazione, viene ormai pacificamente ritenuta dalla giurisprudenza di questa Corte di natura sanzionatoria. Si è infatti osservato, al riguardo, che, avendo la L. n. 300 del 2000, introduttiva dell’art. 322 ter c.p., espressamente previsto, all’art. 15, la irretroattività della confisca per equivalente del prezzo del reato, una simile opzione si appalesa sintomatica del fatto che il legislatore ha configurato l’ablazione del patrimonio del reo, in proporzione corrispondente all’arricchimento provocato dall’illecito quale misura sostanzialmente sanzionatoria. La confisca per equivalente, infatti, viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. E’ evidente, infatti, che, essendo la confisca di valore parametrata al profitto od al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista ‘quantitativo’, l’oggetto della ablazione finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale, in sè, non presenta alcun elemento di collegamento col reato; il che consente di declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria”. Lo stesso vale naturalmente per la confisca per equivalente in ambito penale - tributario, introdotta dall’art. 1 comma 143 della Legge 244/2007 il quale ha esteso l’art. 322 ter CP ad alcune delle ipotesi di reato previste dal Decreto legislativo 74/2000. La natura sanzionatoria anche di questa particolare tipologia di confisca (e quindi la sua irretroattività) è stata riconosciuta dalla Suprema Corte con la sentenza 18308/2014. Ancora un effetto penale, dunque. La casistica di questi anni consegna all’interprete casi ben più numerosi di quelli qui analizzati. Varrebbe senz’altro la pena esaminarli singolarmente ma questo scritto si accontenta di una riflessione generale nella quale le situazioni specifiche entrano solo perché utili per scopi argomentativi e esemplificativi. Del resto, gli istituti presi in considerazione danno già sufficientemente l’idea di quanto magmatico e azzardato sia diventato l’apparato sanzionatorio varato dal legislatore e di quanto spesso le sue fondamenta siano fragili. c) Le pene accessorie La regolamentazione generale delle pene accessorie è contenuta negli artt. 19 e 20 del Codice penale. Il primo le elenca e le differenzia secondo che si applichino ai delitti o alle contravvenzioni. Il secondo ha cura di precisare che esse conseguono di diritto alla condanna in quanto effetti penali della stessa. Il loro scopo, come suggerisce l’aggettivazione legislativa, è di completare il trattamento sanzionatorio del reo nei casi in cui risulterebbe inadeguato se affidato alla sola pena principale. Sembrerebbe a prima vista che queste misure, proprio perché oggetto di una specifica elencazione nella parte generale del Codice penale, costituiscano un numero chiuso. In realtà non è così. Già lo stesso Codice menziona in più occasioni pene accessorie diverse da quelle contemplate dall’art. 19 (art. 544 sexies, 600 septies – 2, 603 ter e 609 nonies). Ad esse si aggiungono quelle ulteriori previste dalle leggi speciali in tema di alimenti e bevande, fallimento, stupefacenti, truffe sportive e scommesse clandestine, reati finalizzati alla discriminazione e all’odio razziale o religioso ed ancora dal Codice della navigazione e dalle leggi sulla pesca marittima e sull’inquinamento ed altre ancora. Fatta questa ricognizione preliminare, è opportuno evidenziare che, in virtù dell’espressa indicazione legislativa contenuta nel citato art. 20, le pene accessorie sono effetti penali delle sentenze di condanna, ponendosi rispetto a questi in rapporto di specie a genere. Non sono mancati per la verità orientamenti che dubitano di quest’appartenenza ma il criterio letterale non lascia spazio a interpretazioni creative. La questione vera è un’altra: esistono situazioni giuridiche che, pur non essendo classificate esplicitamente come pene accessorie, potrebbero comunque essere assimilate a queste, almeno secondo taluni orientamenti interpretativi. Si analizzeranno adesso due casi interessanti e simbolici. Spese processuali Il primo è quello delle spese processuali. Afferma l’art. 535 CPP che “La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali”. Qual è il fondamento di questo obbligo, quale lo scopo che il legislatore si prefigge per suo tramite? Un’ottima risposta è stata data dalla sentenza 98/1998 della Consulta. La questione riguardava l’illegittimità dell’art. 188 comma 2 CP il quale, pur affermando l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligo del condannato di rimborsare le spese di mantenimento carcerario, non conteneva un’analoga disposizione per il rimborso delle spese processuali. Con una sentenza additiva, la Corte costituzionale dichiarò fondata la questione, affermando l’illegittimità della disposizione per contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 27 comma 2 Cost. Ritenne decisivo a tal fine l’art. 56 dell’Ordinamento penitenziario il quale ha ammesso la rimessione del debito per le spese processuali e di mantenimento carcerario a favore dei condannati e internati che si trovino in disagiate condizioni economiche e abbiano tenuto una condotta regolare. L’introduzione di tale istituto, soprattutto alla luce dei suoi presupposti soggettivi e oggettivi, indusse la Consulta a ritenere che il rimborso delle spese processuali avesse mutato la sua natura giuridica: “non più obbligazione civile retta dai comuni principî della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare denota … il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull’adempimento dell’obbligo economico … Non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era già riconosciuta proprio dall’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a seguito della entrata in vigore dell’articolo 56 dell’ordinamento penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine qualificatoria”. In un altro passaggio motivazionale, la sentenza evidenzia “le nuove potenzialità dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue già disagiate condizioni”. Una decisione chiara, ben argomentata e proveniente dal giudice delle leggi. Poteva e doveva costituire un approdo definitivo, almeno secondo il comune mortale. Non è stato così. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, pronunciatasi sul medesimo argomento con la sentenza 28081/2013, ha ritenuto che “la modificazione in quei termini della natura del debito di rimborso delle spese processuali, rilevata dalla Corte Costituzionale … non comporta necessariamente che l’obbligazione di pagamento delle spese processuali abbia preso, in tutto e per tutto, le caratteristiche di una vera e propria pena accessoria … ciò viene confermato dalla circostanza che la pronuncia della Corte Costituzionale ha ricalibrato il regime dell’obbligo al rimborso delle spese processuali su quello del rimborso delle spese di mantenimento in carcere, con l’intervento sul secondo comma dell’articolo 188 c.p., ed estensione al debito di pagamento delle spese processuali della relativa disciplina di personalizzazione dell’obbligo, che peraltro il primo comma del medesimo articolo sottopone inequivocabilmente alla disciplina delle leggi civili”. È chiaro, e non lo si vuole certo negare, che l’interpretazione giuridica è libera. Ma dovrebbero far parte del suo standard minimo la correttezza e la precisione dei riferimenti. La lettura della sentenza 98/1998 fa comprendere che la Consulta ha escluso con la massima chiarezza la natura di obbligazione civile del debito per le spese processuali e quelle di mantenimento. La pronuncia della Cassazione, dimentica di questa esclusione, risulta quindi fondata su un presupposto oggettivamente errato. Se ne prende atto e proprio per questo si ritiene di ribadire che le spese processuali, al pari di quelle per il mantenimento carcerario, non sono un’obbligazione civile ma una sanzione accessoria alla pena sicché rientrano a buon diritto nel genus degli effetti penali della sentenza di condanna. Il secondo e ultimo caso è quello dell’ordine di demolizione delle opere abusivamente edificate e della loro confisca (rispettivamente previsti dagli artt. 31 comma 9 e 44 comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 380/2001). Piuttosto di recente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9949/2016, ha affermato che “Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale … Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall’incidenza della misura sul bene. In tal senso, non sembra ricorrere neppure l’ulteriore ‘indice diagnostico’ della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell’assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante”. Basta un’occhiata alla giurisprudenza di merito per rendersi conto che non tutti la pensano così. Ad esempio, secondo il Tribunale di Asti, sentenza del 3 novembre 2014, [commentata da Giulia Bucchi Siena, “Strasburgo chiama, Asti risponde: l’ordine di demolizione è una pena e si prescrive”, Archivio penale, 2015, n.1],l’ordine di demolizione è una pena ad ogni effetto ed è quindi soggetta a prescrizione. Quanto infine alla confisca e ai diversi modi di intenderne la natura, sia consentito il rinvio a V. Giglio [“L’insostenibile lontananza di Strasburgo”, 11 luglio 2016, in questa rivista]. 5. Considerazioni finali Un’espressione generica – effetti penali – trascurata dal legislatore, che non si è neanche preoccupato di definirla, e dagli interpreti, che vi accostano in genere con una certa noncuranza. Eppure quelle due parole e il contenitore cui rimandano hanno un peso di non poco conto. Nelle vite dei condannati, anzitutto. Nella civiltà giuridica del nostro Paese, subito dopo. Tutto dipende, come si è tentato di dimostrare, dall’uso che se ne fa: torture permanenti di una “società punitiva” o piccoli laboratori da usare al servizio del fine rieducativo delle pena; gabbie entro cui spegnere ogni speranza di reinserimento del reo o strumenti flessibili per assecondarlo. E si può dire che è tutto. Articoli più letti su questo argomento DIRITTO / Art. 612 bis Codice Penale. Atti persecutori. 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