Thursday, December 19, 2019

                                                                                                                        In questa comunicazione mi occuperò delle origini storiche del fraintendimento fra teoria della relatività e relativismo.[1] La figura di Albert Einstein è certamente un esempio di come lo scienziato possa essere frainteso dai media nel tentativo di popolarizzare le proprie teorie. Il problema, come spesso avviene, insorge quanto sono altri a voler popolarizzare la conoscenza scientifica che lo scienziato produce, e che in buona fede cerca di trasmettere al mondo.
La figura di Einstein diventa quindi una specie di mascotte degli scienziati, tanto da diventare addirittura Genius, l’assistente di Office 2000, ed essere oggetto di pubblicità: magliette, gadget, e persino testimonial di alcune pubblicità di prodotti di consumo di massa (Apple, Coca-cola, Menthos solo per citarne alcune). Il web è popolato di aforismi e presunte dichiarazioni di Einstein, e il lettore deve farsi strada tra quanto è stato attribuito ad Einstein e quanto effettivamente egli ha affermato. Leggendone alcune potremmo pensare che l’associazione fatta tra relatività e relativismo, presente in molte voci enciclopediche, articoli, tesine delle scuole superiori e addirittura un articolo sulla prestigiosa rivista Nature, non è poi così grave. [2]
Einstein stesso si oppose fermamente ai tentativi di interpretazione extra-scientifica della teoria della relatività. G. J. Holdon riporta un interessante aneddoto in proposito: una volta uno storico dell’arte inviò ad Einstein una bozza di un saggio intitolato “Cubism and the theory of relativity” contenente una argomentazione che lo avvicinavano arditamente a posizioni relativiste. Lo scienziato rispose in maniera gentile ma risoluta che “L’essenza della teoria della relatività non è stata correttamente interpretata [nel suo saggio], pur concedendo che questo errore sia stato suggerito dai tentativi di popolarizzazione della teoria”. Nel prosieguo della risposta, Einstein espone in sintesi cosa sia la relatività e conclude: “Questo non è affatto il caso della pittura di Picasso, senza che elabori ulteriormente. […] Questo nuovo “linguaggio” artistico non ha niente in comune con la Teoria della Relatività”. [3]
Quello che vorrei mostrare oggi è non solo il fatto che la associazione tra relatività e relativismo sia sostanzialmente falsa, ma che è anche un processo da cui possiamo imparare qualcosa. Faremo ora un percorso nell’accademia italiana delle scienze fisiche del primo novecento, nell’ambiente della divulgazione scientifica, per mostrare le radici storiche di questo fraintendimento che molti ancora oggi ignorano.
La teoria della relatività è senza dubbio tra le scoperte che nel secolo scorso hanno maggiormente contribuito al progresso della fisica e influenzato la nostra visione del mondo. Nominato “uomo del secolo” dalla rivista Time nel 2000, Albert Einstein è ancora oggi associato allo sviluppo delle correnti artistiche avanguardiste e al relativismo filosofico e morale.
Negli ultimi anni numerosi contributi hanno gettato luce sulla questione. Questi illustrano principalmente le differenze fra relatività e relativismo, e documentano la distanza del pensiero di Albert Einstein da posizioni relativiste. Sono invece quasi assenti gli scritti che documentano l’origine storica di questo luogo comune: in questo lavoro presento la ricostruzione effettuata dalla ricercatrice Barbara J. Reeves sulla base di documenti e corrispondenza dell’epoca.


La relatività tra scienza e politica: una teoria “rivoluzionaria”?

Quando scrisse “Einstein Politicized: The Early Reception of Relativity in Italy” (1987), Barbara J. Reeves (Ph.D 1980, Harvard University) era ricercatrice di Filosofia della Scienza presso la Ohio State University. L’anno precedente Reeves aveva pubblicato un primo scritto sul tema, intitolandolo “L'appropriazione politica delle teorie della relatività di Einstein nell'Italia fascista, ovvero, come Mussolini può avere avuto un ruolo indiretto per lo sviluppo della fisica teorica in Italia”. La ricostruzione compiuta dall’autrice presenta in maniera autorevole e documentata il processo che ha condotto dal recepimento della teoria della relatività nei circoli accademici, al suo accoglimento nell’ambiente culturale e filosofico italiano, alla sua politicizzazione, e al suo impatto sullo sviluppo della fisica teorica nell’Italia del primo dopoguerra. Si può intuire già dai titoli dei contributi che la sua tesi si sviluppa lungo una traccia ben precisa: la teoria della relatività (1905), sarebbe stata mutuata dall’élite culturale e politica fascista per diffondere posizioni filosofiche relativiste e così fornire supporto agli ideali rivoluzionari del primo dopoguerra. I risultati di questa articolata operazione culturale vengono raggiunti con l’ascesa al potere del partito fascista nel 1922. In seguito, il relativismo contemporaneo ha potuto diffondersi nelle scienze umane e artistiche.
A tutt’oggi Einstein è considerato non solo il padre della teoria della relatività nella fisica, ma anche il teorico del relativismo filosofico del primo dopoguerra. Come è potuta transitare questa teoria, che si proponeva esclusivamente come teoria sul mondo fisico, alla filosofia e alla politica? Secondo Reeves si devono distinguere in proposito due fattori. Un primo fattore è stato l’uso del linguaggio che si è fatto negli scritti degli scienziati destinati al grande pubblico di “non addetti ai lavori”. In molti di questi testi la teoria della relatività è stata associata ad aggettivi come “rivoluzionaria”, “evoluzione”, “distruzione”, “nuova costruzione” spesso con riferimento alla visione scientifica della teoria in relazione alla sua verifica sperimentale e al progresso scientifico che essa rappresentava. Il secondo fattore invece fu l’errata associazione della teoria di Einstein, considerato come un “relativizzatore” dei tradizionali assoluti concettuali (tempo e spazio) e della oggettività della scienza, con i contemporanei movimenti “relativizzatori” in filosofia, analisi culturale, letteratura, arte, e soprattutto politica.
I due aspetti, visti in concomitanza al particolare clima di rapido cambiamento politico e culturale nell’Italia del primo dopoguerra hanno contribuito a generare una confusione tra il linguaggio scientifico e le categorie di “assoluto” e “relativo” usate per valutare Einstein in contesto non-scientifico. Il filosofo e critico culturale Adriano Tilgher (1887-1941), ad esempio, nel suo scritto “Relativisti Contemporanei” (1921) collegò la teoria della relatività di Einstein al relativismo filosofico di Hans Vaihinger (1852-1933), al relativismo culturale di Oswald Spengler (1880-1936), e all’idealismo Gentiliano. Mussolini, dal canto suo, era più che lieto di associare le sue azioni come duce a queste “grandi filosofie” di cui l’azione del movimento fascista era una sublime incarnazione.
Un evento di capitale importanza per l’impatto della relatività nell’ambiente culturale italiano fu la visita accademica di Albert Einstein in Italia nel 1921. Lo scienziato fu invitato dal professor Federigo Enriques (1871-1946) presso l’Università di Bologna per dare alcune lezioni sulla relatività (speciale e generale), e sulla cosmologia. Einstein sapeva parlare italiano, avendo vissuto da giovane a Pavia, e le lezioni furono impartite Sabato 22, Lunedì 24, Mercoledì 26 ottobre 1921. Il 27 ottobre Einstein fu invitato a dare una lezione all’Università di Padova (e presso altre istituzioni) nella stessa aula in cui Galileo tre secoli prima aveva esposto le sue lezioni.
L’articolo di Reeves ripercorre l’itinerario che ha portato alla politicizzazione della teoria della relatività di Einstein in maniera molto dettagliata, riportando anche la copertura mediatica della scoperta e la diffusione della relatività e la sua recezione nella propaganda politica e al suo ritorno alla accademia italiana con la costituzione delle prime cattedre di Fisica Teorica in Italia.
Il processo in sintesi, segue sei tappe che intendo proporre in sintesi nei paragrafi successivi: la prima è il recepimento della teoria della relatività da parte dei fisici italiani dopo il 1905; il recepimento da parte della stampa internazionale e italiana; il recepimento nell’ambiente culturale e filosofico; il recepimento nella politica; l’identificazione del fascismo con la filosofia relativista; il relativismo fascista e lo sviluppo dello studio della fisica teorica in Italia.

Il recepimento della relatività da parte dei fisici italiani (1905-1919)

La prima tappa del processo consiste nel recepimento della relatività nell’accademia scientifica italiana. Nel circolo dei fisici italiani la teoria della relatività incontrò entusiasmi, scetticismo, e anche detrattori. Sin qui non vi fu problema perché la discussione fu mantenuta fra “addetti ai lavori”. Il periodo cui ci riferiamo è quello dei primi anni dalla pubblicazione dell’articolo di Einstein intitolato “Zur Elektrodynamik bewegter Körper” (“Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”, 1905), l’articolo che contiene l’enunciazione della relatività ristretta. In questo articolo Einstein afferma che le difficoltà sorte per riconciliare la meccanica classica Netwoniana con l’elettrodinamica del tardo Ottocento erano dovute a una scorretta interpretazione del movimento relativo dei corpi, in particolare dei corpi che si muovono con velocità costante relativamente agli altri.
L’articolo di Reeves mostra quanto Einstein fosse lontano dal relativismo: piuttosto, la sua si presentava come una teoria degli assoluti, non del “relativo”. Come possiamo vedere, neanche il titolo originale dell’articolo ha a che vedere con la “relatività” dal punto di vista terminologico. Secondo la ricostruzione storica, il titolo di Relativitätstheorie fu attribuito da Max Planck durante una presentazione sulle teorie di Lorentz ed Einstein presso la German Physical Society nel 1906.
Tra gli studiosi di fisica italiani la relatività fu accolta da alcuni con scetticismo. Lo scetticismo si rivolgeva alla presunta innovatività di quella che era a tutti gli effetti una “teoria”. Da altri invece fu in un primo tempo accolta con grande entusiasmo. Ad esempio il fisico palermitano Michele La Rosa (1880-1933) in alcuni scritti del tardo 1911 la definì rivoluzionaria, demolitrice del vecchio impianto della fisica e costruttrice di un nuovo e magnifico edificio. Altri entusiasti sino al primo dopoguerra furono il professor Tullio Levi-Civita (1873-1941) e Roberto Marcolongo (1862-1943). Al contrario, il fisico sperimentale Orso Mario Cobino (1876-1937) nel 1907, e Federigo Enriques nel 1906, manifestarono le prime riserve sulla teoria preferendo invece il concetto di etere assoluto per spiegare i fenomeni legati all’elettromagnetismo; riserve del medesimo tenore furono espresse nel 1911 a Princeton anche dal professor William Francis Magie (1858 – 1943) durante il discorso presidenziale della American Physical Society e alla Sezione B dell’American Association for the Advancement of Sciences. Altra voce contraria fu quella di Max Abraham (1875-1922), allievo di Max Planck a Berlino, e professore di Meccanica al Politecnico di Milano dal 1909 al 1915; un altro oppositore fu Augusto Righi (1850-1920), decano della fisica sperimentale in Italia. Anche Michele La Rosa, inizialmente entusiasta, ebbe modo di cambiare rapidamente idea e scambiò sul punto una interessante corrispondenza con Max Abraham nel tardo 1911 e nel primo 1912, quasi a giustificarsi per il danno inferto al dialogo scientifico con le sue considerazioni forse troppo avventate.

Il recepimento della relatività da parte della stampa internazionale e italiana (1919-1921)

A partire dal 1919 la stampa internazionale e italiana diede una certa rilevanza alla relatività iniziando a definirla come “rivoluzionaria”, cui fecero eco le reazioni di sconcerto da parte del mondo scientifico su tali considerazioni. Fu l’anno dell’esperimento dell’astrofisico Arthur Eddington: le sue misurazioni durante l’eclissi solare in Brasile il 29 maggio confermarono le predizioni della relatività generale (ovvero che la luce emanata da una stella veniva deviata dalla gravità del sole).
La sequenza temporale della pubblicistica internazionale fu la seguente: il 7 novembre 1919 il London Times intitolò un articolo Revolution in Science / New Theory of the Universe / Newtonian ideas overthrown”;[4] il 10 novembre 1919 gli fece eco il New York Times;[5] l’11 novembre 1919 il Corriere della Sera ripeté la colonna del Times sotto nella sezione “London Courier” con il titolo: “Scientific revolution / Light is matter and not motion / Prediction of a scientist / The cosmic ether passes into history” .[6]
Nel frattempo iniziò la divulgazione popolare della teoria della relatività. In questa divulgazione, gli scienziati la interpretavano come inserita nel solco della continuità con le teorie fisiche del passato, correggendo l’impatto sortito dalle espressioni di entusiasmo iniziale. In questo modo si cercava di preservare la “scoperta” da interpretazioni errate: così fecero in riviste come Scientia ed Elettrotecnica professori come Tullio Levi-Civita, Attilio Palatini (1889-1941, suo studente), Roberto Marcolongo, Guido Castelnuovo (1865-1952) e Luigi Donati (1846-1932). Si trattava di proporla come una “evoluzione” della fisica, non di una “rivoluzione”. Con linguaggio analogo si esprimeva Marcolongo nel giornale La provincia di Padova il 28 Ottobre 1921, dopo che Einstein diede la sua lezione nel prestigioso ateneo veneto. La teoria della relatività, secondo Marcolongo, andava interpretata parte di un processo di avvicinamento alla verità, processo che era in corso e che comprendeva l’integrazione con le precedenti conoscenza fisiche, e soprattutto ancora da sottoporre a verifica sperimentale. E così si fece in molti altri casi di divulgazione della teoria. Lo stesso Einstein nel 1921, sia nelle sue dichiarazioni a Bologna che nella stampa, si era definito come un continuatore del lavoro di Newton, non come un suo antagonista. Quando Einstein giunse negli USA nell’aprile 1921, il New York Times lo intervistò e disse che il suo lavoro era semplicemente uno sviluppo ulteriore della teoria di Newton.[7] Nell’articolo del New York Times Einstein afferma la falsità dell’opinione diffusa sulla radicale differenza tra la sua teoria e le precedenti di Galileo e Newton. Le affermazioni fatte da Einstein durante il tour universitario statunitense del 1921 e un report apparso su Nature riconoscono la natura di evoluzione e non di rivoluzione alla teoria di Einstein nelle sue parole, apprezzandone l’onestà intellettuale. Anche in Italia, le acque – almeno in ambito accademico – si quietarono un poco.
L’interesse accademico si stava tuttavia dirigendo sempre più allo sviluppo teorico della fisica, e a una progressiva svalutazione del lavoro sperimentale. Dal canto loro, i primi lettori “sperimentalisti” della relatività, come ad esempio Augusto Righi, non indulgevano a critiche aspre verso la relatività, che consideravano come “troppo metafisica”. Gli sperimentalisti erano infatti estremamente realisti, e  consideravano la relatività come troppo “intuitiva”. Tra gli astronomi invece il rigetto era quasi universale: ad effettuare questo rigetto era ad esempio il professor Giovanni Boccardi (1859-1936), sacerdote, e professore di astronomia presso l’Università di Torino, oltre che direttore dell’osservatorio. Questi, tre settimane prima dell’arrivo di Einstein in Italia (e quindi a inizio ottobre del 1921) pubblicò sul giornale La Stampa un articolo in difesa della legge di Newton in aperta polemica contro la relatività di Einstein. L’allora presidente della Associazione Italiana di Astronomia, Vincenzo Cerulli (1859-1927), prese decisamente le distanze dalla teoria di Einstein, che non solo considerava per nulla innovativa, ma addirittura perniciosa scientificamente.
In definitiva, ad affermare che la relatività rappresentava una discontinuità, sovversiva, ripugnante e innecessaria erano i detrattori della relatività, mentre i suoi sostenitori (incluso Einstein) la ponevano nel solco della continuità con il passato, come una naturale evoluzione della scienza fisica.

Thursday, October 3, 2019

Ricostruzione Carriera








Inoltre, con un’altra apposita funzione (“Dichiarazione Servizi”), il personale potrà inviare alla scuola di titolarità o sede di incarico triennale l’elenco dei servizi utili ai fini della ricostruzione, validando quelli già inseriti a sistema o inserendo quelli che eventualmente non vi risultano, quelli svolti presso istituzioni scolastiche non statali o presso altre Amministrazioni.

Wednesday, September 11, 2019


ART.18 - ASPETTATIVA PER MOTIVI
DI FAMIGLIA, DI LAVORO, PERSONALI E DI STUDIO
1. L'aspettativa per motivi di famiglia o personali continua ad essere regolata dagli artt. 69 e
70 del T.U. approvato con D.P.R. n. 3 del 10 gennaio 1957 e dalle leggi speciali che a tale
istituto si richiamano. L'aspettativa è erogata dal dirigente scolastico al personale docente ed
ATA.
L'aspettativa è erogata anche ai docenti di religione cattolica di cui all'art. 3, comma 6 e 7 del
D.P.R. n. 399/1988, ed al personale di cui al comma 3 dell'art. 19 del presente CCNL,
limitatamente alla durata dell'incarico.
2. Ai sensi della predetta norma il dipendente può essere collocato in aspettativa anche per
motivi di studio, ricerca o dottorato di ricerca. Per gli incarichi e le borse di studio resta in
vigore l'art. 453 del D.P.R. n. 297 del 1994.
3. Il dipendente è inoltre collocato in aspettativa, a domanda, per un anno scolastico senza
assegni per realizzare, l’esperienza di una diversa attività lavorativa o per superare un periodo
di prova.

Sunday, August 18, 2019

I signori Golovlëv
Michaìl Saltykòv-Scedrìn cominciò I signori Golovlëv nel 1875, all'indomani della morte della madre, donna avida e sentimentalmente arida che ne segnò fortemente l'infanzia e la personalità. E chiaramente ispirato alla vicenda familiare dello scrittore è questo monumentale romanzo, pubblicato nel 1880: un grandioso affresco, a tinte cupe, della nobiltà di provincia russa dopo le riforme del 1861. Protagonista è l'antica famiglia aristocratica dei Golovlëv, condotta gradualmente ma inesorabilmente alla rovina dai suoi membri, dediti a ogni sorta di vizio, dal gioco d'azzardo all'ubriachezza, alle orge. Interessati solo alla ricchezza e al possesso della terra, i Golovlëv trascorrono vuote esistenze tra ozio e alcolismo, sacrificando alla propria avidità ciò che di più sacro esiste, i legami familiari, la pietà filiale, l'amore genitoriale. E finendo così travolti in un oscuro dramma nel quale ogni affetto - tra i coniugi, tra genitori e figli, tra fratelli - si tramuta in un odio feroce e distruttivo degno di una tragedia shakespeariana. Si racconta  il racconto del declino e dello sfascio della famiglia Golovlëv, ricchi proprietari terrieri russi. La vicenda si svolge nel tempo in cui viene abolita la servitù della gleba, che determinò non pochi sconquassi nella società russa. A capo della famiglia Golovlëv c'è Arina Petrovna, madre di quattro figli: Annuska, Stepan, Porfirij, detto Juduska, ma anche sanguisuga, che rivestirà un ruolo sempre più rilevante nel corso del romanzo e, infine, c'è Pavel, il più giovane. A questi, dopo la morte di Annuska, si aggiungeranno le sue due figlie gemelle, Annin'ka e Ljubin'ka. Verso la fine del romanzo, quando Annin'ka si rifugerà nella casa maledetta dei Golovlëv , ormai gravemente ammalata, sopraffatta dalla crudeltà della vita, dopo " un'esistenza disordinata, tutta stordimento", ripensando alla nonna Arina dirà: "invece di pane, una pietra, invece di ammaestramenti, busse; come variante rimbrotti e male parole: mangiaufo, parassita, pezzente, ladruncola". In quella casa, ormai, vive solo lo zio Juduska, la cui mente vacilla da un delirio all'altro. "Dovunque andasse, da tutte le parti, da tutti gli angoli di quella casa maledetta, gli pareva strisciassero fuori le sue vittime...Ovunque vedeva aggirarsi i fantasmi dei suoi famigliari, "tutti intossicati, dissoluti, sfiniti, rosi, grondanti sangue...E al disopra di tutti questi fantasmi ne volteggiava uno vivo, e questo fantasma è proprio lui, ultimo rappresentante di una stirpe bacata!" E' un romanzo bellissimo, al pari di "Fatti d'altri tempi nel distretto di Posechon'je", sempre dello stesso autore, che sa esplorare in profondità i lati più oscuri dell'animo umano dove si annidano l'avidità, l'ipocrisia, la crudeltà, la falsità religiosa...
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Friday, August 9, 2019

La campagna russa fluisce sconfinata davanti agli occhi del lettore. Il terreno è scivoloso, sommerso da una fitta coltre di neve, e un vento gelido flagella i radi arbusti che interrompono la monotonia del paesaggio. Tra tutto quel bianco il sentiero s'intravede a malapena, e altrettanto a malapena ne si osserva il profilo snodarsi tortuoso fino alla soglia di un imponente edificio: è la tenuta dei Golovlëv, che sorge fiera in mezzo al nulla, unica forma di insediamento umano nel raggio di chilometri. I Golovlëv sono una famiglia di ricchi proprietari terrieri, ultimi baluardi di un mondo privilegiato che vive crogiolandosi nella propria condizione, trascorrendo giornate sempre uguali a se stesse nella più completa indolenza e apatia: avidi, ipocriti, subdoli, tra i Golovlëv non c'è alcun personaggio positivo. La mente organizzatrice e amministratrice della tenuta è Arina Petrovna, l'ingombrante figura materna che sola pare dedicarsi attivamente al benessere familiare, seppur in un'ottica di egoistico autocompiacimento: la sua indole astuta e calcolatrice la rende odiosa, dispotica e anaffettiva, e i suoi sforzi non sono che sfide per mettere alla prova la sua bravura. Arina Petrova non ha alcun attaccamento per la famiglia. La sua fredda indifferenza ha compromesso l'educazione dei tre figli, che abbandonati a loro stessi crescono inetti, deboli e svogliati, troppo inclini a indulgere all'alcol e a matrimoni infelici. Una simile insoddisfazione genera lotte per l'eredità, miserie e rovine, che si
rincorrono a cavallo di due generazioni minacciando la sopravvivenza (anche fisica) di servi e padroni: i Golovlëv sono una stirpe maledetta, destinata all'estinzione. Ed è con feroce ironia che l'autore si accanisce su di loro: con penna brillante e scorrevole Saltykov-Scedrin tratteggia il declino di una ricca famiglia russa di metà Ottocento, piagata da dissidi interni e incapacità pratiche, che si rifugia nel ricordo di un passato glorioso senza mai affrontare concretamente il presente. È un dramma corale che si svolge tutto in interni, quelli lugubri di Golovlëv e quelli spogli di Pogorelka, i cui personaggi non sono che sfumature diverse di una medesima tragedia. Il mondo bugiardo descritto dall'autore emerge così nella sua più vuota ipocrisia, facendo dei Signori Golovlëv un vero e proprio atto d'accusa.