Saturday, December 30, 2023

La Città secondo Fabrizio Schiaffonati

Fabrizio Schiaffonati

Intervista a Fabrizio Schiaffonati

Fabrizio Schiaffonati, architetto, professore ordinario al Politecnico di Milano dal 1980 al 2012, ha ricoperto diversi ruoli istituzionali: direttore di dipartimenti, presidente di corsi laurea di architettura, coordinatore di dottorati di ricerca, membro del Consiglio di Amministrazione e del Senato Accademico, direttore del Centro Formazione Permanente e del Centro Qualità di Ateneo. Visiting professor all’Accademia di Architettura di Mendrisio dal 2003 al 2005 e all’Università Bocconi di Milano nel 2007. Membro della Commissione edilizia del Comune di Milano dal 1987 al 1993. Progettista di diversi interventi alla scala architettonica e urbana è tra i soci fondatori della Società Italiana di Tecnologia dell’Architettura (SITdA). Attualmente è presidente di Urban Curator TAT, associazione culturale che promuove studi e progetti di riqualificazione urbana della città di Milano.
– 1 – Inizierei facendo un inquadramento generale sulla sua carriera, ci racconti di lei. Mi sono laureato negli anni Sessanta al Politecnico di Milano, per l’esattezza nel 1966, e ho fatto una tesi di laurea con relatore Ludovico Barbiano di Belgiojoso. L’argomento della tesi era la progettazione di un centro civico per l’istituendo decentramento amministrativo della città di Milano, localizzato in prossimità del nodo di interscambio della stazione di Rogoredo. Belgiojoso era stato il primo presidente del Piano Intercomunale Milanese (PIM) e quindi sviluppava temi didattici su complessi progetti di scala territoriale. Avevo frequentato il suo corso di Composizione al quarto e quinto anno. Subito dopo la tesi mi fu proposto di diventare assistente del professore. Franca Helg, socia dello studio professionale di Albini, da tempo coordinava il gruppo degli assistenti di Belgiojoso. Ciò mi diede modo di conoscere anche Franco Albini, in quanto le riunioni degli assistenti erano spesso convocate dalla Helg presso il suo studio. Albini era una persona molto riservata, di poche parole, che però partecipò diverse volte alle nostre riunioni, anche perché lui si alternava nello stesso corso biennale. La stima di Albini e Belgiojoso era reciproca. Erano stati chiamati a insegnare a Milano dallo Iuav di Venezia, a cui avevano dato un importante impronta, dopo le contestazioni studentesche del 1963 che avevano portato ad un notevole rinnovamento della didattica a Milano. Al terzo anno avevo frequentato il corso di Ernesto Nathan Rogers, che aveva vinto la cattedra di Elementi di composizione. Una figura fondamentale per la mia formazione di architetto. Infatti, da questo incontro ho scoperto la mia vocazione, per i suoi tanti stimoli e riferimenti culturali. Ho fatto quindi per qualche anno l’assistente di Belgiojoso, per poi essere incaricato come docente di Tecnologia. Per un interesse per gli aspetti costruttivi che ho sviluppato proprio durante l’attività didattica con Belgiojoso. I BBPR avevano infatti progettato nei primi anni Sessanta il quartiere popolare Gratosoglio, un grande intervento di edilizia prefabbricata. Un intervento che durante i corsi era stato fatto oggetto di analisi anche per gli aspetti costruttivi, normativi e di organizzazione della produzione. Un’attenzione che veniva riservata al rapporto intercorrente tra ideazione dell’opera e sua costruibilità. Un mio interesse che andavo anche approfondendo professionalmente, perché incaricato con altri giovani architetti della redazione del Piano di Edilizia economico e popolare per conto di un Consorzio pubblico promosso nell’ambito del PIM, il Cimep. Un’occasione che mi ha impegnato per un triennio parallelamente all’attività didattica, e che mi vedeva in sintonia con Belgiojoso, a cui chiedevo anche delucidazioni e informazioni. Su questo filone ho proseguito per tutti gli anni Settanta, accentuando il mio impegno didattico. Nel 1980 ho vinto il Concorso nazionale di professore ordinario per la cattedra di Tecnologia dell’Architettura e sono stato chiamato a insegnare al Politecnico di Milano. Sulla fine degli anni Settanta ero già stato eletto alla Direzione dell’Istituto di Tecnologia, che era stato gemmato dall’Istituto di Composizione, col compito di strutturare organicamente le discipline della progettazione e della produzione edilizia. Nello stesso anno con un’importante legge di riforma erano stati istituiti i dipartimenti universitari. Mi sono quindi subito attivato per trasformare l’Istituto in una struttura dipartimentale, con altri docenti e in particolare con Marco Zanuso, che già faceva parte dell’Istituto di Tecnologia. Una figura che si era resa disponibile, con un notevole contributo, allo sviluppo di questa ipotesi. Il dipartimento fu istituito con la denominazione Dipartimento di Programmazione, Progettazione e Produzione Edilizia. Una titolazione con l’intento di rendere chiaro l’ambito della sua ricerca e della didattica, esteso all’intero processo della produzione architettonica. In sintonia anche con le nuove istanze della domanda di abitazione e servizi secondo alcune importanti politiche del periodo, come la riforma della casa, l’istituzione delle regioni e il varo di nuove normative per l’edilizia e il territorio. Quella del Dipartimento PPPE, primo dipartimento di area tecnologica istituito in Italia, prospettava una visione fortemente innovativa e interdisciplinare, anche decisamente critica rispetto ad una concezione della composizione architettonica espressa negli anni Ottanta dal postmodernismo. Ho diretto questo dipartimento per due mandati fino al 1987, svolgendo poi anche altri diversi ruoli istituzionali all’interno del Politecnico. Tra cui Presidente della Commissione Edilizia del Politecnico, Membro del Consiglio di Amministrazione, Presidente di Corsi di Laurea, Coordinatore di Dottorati di Ricerca, ed altro ancora. Questo per dire che ho sempre ritenuto importante essere coinvolto in attività gestionali al fine di orientare e migliorare le politiche scientifiche dell’Ateneo, in una fase di continui rinnovamenti e di cambiamento degli statuti didattici. Un periodo che giunge fino ad oggi. Il Dipartimento PPPE ha subito poi diverse trasformazioni. Prima Dipartimento di Disegno Industriale e di Tecnologia dell’Architettura (DI.TEc), poi Dipartimento Building Environment Science and Technology (BEST) e oggi Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito (ABC). In questa evoluzione di crescita ho avuto un ruolo sempre attivo. Il Dipartimento è cresciuto, ha ampliato la tematica del design, ha avuto l’adesione dell’area della Tecnologia degli ingegneri, fino all’attuale assetto. Sono stato ancora Direttore dal 2003 al 2007. Nel 2012 sono andato in pensione, mantenendo ancora un incarico di docenza per un Laboratorio di Progetto e Costruzione dell’Architettura. Ho insegnato anche per tanti anni presso il Polo regionale del Politecnico di Mantova, che ho contribuito a fondare anche come membro del Comitato di gestione. Per qualche tempo ho insegnato anche a Piacenza. Mi preme anche sottolineare che nel corso del mio lungo percorso accademico ho svolto una continuativa e intensa attività di ricerca per conto di enti e istituzioni. Ritenendo questo tra i compiti primari dell’Università, per un avanzamento della conoscenza, per l’acquisizione di risorse per la ricerca e la promozione di borse, contratti e posti in organico per giovani ricercatori. 2 – Lei è presente nel panorama milanese da ormai molto tempo, come si immaginava da studente la Milano del futuro? Nella prima metà degli anni Sessanta, quando studiavo al Politecnico, il tema urbanistico era al centro del dibattito. Il primo governo di centro-sinistra aveva nel programma la riforma della legge del 1942. Nel 1963 fu approvata la legge n. 167 sulla formazione dei Piani di zona per l’edilizia economica e popolare. Una visione dello sviluppo edilizio che si voleva ricondurre ad una pianificazione urbanistica organica dopo la ricostruzione del dopoguerra e lo sviluppo senza vincoli degli anni Cinquanta. Si pensi che il primo Piano regolatore italiano approvato fu quello di Milano del 1953, quando buona parte della ricostruzione era già avvenuta. La relazione al Parlamento del direttore generale del Ministero dei Lavori Pubblici Michele Martuscelli in occasione del dibattito sulla riforma urbanistica presentava un quadro drammatico con riferimento alle inadempienze di quasi tutte le città italiane che non si erano ancora dotate di un piano regolatore. Alla proposta di riforma avanzata dall’Onorevole Fiorentino Sullo non fu dato corso, per le opposizioni del “blocco edilizio”. Comunque, alla fine degli anni Sessanta arriverà un decreto legge che introdurrà gli standard urbanistici obbligatori nei piani per aree destinate a servizi. Quindi in quel periodo volevamo fare tutti gli urbanisti. La presidenza di Belgiojoso al Piano Intercomunale Milanese dà un’idea di come l’intellighenzia mettesse al centro la questione urbanistica. Altri grandi temi erano lo sviluppo dei poli industriali al Sud. I centri direzionali delle grandi città (vedi il concorso di Torino sempre con Belgiojoso presidente della giuria). L’architettura veniva traguardata attraverso queste grandi visioni programmatorie e pianificatorie. Quindi un’urbanistica ancora riferita al grande respiro culturale del Razionalismo, a spazi per i servizi e per i parchi. Si guardava a modelli stranieri come la Grande Londra o il Piano di Amsterdam, con il verde che si incuneava tra le “dita” dello sviluppo edilizio. Il “Piano a Turbina” del 1963 di De Carlo, Tintori e Tutino ne è un’emblematica rappresentazione. Quindi urbanistica anche come impegno politico e sociale. Una strada che porterà anche alla contestazione del 1968 contro la speculazione edilizia. Quindi una visione democratica della società, una visione di giustizia sociale coniugata con la qualità della residenza. Un tema che era stato ripreso dalla Gescal, che proseguiva la politica dell’INA-Casa, ma con quartieri più organici e non decentrati come quelli degli anni Cinquanta. Col centro-sinistra, con il Partito Socialista al governo, si respirava un clima del tutto nuovo. Era il tempo che, come diceva Arbasino, “gli Italiani avevano fatto un viaggio a Chiasso”. Si fuoriusciva quindi da un provincialismo per guardare anche alle politiche degli altri paesi europei, alle new towns inglesi, alle villes nouvelles francesi. Un clima che si respirava dentro l’università e in diversi circoli culturali e di partito molto attivi nella città. Una convergenza tra alcune figure accademiche e importanti intellettuali. Nella scuola Belgiojoso, Albini, Rogers, arriverà da Roma più tardi anche Paolo Portoghesi, nella società figure come “l’ingegner olivettiano” Roberto Guiducci, il filosofo Enzo Paci, lo scrittore Ottiero Ottieri, Franco Fortini. Ma ne potrei citare tanti altri. Ad esempio, Umberto Eco, ero studente al quarto o al quinto anno, che era stato chiamato a tenere un corso libero su tematiche di semiologia. Si teneva il sabato mattina, era frequentatissimo, devo dire che capivo e non capivo le sue dissertazioni sulla filosofia tomistica, comunque era affascinante. Si percepiva di essere testimoni di una svolta di una certa importanza. La Milano del futuro la immaginavamo come una grande area metropolitana dove lo sviluppo degli interventi residenziali doveva essere integrato ad un sistema di verde e di infrastrutture. Una città che si sarebbe sviluppata con la crescita del terziario nella zona Garibaldi-Repubblica, secondo le indicazioni già contenute nel Piano regolatore del 1953. Una città di quartieri dotati di tutti i servizi e uno sviluppo prevalente sulle linee di trasporto pubblico: come le Celeri dell’Adda o la linea ferroviaria verso Piacenza. Due aste su cui il PIM/Cimep avanzò la proposta dello sviluppo di insediamenti per complessiva 100.000 abitanti. Si immaginava quindi una città socialmente equilibrata e con la capacità di contenere gli squilibri determinati dalla rendita fondiaria e con una grande capacità amministrativa da parte del comune e degli enti comprensoriali. Non a caso l’urbanista, chiamato a insegnare al Politecnico, Giuseppe Campos Venuti aveva scritto un piccolo libro “Amministrare l’urbanistica” che era una sorta di vademecum per un ruolo di indirizzo della civica amministrazione nello sviluppo della città. Un quadro quindi che connetteva una visione metropolitana, fino alla scala regionale, a una pianificazione particolareggiata dei nuovi quartieri. 3 – E come vede oggi la città del futuro? La città del futuro c’è già. Sono sostanzialmente le megalopoli come Tokio, con oltre 35 milioni di abitanti, oppure San Paolo del Brasile, così come i grandi agglomerati urbani del sud-est asiatico. La città europea è relativamente più contenuta con i 6 milioni di Parigi, gli 8 di Londra, o i 5 di Berlino, ma comunque al centro di importanti contesti regionali. Come ad esempio Milano, che pur non essendo di quelle dimensioni, può essere vista come il fulcro di una città-regione di 10 milioni di abitanti. Il tessuto più consolidato della città europea, la sua storia, la tradizione amministrativa, consentono di contenere e controllare gli sviluppi suburbani entro un sistema di relazioni funzionali e sociali. Già Mumford a fronte del pericolo di un incontrollato sviluppo aveva coniato la relazione “città-metropoli-necropoli”. Cioè il pericolo di una possibile decadenza della città. Un pericolo che già si sta palesando in molte delle megalopoli, dove parti del territorio sono fuori da ogni controllo. Quindi una città con la downtown che convive con ghetti di emarginazione e di insicurezza sociale. La città del centro e della periferia. Due realtà diverse e conflittuali. In questo senso la fine della città come luogo dell’emancipazione sociale e della convivenza civile. Indubbiamente la tecnologia ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo, ma anche nell’occultare queste contraddizioni e disuguaglianze. Lo smartphone ci consente di entrare in contatto con tutti, ci illude di comunicare. I bisogni primari sono evoluti. Lo smartphone è una protesi individuale di uno smart system mondiale. Qui entriamo su considerazioni di carattere etico e filosofico, con diverse interpretazioni. Da catastrofiche ad ottimistiche. Severino ne fa una interpretazione di grande profondità, individuando nella tecnologia un sistema pervasivo e onnicomprensivo di ogni dimensione dell’umano. Uno scenario inquietante, fino a qualche tempo fa fantascientifico. Già Redley Scott in “Blade Runner” aveva preannunciato un medioevo prossimo venturo con slum e automobili volanti. Oggi potremmo non essere così troppo lontani da questo inquietante scenario. Io faccio una divisione tra chi si crogiola in questa visione estetica di una sorta di bellezza del caos, e chi invece, registrando l’ingiustizia di tali squilibri, rilancia un ruolo progressivo del governo della città e del territorio. 4 – Come crede sia cambiata la città in ambito tipologico? C’è un’involuzione. La chiarezza funzionale del Razionalismo è stata superata con una eccessiva disinvoltura verso una commistione di funzioni che spesso presentano problemi di incompatibilità. Se la zonizzazione poteva sembrare una regola eccessivamente rigida, la commistione di oggi è l’inaccettabile estremo opposto. Ci sono ragioni che dovrebbero definire regole morfologiche e tipologiche in grado di trasmettere una chiarezza fruitiva di ogni ambito urbano. È sbagliato pensare che il rapporto tra morfologia e tipologia possa essere superato indistintamente dalle destinazioni funzionali di ogni organismo architettonico. C’è da aggiungere inoltre che il progetto architettonico non può contravvenire a criteri antropometrici, ergonomici e di modalità d’uso degli spazi abitativi, dei luoghi di lavoro, dei servizi e delle infrastrutture in tutta la loro attuale complessa articolazione. Gli architetti che sono stati i miei insegnanti, non solo i professori ma anche i tanti assistenti, partivano da una precisa conoscenza delle tante regole che governano un progetto razionale, corretto, funzionalmente idoneo allo scopo della realizzazione dell’opera. I progetti di opere pubbliche di quell’epoca, posso citare l’esempio dei quartieri e degli edifici della Gescal, erano sottoposti ad un rigoroso controllo fino ai dettagli costruttivi. Questo per non avere successivi costi manutentivi e disagi per gli abitanti. Ricordo anche una mia esperienza personale, giovane architetto, quando alla fine degli anni Sessanta un progetto di un edificio d’abitazione progettato per la Gescal mi fu restituito con una sessantina di osservazioni da parte degli uffici tecnici dell’Istituto Autonomo Case Popolari che esercitavano un accurato controllo in qualità di stazione appaltante per conto della Gescal. Osservazioni giuste, che accolsi di buon grado. Un buon progetto nasce anche da questa pervicacia per eliminare ogni superficiale disattenzione al particolare e al dettaglio. La disattenzione invece di oggi può essere letta come una sorta di analfabetismo di ritorno, col pericolo di una definitiva emarginazione dell’architetto, non più necessario nella fase di ingegnerizzazione del progetto esecutivo sviluppato da altri. La perdita quindi di una tensione della cultura architettonica, che dovrebbe esercitarsi su tutto l’arco della produzione edilizia. 5 – Che cosa ne pensa della densità architettonica nelle città contemporanee? Il discorso della densificazione c’è sempre stato come valorizzazione del centro della città. Vi è anche una dimensione utopica che la ha cavalcata. Basti ricordare la Città Futurista di Sant’Elia, ma anche più recenti utopie degli Archigram e dei Metabolisti. Oggi la concentrazione esiste con elementi parossistici senza una necessità. Con connotazioni di tipo artistico più che architettoniche. Sulla concentrazione non ho nulla in contrario. Sono contrario quando è gratuita, capisco anche l’opportunità del grattacielo, ma penso che si debba sempre trovare un giusto equilibrio rispetto alla vocazione del luogo. La Milano del futuro è già qui, sarà la Pianura Padana, la Città di Lombardia, come acutamente la denominava Virgilio Vercelloni. Sono contrario alle mode. Milano per l’architettura italiana ha ricoperto un ruolo primario e fondamentale perché ha sempre rivendicato una propria identità. Dal Neoliberty in avanti, c’è stato l’intento di non consegnarsi all’International Style. Mi sembra che oggi questa attenzione sia venuta meno con la globalizzazione. Personalmente mi riconosco più nel neologismo Glocal. L’architettura deve rappresentare uno stato di equilibrio tra le innovazioni e le preesistenze, tra il futuro e la storia dei luoghi. 6 – Quando ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada? Ho deciso la mia strada incontrando Rogers. Mi ero iscritto a ingegneria senza un’idea precisa. Il primo giorno dell’inizio del corso lasciai ingegneria e mi trasferii ad architettura. La scelta per architettura forse derivava dal clima che avevo in casa e dalla compagnia di mio padre che si circondava di intellettuali e pittori. Mio padre era un docente e un intellettuale che nell’immediato dopoguerra ha avuto un certo ruolo politico nella città di provincia da cui proveniva. Ha lasciato anche molti scritti autobiografici e non solo, che io dopo la sua morte ho editato per amici e quanti lo hanno conosciuto. Poi ho incontrato Rogers che mi ha affascinato. Ho scambiato con lui poche parole, studente del suo primo corso di Elementi di composizione, e ne ho avuto un imprinting. Quando mi incontrava mi chiedeva: “Sei andato avanti col progetto? Sei sempre lì? Sono curioso di vedere come ne vieni fuori…”. Non mi dava consigli. Ma era l’attenzione che mi dedicava a stimolarmi. L’attenzione di questa figura che si sedeva al mio tavolo, si concentrava sullo sviluppo del progetto che stavo facendo (il tema era una scuola media), poi se ne andava senza dirmi nulla. Di questo modo carismatico di rapportarsi tra docente e discente c’è un libro molto bello di Bernard-Henri Lévy, “Le avventure della libertà”, che racconta anche dei silenzi dei suoi e di altri maestri. Insegnavano coi silenzi, così era anche di Belgiojoso. Io parlo fin troppo. 7 – Qual è la sua idea di Architettura? Non ne ho una in particolare. Quella che trovo più congrua con il mio pensiero, se devo dirla tutta, l’ho copiata. Me l’ha detta recentemente un mio amico, l’architetto Paolo Aina: “L’Architettura è quella cosa che deve far star bene la gente”. Mi ha colpito questo concetto del benessere. Il benessere è un fatto complesso. Quello vero, è soprattutto psicologico. Se c’è un benessere psicologico ne derivano anche tutte le conseguenze più pratiche. Quindi l’architettura è un problema di giuste dimensioni e di corretti rapporti, fisici e sociali. Le Corbusier aveva inventato il Modulor. Un’idea che potrebbe apparire gratuita, ma che ha introdotto invece il fine dell’architettura per l’uomo. Un approccio non più come un fatto aulico, ma profondamente umano. Ma l’architettura può dare anche un’emozione come un’opera d’arte. Con il passare degli anni ho notato che architetture che prima non avevo guardato con attenzione oggi mi emozionano. Come ad esempio, rimanendo nel contesto milanese, l’ingresso dentro Torre Velasca è emozionante. O le opere di Caccia Dominioni. 8 – Un Consiglio che vorrebbe dare ai giovani architetti e studenti? Quando Paolo Portoghesi è stato il curatore della sezione di architettura della Biennale di Venezia nei primi anni Ottanta, io ho realizzato con la RAI un lungometraggio dal titolo “Lavorare in architettura”, che è stato poi trasmesso in prima serata. Affrontavo attraverso immagini e interviste il rapporto che intercorre tra progettazione e costruzione dell’architettura. Avevo scelto tra i testi a commento recitati da una voce fuoricampo un brano di Le Corbusier che invitava gli studenti a disertare le aule per recarsi nei cantieri. L’architettura senza il cantiere non esiste, prima va progettata e poi va costruita. Si deve vedere e capire come la si costruisce. Quindi l’architettura non va solo vista sulle immagini di riviste o su internet, ma bisogna visitarla, vederla coi propri occhi. L’architettura vive della multisensorialità di chi la fruisce e la percepisce.

Procedimento disciplinare

Friday, December 29, 2023

La Sospensione Professionale

Vicepresidente Inarcassa

Ing. Massimo Garbari Curriculum vitae Nato a Trento il 13.01.1970. Laureato in ingegneria civile – indirizzo strutture presso l’Università degli studi di Trento il 27 marzo 1996; iscritto all’Ordine degli Ingegneri di Trento dal 3 settembre 1996. Libero professionista, svolge la professione nel campo della progettazione, direzione lavori, collaudi e sicurezza di opere pubbliche e private, nel campo delle costruzioni civili, industriali e delle infrastrutture in genere. E’ legale rappresentante e Direttore Tecnico della C.S.P. Engineering Srl, società attiva nel settore della progettazione ingegneristica, ingegneristica–civile, industriale ed infrastrutturale e dei servizi ad essa connessi. Iscritto agli elenchi del Ministeri degli Interni dei professionisti di cui all’art. 3 c. 1 del D.M. 05/08/2011 (ex L. 818/84), abilitato al rilievo dei danni e della valutazione di agibilità delle costruzioni dopo evento sismico (DPCM 08/07/2014), iscritto all’elenco dei Collaudatori delle opere in C.a., certificato ingegnere esperto in Strutture (CertIng Advanced – TNB-1238-TN19), progettista accreditato ARCA – Area Strutture, abilitato allo svolgimento del Coordinamento per la Sicurezza nei cantieri temporanei e mobili (ex L. 494/96). Ha ricoperto il ruolo di Consigliere e Segretario dell’Ordine degli Ingegneri di Trento dal 2009 al 2013, di Consigliere dal 2013 al 2017 ed è attualmente Vice Presidente Vicario. E’ stato consigliere e Vice Presidente di Interbrennero SPA, società per Azioni che gestisce l’area dell’Interporto di Trento, ha ricoperto il ruolo di membro della Commissione Urbanistica della Provincia Autonoma di Trento. Componente del Comitato Nazionale dei Delegati di Inarcassa per la Provincia di Trento dal 2014.

Personale STATO

Marketing

Friday, December 22, 2023

RD. 31 Agosto 1933 n. 1592

Idrocamino

Speciale Camino

Camini

Il camino non è soltanto uno strumento utile per il riscaldamento della casa: è anche un vero e proprio oggetto ornamentale, simbolo dell’intimità domestica, perfetto per rendere un ambiente ancora più familiare e accogliente. Forse non sai che il caminetto nacque, originariamente, per la preparazione dei cibi, e che solo con il passare del tempo iniziò a essere usato per lo scopo attuale. Il tepore del fuoco è fonte di comfort e di serenità, ed è ideale per donare un’atmosfera romantica e rassicurante alla stanza di destinazione. Vi sono camini in grado di riscaldare un solo locale e altri dotati di una maggiore potenza; esistono modelli aperti e chiusi, elettrici oppure alimentati a legna, a pellet, a gas. Le possibili opzioni sono tante, per consentirti la massima libertà di scelta.
Ma come si costruisce un camino partendo da zero? Se hai una certa esperienza nel campo del fai da te, potresti ricorrere a questa soluzione per realizzare il dispositivo più adatto alla tua dimora. I caminetti prefabbricati sono senza dubbio comodi, ma una struttura creata su misura è unica e concepita appositamente per la tua abitazione. Vediamo insieme quali sono i fattori principali da tenere in considerazione al momento della progettazione! Indice contenuti Nascondi 1 Gli elementi fondamentali del camino: il focolare, i piedritti e l’architrave 2 La cappa e la canna fumaria 3 Tipologie di alimentazione 4 Camino aperto o chiuso? 5 Una guida sul rivestimento 6 La collocazione del camino 7 Qualche altro suggerimento 8 Richiedi maggiori informazioni Gli elementi fondamentali del camino: il focolare, i piedritti e l’architrave Un camino possiede alcune componenti di base, tra cui ricordiamo: i piedritti; l’architrave; il focolare. Per quanto riguarda quest’ultimo, è essenziale che abbia la parete posteriore inclinata ed edificata con materiali resistenti alle temperature elevate, come i mattoni refrattari o il calcestruzzo alleggerito. Di solito, poi, la superficie si rafforza ulteriormente con metalli come l’acciaio. L’architrave, in genere, è in pietra o in marmo, ed è retta dai piedritti che sporgono dal muro per circa 20 cm. Attenzione però, perché diversi camini moderni sono privi di architrave, e di conseguenza sono stati eliminati anche i piedritti. La cappa e la canna fumaria Veniamo ad altre due sezioni indispensabili del caminetto, ossia la cappa e la canna fumaria. La prima, in linea di massima, è di metallo: permette, quindi, di migliorare tantissimo il tiraggio, dato che contribuisce alla risalita dell’aria calda. Una valida alternativa è una lastra refrattaria ricoperta con uno strato radiante. E la canna fumaria? Di questa bisogna calcolare con scrupolosità le dimensioni: nello specifico, l’altezza non dovrebbe essere inferiore a 3 m e la profondità è inversamente proporzionale alla lunghezza. Tieni presente che la canna può essere sia squadrata sia circolare, e che nella maggioranza dei casi è ricavata da pannelli refrattari. Altrimenti puoi adoperare i seguenti materiali: conglomerato cementizio; rame; acciaio inox. È importante che il camino non faccia fumo, ragion per cui la canna fumaria non deve essere troppo lunga. Puoi integrare il tutto con una funzionale valvola di regolazione, grazie alla quale controllerai il tiraggio della canna. Tipologie di alimentazione Un’altra caratteristica che distingue i camini è il tipo di alimentazione. Quelli a legna, per esempio, sono autentici evergreen, contraddistinti da un alto potere riscaldante e di grande impatto visivo. Non dimenticare che tale combustibile è naturale ed ecologico, rinnovabile e reperibile sempre e ovunque. camino barzotti Decisamente ecosostenibili sono anche i camini a pellet, a basso impatto ambientale e dalla notevole resa termica. I modelli a gas, a loro volta, offrono numerosi vantaggi, in particolare la possibilità di aumentare o diminuire la quantità di calore e di gestire personalmente la combustione. A differenza di tutte queste versioni, i caminetti elettrici sfruttano – appunto – l’energia elettrica e mostrano una scenografica fiamma sul display. Tuttavia questi sono più difficili da progettare e solitamente sono prefabbricati. Camino aperto o chiuso? Proseguendo con il nostro discorso sui camini fai da te, bisogna precisare che tali dispositivi possono essere sia aperti sia chiusi. Quelli aperti hanno uno straordinario potenziale decorativo, e sono eccellenti per regalare un mood ospitale e accogliente a qualsiasi stanza. Il problema è che il riscaldamento non sarà uniforme, poiché il calore prodotto si disperderà nello spazio. Tale soluzione, comunque, è ottima per i locali piccoli. Un camino chiuso garantisce una migliore propagazione ed è anche più sicuro. Per la copertura puoi utilizzare una lastra in vetro temprato, che resiste benissimo al fuoco e consente di vedere le fiamme retrostanti. Come conciliare praticità e bellezza! Una guida sul rivestimento Passiamo, ora, al rivestimento da scegliere per il tuo camino. Anche in quest’ambito hai un’ampia possibilità di personalizzazione: a dir poco elegante, per esempio, è il marmo, con le sue pregevoli venature e sfumature. Senza tralasciare il granito, che combina estetica, robustezza e longevità. Molto apprezzati sono i caminetti in pietra naturale, un materiale suggestivo e pittoresco perfetto per donare valore aggiunto alla tua casa. Sarai tu a selezionare la forma delle pietre, dai ciottoli non lavorati ai mattoncini rustici! Se, invece, prediligi i complementi di stampo contemporaneo, ti consigliamo di propendere per la brillantezza e la levigatezza dell’alluminio. La collocazione del camino Se ti stai chiedendo come provvedere alla giusta collocazione del camino, ricorda innanzitutto che la canna fumaria può essere installata sia all’interno della parete, sia a ridosso del muro e rivestita con del cartongesso. Il caminetto è posizionabile in qualunque vano della dimora, purché ci sia spazio a sufficienza. Molti preferiscono sistemare il dispositivo nella zona living, qualcuno in cucina, altri ancora nello studio. Decidi tu a seconda delle tue esigenze! Qualche altro suggerimento Se hai intenzione di dedicarti alla creazione di un caminetto ad hoc, ecco qualche accorgimento utile da rispettare: non metterlo contro la stessa parete su cui si trova la finestra, per scongiurare fuoriuscite di fumo all’esterno; per lo stesso motivo, evita di montarlo accanto alla porta di ingresso; individua il rivestimento più adeguato allo stile dell’ambiente; poni il camino quanto più possibile al centro della camera, affinché il calore si diffonda in maniera omogenea; se hai un appartamento piccolo, costruisci un confortevole caminetto sospeso.

Camini

Monday, December 18, 2023

SOSPENSIONE ORDINE PROFESSIONALE NORME DAL 30 APRILE 2021

Riportiamo a fondo articolo il confronto diretto tra il testo vigente e quello modificato, in vigore dal prossimo 30 aprile. In sintesi, le nuove sanzioni disciplinari per gli archietti inadempienti sono: Avvertimento nel caso di mancata acquisizione fino ad un massimo di 6 CFP; Censura nel caso di mancata acquisizione compresa tra 7 e 18 CFP; Sospensione di 15 giorni nel caso di mancata acquisizione compresa tra 19 e 24 CFP; Sospensione di 25 giorni nel caso di mancata acquisizione compresa tra 25 e 36 CFP; Sospensione di 40 giorni nel caso di mancata acquisizione pari o superiore a 37 CFP. Nel caso in cui l’iscritto inadempiente agli obblighi formativi non provveda a recuperare i CFP mancanti nel triennio successivo, il Collegio di Disciplina potrà valutare un aggravio della sanzione. >> Non perderti nessun articolo! Ricevi le nostre news sanzioni cfp PROFESSIONISTI Censura e sospensione, in cosa consistono Ma nella pratica in cosa consistono queste sanzioni disciplinari? Lo ricordiamo. La censura consiste in una nota formale di biasimo comunicata dal Presidente del Collegio di Disciplina, e notificata a mezzo dell’ufficiale giudiziario, con la quale le mancanze commesse sono formalmente dichiarate. La sospensione comporta invece la vera e propria sospensione dall’esercizio della professione : in quel periodo di tempo non sarà quindi possibile esercitare la professione, e avverrà anche la contestuale cancellazione temporanea da Inarcassa, con conseguenze quindi anche dal punto di vista previdenziale (l’iscritto perde temporaneamente i requisiti di iscrivibilità come previsto dall’art. 7dello Statuto di Inarcassa). DAL 30 APRILE 2021

Monday, December 4, 2023

Differenziato

PEI differenziato o semplificato, quando si consegue il diploma nella scuola secondaria di II grado Nuovo PEI, percorso didattico seguito dall’alunno con disabilità e conseguimento o meno del titolo di studio. Cosa cambia tra secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado. Nuovo PEI Il modello nazionale di PEI (uno per ordine e grado d istruzione: infanzia, primaria, secondaria di I grado, secondaria di II grado) è stato adottato con il decreto interministeriale n. 182/2020, che ha altresì definito nuove modalità di assegnazione delle misure di sostegno agli alunni con disabilità e adottato le relative Linee Guida. Percorsi didattici Le Linee Guida dedicano un apposito paragrafo alla relazione tra percorso didattico, all’interno del PEI, dello studente con disabilità e conseguimento del diploma nella scuola secondaria. Questi i percorsi possibili: percorsi didattici ordinari, conformi alla progettazione didattica della classe, sulla base del curricolo d’istituto (nel caso di disabilità attinenti prettamente alla sfera fisica); percorsi didattici personalizzati in relazione agli obiettivi specifici di apprendimento e ai criteri di valutazione; percorsi didattici differenziati. I percorsi di cui ai punti 2 e 3 rientrano rispettivamente in un “PEI semplificato o per obiettivi minimi” (punto 2) e in un “PEI differenziato” (punto 3). Dalla tipologia di PEI adottata (PEI semplificato o differenziato) dipende il conseguimento o meno del diploma conclusivo della scuola secondaria di II grado. La distinzione tra i sopra riportati percorsi è presente nel nuovo modello nazionale di PEI, ove è inserito il seguente schema riepilogativo (nella scuola primaria e secondaria di primo grado, sono presenti solo le lettere A e B, mentre nella secondaria di II grado è presente anche la lettera C): A. percorso ordinario; B. percorso personalizzato (con prove equipollenti); C. percorso differenziato. PEI, prove, conseguimento diploma II grado o attestato credito formativo Il decreto legislativo 62/2017, che disciplina gli esami di Stato di II grado e tratta il tema del PEI solo in relazione a questi ultimi, prevede che l’alunno può svolgere diverse tipologie di prove, a seconda del percorso seguito. Le differenti tipologie di prove (differenziate equipollenti o differenziate non equipollenti) rientrano nei due succitati percorsi: PEI con percorso didattico personalizzato e prove equipollenti; PEI con percorso didattico differenziato e prove non equipollenti. E’ il consiglio di classe a stabilire, all’interno del PEI, la tipologia di prove che lo studente deve sostenere. Nel caso di PEI con percorso personalizzato e prove differenziate equipollenti, l’alunno consegue il diploma di scuola secondaria di II grado. Nel caso di PEI con percorso differenziato e prove differenziate non equipollenti, l’alunno non consegue il diploma ma un attestato di credito formativo. Quest’ultimo si consegue anche nel caso in cui l’alunno non si presenti all’esame. Nelle Linee Guida si evidenzia che è sufficiente una singola “non conformità” in una disciplina per precludere il conseguimento del diploma. Pertanto, basta differenziare quanto previsto in una disciplina oppure esonerare l’alunno dall’insegnamento di una sola materia, affinché il percorso sia differenziato e non conduca al conseguimento del diploma. Ciò è testimoniato anche dalla disposizione dettata dall’articolo 20, comma 13, del decreto n. 62/2017, sulla base della quale uno studente con DSA esonerato dall’insegnamento delle lingue straniere segue un percorso differenziato e non consegue il diploma, bensì l’attestato di credito formativo. Da quanto detto sopra, è chiaro che gli studenti con disabilità “anche grave hanno un “diritto allo studio” ma non anche “al titolo di studio”. E’ questo il principio enunciato dal Consiglio di Stato in risposta ad un quesito posto dal Miur dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.215/87, da cui trae origine la locuzione “PEI differenziato” (Linee guida). Passaggio dal PEI differenziato al PEI semplificato Il passaggio dell’alunno da un PEI differenziato ad uno semplificato, quindi il rientro in un percorso ordinario, è possibile a condizione che lo studente, in apposita sessione, superi prove integrative riguardanti le discipline e i rispettivi anni di corso duranti i quali è stato seguito un percorso differenziato. Nelle Linee Guida si evidenzia come tale passaggio sia difficilmente realizzabile nell’ultimo anno di corso. Si tratta di una grave criticità e una stortura più e più volte segnalata dalle istituzioni scolastiche. PEI, prove, conseguimento diploma I grado o attestato credito formativo Nella scuola secondaria di I grado non c’è distinzione tra prove equipollenti e non, poiché l’alunno con disabilità, che sostiene l’esame, consegue comunque il diploma. Il decreto 62/17, infatti, dispone lo svolgimento di prove d’esame “differenziate, coerenti con il percorso svolto, con valore equivalente ai fini del superamento dell’esame e del conseguimento del diploma”. Le prove, dunque, sono differenziate ma hanno valore equivalente, per cui l’alunno consegue comunque il titolo di studio. Il rilascio dell’attestato di credito formativo, invece, è previsto soltanto nel caso in cui l’alunno non si presenti all’esame. Decorrenze Con la nota n. 40/2021, successiva al succitato DI 182/2020, il Ministero ha chiarito che il nuovo modello di PEI dovrà essere adottato dall’a.s. 2021/22 (può essere utilizzato comunque già dal 2020/21) e che trovano immediata attuazione il PEI provvisorio e il Curricolo dell’alunno. Fermo restando quanto appena detto, la nuova disciplina, relativa alle commissioni mediche per l’accertamento della disabilità, al profilo di funzionamento (che ricomprende la diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale), al modello di PEI e alle modalità di richiesta e assegnazione delle risorse di sostegno, si dovrebbe applicare agli studenti che passano da un grado di istruzione all’altro, come si legge nell’articolo 19/17bis del D.lgs. n. 66/2017 e come sentenziato dal TAR Lazio. Dopo tale sentenza potrebbe essere utile un ulteriore chiarimento da parte del Ministero.

obiettivi minimi

Programmazione per obiettivi minimi e DSA. È possibile optare per una “programmazione per obiettivi minimi” anche per alunni con DSA? E si potrà fare anche all’Esame di Stato? Non esiste la “programmazione per obiettivi minimi”. Gli obiettivi minimi rientrano tra i criteri di valutazione, eventualmente in certi casi personalizzabili, ed indicano la prestazione minima attesa affinché un obiettivo (o l’insieme degli obiettivi) sia considerato raggiunto. “Programmazione per obiettivi minimi” dovrebbe significare che vengono proposti e insegnati solo i contenuti ritenuti essenziali per la sufficienza: non è ovviamente così perché l’alunno con DSA è in una classe e fruisce dello stesso insegnamento dei compagni. Questi studenti sostengono le stesse prove d’esame degli altri, a parte eventualmente le lingue straniere. Può cambiare la modalità di somministrazione (tempi aggiuntivi e uso di strumenti compensativi) ed entro certi limiti è possibile personalizzare i criteri di valutazione, ad esempio assegnando maggior peso ai contenuti e meno alla forma.

Saturday, December 2, 2023

Diritto all'Oblio

il diritto alla riservatezza, sorto in passato come “right to be let alone”[26], viene oggi inteso quale libertà di verificare la diffusione e il trattamento di dati personali[27], col duplice proposito di porre, da un lato, un freno alle indebite ingerenze sulla sfera personale, appartenete a ciascun individuo, e di controllare, d’altro lato, il modo in cui avviene l’edificazione della biografia di ognuno, mediante la diffusione delle relative informazioni[28]. Sul piano normativo, il diritto ad un trattamento rispettoso della propria sfera personale è sancito all’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale indica anche le modalità in cui il trattamento debba concretamente avvenire[29], mentre la protezione della propria vita privata e familiare (ossia di ciò a cui facciamo comunemente riferimento col termine privacy) è garantita dall’art. 7 della stessa Carta[30]. Sempre sulla base dell’art. 2 Cost.[31], è stato successivamente elaborato il diritto all’identità personale, la cui natura è, tuttavia, ben distinta da quella del diritto alla riservatezza[32], seppur ne abbia seguito le orme e ne condivida il fondamento giuridico[33]. Sebbene l’art. 1 del Codice Privacy faccia espresso riferimento al «rispetto della dignità umana»[34], tuttora il contenuto del diritto all’identità personale non trova definizione in alcun testo normativo. Così, è necessario risalirne per il tramite delle riflessioni dottrinali[35] e delle decisioni giurisprudenziali[36]. A proposito, il comun denominatore delle innumerevoli definizioni sembrerebbe posarsi sul sentimento che ciascun individuo nutre di se stesso, per come è via via maturato nel tempo, mediante il singolare approccio alla vita che ognuno realizza con la propria matrice ideologica, il che rende l’individuo una personalità unica nel proprio genere. In ogni caso, bisogna specificare che, alla consapevolezza interiore di sé, deve, comunque, seguire la corretta rappresentazione di sé all’esterno, sempre in linea con i comportamenti e le condotte palesati dalla persona rappresentata[37], in maniera tale da farla sentire pienamente connotata nella vita di relazione con gli altri[38]. A questo punto, c’è comunque da sottolineare che l’interesse ad essere se stessi, congiunto a quello di non vedersi posti in cattiva luce, trova tutela in quanto tale, indipendentemente, cioè, dagli effetti, positivi o negativi, arrecati sull’onore e sulla reputazione ad opera di un travisamento circa gli aspetti della personalità: di conseguenza, anche un travisamento migliorativo potrebbe presentarsi come illegittimo[39]. Come anticipato, i diritti in parola, anche se distinti sul piano concettuale, si fondono quando ci si trova ad operare nell’ambito del corretto trattamento dei dati personali, per il cui soddisfacimento è, al contempo, necessario garantire un margine di riserbo ed una rappresentazione corrispondente alla realtà[40]. Questa contingenza è, a maggior ragione, riscontrabile nel contesto digitale odierno, in cui gli utenti della Rete, a volte volontariamente, altre volte in modo del tutto inconsapevole, concorrono a creare varie rappresentazioni virtuali del proprio essere, le quali si possono palesare molto eterogenee tra loro, proprio per la potenzialità, tipica degli strumenti informatici, di stratificare dati su dati riguardanti le persone, spesso senza alcuna verifica preventiva da parte dei soggetti idonei ad effettuare un’apposita cernita[41]. Per tale ragione, diviene ancor più pregnante assicurare una specifica tutela nei confronti del diritto all’identità digitale, il quale prevede, in particolare, un aggiornamento continuo di quei dati che risultano pertinenti a qualificare ciascun individuo nella sua totalità, per far sì che vengano rimossi quegli elementi che, di converso, hanno perso la loro finalità caratterizzante verso uno specifico soggetto, sebbene l’abbiano avuta in passato[42]. Non a caso, l’art. 9 della Dichiarazione dei diritti in Internet stabilisce che «ogni persona ha diritto alla rappresentazione integrale ed aggiornata delle proprie identità in rete», cosicché, come previsto dallo stesso articolo, «l’uso di algoritmi e di tecniche probabilistiche deve essere portato a conoscenza delle persone interessate, che in ogni caso possono opporsi alla costruzione e alla diffusione di profili che le riguardano»[43]. In tal modo, si può far pulizia di quei dati inutili, e spesso fuorvianti, che altrimenti la Rete continuerebbe ad accumulare e riproporre indebitamente ai suoi utenti[44]. Cosicché, l’oblio diviene lo strumento fondamentale per rivendicare il diritto a vedere rappresentata la propria identità al passo con i tempi, soprattutto quando si siano verificati, nel frattempo, notevoli mutamenti sul proprio essere, che potrebbero aver reso inattuali alcuni tratti identitari, tipici di periodi della vita ormai trascorsi[45]. Nel caso in commento, in aggiunta alle esigenze del soggetto menzionato negli articoli giornalistici, è rinvenibile, sulla sponda opposta, l’interesse dei media a fornire le informazioni al pubblico, a cui fa da contraltare, per l’appunto, l’interesse della collettività a ricevere le informazioni, che rientra nel profilo, per così dire, passivo della libertà di informazione. Il diritto di cronaca giornalistica è tutelato, e allo stesso tempo limitato, dall’art. 21 Cost., in quanto si presenta come un corollario della libertà di stampa, la quale appartiene, a sua volta, al più ampio genus della libertà di manifestazione del pensiero. L’attività di dare informazioni non è, comunque, fine a se stessa, bensì è strumentale all’interno del processo di creazione di una pubblica opinione, per cui sarebbe impossibile, in un contesto democratico, per di più improntato sul principio di eguaglianza, immaginare una stampa avulsa da una sfera di garanzia, prevista anche a beneficio dei destinatari per cui la stessa stampa esiste ed opera. Così, pur nel silenzio dell’art. 21 Cost., il diritto ad essere informati è del pari desunto, in via interpretativa, ad opera della giurisprudenza costituzionale, dalla disposizione dello stesso articolo[46]. Inoltre, esso trova espresso riferimento in atti normativi sovranazionali: difatti, l’art. 10, co. 1, CEDU sancisce che «ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera […]»; ne fa eco l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a mente del quale «ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere»; lo stesso principio è posto nell’art. 11, co. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui «ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera». Ad ogni modo, nel perimetro di una democrazia pluralista e digitalizzata, in cui circolano legittimamente una miriade di dati di matrice diversa, il punto focale parrebbe non esser più semplicemente il diritto a ricevere delle informazioni tout court, bensì il diritto di accedere a notizie veritiere, imparziali ed aggiornate, frutto cioè di un giornalismo responsabile[47]. In particolare, una corretta informazione è rinvenibile laddove sussistano alcune condizioni essenziali, grazie alle quali è possibile preservare l’onore, la reputazione e la dignità delle persone menzionate, al punto tale da consentire al diritto di cronaca di assumere i connotati di esimente[48], al pari del diritto di critica e di satira. Tali condizioni rientrano nel c.d. Decalogo del buon giornalista, che è stato formulato dalla giurisprudenza[49], proprio al fine di tratteggiare dei criteri specifici da tener conto in occasione del bilanciamento tra i diritti dei soggetti coinvolti nelle notizie e diritto di informazione, ivi compresi quei casi in cui si palesino i margini per il diritto all’oblio. Questi requisiti consistono nella verità della notizia, nella continenza espositiva, nell’utilità sociale dell’informazione, nella sua essenzialità ed attualità[50]. Un riferimento generico a tali condizioni è presente all’art. 137, co. 3, del Codice Privacy, con riguardo al trattamento dei dati «effettuato nell’esercizio della professione di giornalista» (lett. a), art. 136) e «finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione anche occasionale di articoli» (lett. c), art. 136). In aggiunta, l’art. 139 affida ad un corpo normativo, predisposto dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti e allegato al Codice Privacy, l’individuazione di «regole deontologiche relative al trattamento dei dati di cui all’articolo 136, che prevedono misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli relativi alla salute e alla vita o all’orientamento sessuale»[51]. Allo stesso tempo, nel mezzo tra la notizia e i fruitori del servizio informativo, si posizionano degli intermediari, che prestano anche ulteriori servizi, in aggiunta alla semplice catalogazione[52]. In effetti, l’uso preponderante dei motori di ricerca, per ottenere aggiornamenti costanti e in tempo reale sull’attualità, induce a porre l’attenzione sul trattamento dei dati, forniti da terzi sui siti Internet, che vengono poi raccolti e trattati nei server dei motori di ricerca. In proposito, bisogna rimarcare che «il trattamento di dati personali svolto nel contesto delle attività di un motore di ricerca è cosa diversa e ulteriore rispetto al trattamento svolto dagli editori di siti terzi»[53]. Difatti, il motore di ricerca, come già scritto, fa solo da intermediario per giungere alla notizia, ma non contribuisce a creare la notizia medesima. Ciononostante, l’evoluzione normativa e la giurisprudenza propendono sempre di più verso una responsabilizzazione dei motori di ricerca, per far sì che, in una realtà eterea senza confini, com’è quella virtuale, trovino, comunque, soddisfacimento sia gli interessi degli utenti che gli interessi dei soggetti nominati sui siti[54]. In conclusione, preme ribadire che il diritto alla riservatezza e all’identità personale aggiornata, da un lato, e il diritto di informazione e di cronaca, dall’altro, sono diritti fondamentali di pari rango costituzionale. Ne consegue che è inammissibile predeterminarne una gerarchia fissa, mediante la quale enucleare, una volta per tutte, quale tra questi diritti possa ritenersi predominante rispetto agli altri, con un ragionamento semplicistico in termini di assolutezza[55]. Ne discende la necessità di operare, caso per caso, un bilanciamento giudiziale sulla base di tutte le circostanze significative[56], il quale, sebbene consenta di esaltare, di volta in volta, le peculiarità del singolo caso, non può, del resto, esonerare dal rischio di creare alcune difformità tra le varie decisioni[57].

Piani Cottura

Friday, December 1, 2023

Camini Aperti

Il divieto per i camini aperti Sono molte le località italiane in cui è vietato utilizzare i camini aperti, con lo scopo di favorire la lotta all’inquinamento dell’aria, purtroppo aggravato dall’uso di queste soluzioni per il riscaldamento. Camino a legna aperto tradizionale Un divieto che non è esteso a priori all’intero Paese, ma che riguarda tutti i Comuni situati ad un altitudine inferiore ai 300 metri, nelle regioni Lombardia ed Emilia Romagna. Ulteriori restrizioni ci sono anche in altre regioni, come il Piemonte e il Veneto. Il parametro è stato scelto in relazione al clima che contraddistingue le località più fredde, dove il camino contribuisce molto al riscaldamento degli edifici. I provvedimenti sopra accennati, sono ormai in vigore da alcuni anni, ma non sempre vengono rispettati. Che cosa si intende per camino aperto Per camino aperto si intende un focolare a fiamma libera, quindi senza un vetro. Si tratta di una tipologia di camino spesso tradizionale, ma non solo, in quanto negli scorsi anni sono stati installati ancora dispositivi, anche moderni, fatti in questo modo. In realtà, questa tipologia di camini, soprattutto di nuova installazione, nasce più come componente d’arredo che come soluzione per il riscaldamento della casa, tanto che anche la sua efficienza non è adeguata ai livelli richiesti ora per le abitazioni. Però, ciò che davvero non li rende adatti ad essere accesi con elevata frequenza, è proprio il loro contributo all’inquinamento atmosferico, in quanto sono fonte di polveri sottili e altri inquinanti. Utilizzare un camino di questa tipologia, quindi, vanifica il vantaggio di ricorrere ad una fonte rinnovabile e naturale come la legna, generalmente considerata a impatto zero in quanto, durante il suo ciclo di vita, un albero assorbe una quantità di emissioni almeno pari a quanta ne produce durante la combustione. Perché installare un caminetto chiuso a norma Un caminetto chiuso, invece, prevede la presenza di un vetro temprato che isola il focolare dall’ambiente, aumentano l’efficienza della combustione e il calore prodotto e riducendo le emissioni di sostanze inquinanti. Perché installare un caminetto chiuso a norma Un’ulteriore evoluzione avvenuta, poi, è quella che prevede la sostituzione della legna con il pellet, con la possibilità di programmare e regolare il camino in modo ancor più puntuale. In ogni caso, al di là del modello installato, un camino chiuso moderno riscalda la casa in modo più efficiente, è più sicuro per le persone che la abitano ed è decisamente meno inquinante. Per misurare al meglio le prestazioni di questi nuovi camini, si utilizza una classificazione a stelle: più stelle si raggiungono (il massimo è 5), più le performance ambientali sono buone. Un camino aperto può essere riqualificato e messo a norma? La Legge non prevede tanto il divieto di uso del camino, ma piuttosto che lo si usi per il riscaldamento solo nel caso in cui rispetti la normativa. Anche un camino aperto, quindi, può essere riqualificato e trasformato in un camino chiuso efficiente, eventualmente in grado anche di scaldare tutti gli ambienti domestici, tramite apposito sistema di canalizzazione. In ogni caso, il risultato ottenuto deve essere coerente con le prestazioni richieste. Un camino aperto può essere riqualificato e messo a norma? Ad esempio, in Lombardia si possono installare sistemi a biomassa a 4 o 5 stelle e non si possono accendere sistemi che abbiano meno di 3 stelle. Alcuni divieti più stringenti, poi, possono essere imposti in periodi specifici dell’anno. Inoltre, è necessario rispettare la normativa in materia di manutenzione, anche per gli impianti di riscaldamento a legna. Sono previsti controlli periodici della canna fumaria, che in Lombardia diventano annuali da questo inverno. Inoltre, l’intero impianto deve essere sottoposto a manutenzione, con una frequenza che varia a seconda della potenza del camino. Il consiglio, è quello di affidarsi sempre a manutentori professionali, in Regione Lombardia registrati nel CURIT, che rilasciano anche il Rapporto di Controllo regionale. All’utente, chiaramente, è demandata la pulizia quotidiana del camino, necessaria per assicurarne le massime prestazioni.

Canile