Tuesday, September 27, 2022

PierSilvioBerlusconi a Genova

GENOVA - Pier Silvio Berlusconi è arrivato con il suo elicottero bianco, atterrando letteralmente al Salone Nautico Internazionale di Genova, per poter ammirare alcuni gioielli tra yacht e barche a vela. Ad accoglierlo Saverio Cecchi, presidente di Confindustria Nautica, e il governatore di Regione Liguria Giovanni Toti, con cui ha iniziato il giro tra i cantieri che espongono le loro novità qui al salone. Intercettato da Primocanale, non si è sbilanciato in nessuna preferenza in particolare, ma ha commentato: "Tantissime barche belle, siamo orgogliosi della nautica italiana". La visita è proseguita tenendo assieme ai figli Lorenzo e Sofia ed è stata lunga e minuziosa. In particolare, l'amministratore delegato di Mediaset e figlio di Silvio Berlusconi, è salito a bordo di un 100 piedi SanLorenzo e si è intrattenuto a lungo nello stand Mercedes. Attorno alle 18 è poi ripartito, forse alla volta di Portofino, sempre in elicottero.

Monday, September 26, 2022

Genova, al Salone Nautico è un altro mondo: niente crisi, ma affari a tre cifre. E le passerelle elettorali sono lontane

iaggio tra l'esposizione delle barche tra chi guarda e basta e chi compra: "Mettere da parte i soldi non serve più". Ma c'è chi ammette: "Il problema è poterselo permettere" 26 SETTEMBRE 2022 E' PRESENTE ANCHE PIER SILVIO BERLUSCONI assieme al Presidente di J@TCompany vicino ai cantieri San Lorenzo. Ai tornelli d’ingresso, pass al collo, si entra (quasi) si fosse tutti uguali: sfilano vista mare fornitori e compratori, costruttori e allestitori, investitori e curiosi. “In fondo”, fanno spallucce i più, davanti ai primi mega yacht, “sognare costa poco”. Al primo stand, in cinque in coda alla passerella per il ponte barca, sui divanetti bianchi dell’ospitalità si è concluso in mattinata l’ultimo acquisto: dieci metri a vela, 198mila euro allestimenti esclusi, consegna primavera 2024. “Non è il miglior affare della giornata, - rivela il venditore - ma è un altro passo in più in questa annata eccezionale”. Benvenuti nella bolla tra le bolle del Salone del boom, il Nautico che mentre là fuori infuriano guerre e crisi energetiche e politiche – l’ultimo scossone di giornata è l’assist mezzo tv di Silvio Berlusconi all’amico Putin – tra i cantieri dell’ex Fiera di Genova celebra il raggiungimento della cifra totem dei 6 miliardi di fatturato complessivo. Un’edizione che per la prima volta non ha visto trasformare le banchine in passerelle politiche, domenica si vota e la campagna elettorale andava fatta altrove, di qua non è passato neanche l’atteso Matteo Salvini, ma allo stesso tempo pare la più “politica” di sempre. Se con il mare all’orizzonte “tutto passa, tutto si allontana”, assicurano i veri appassionati in visita al Salone, - del resto – figuriamoci la politica,(UN DI MAIO FUORI DAL PARLAMENTO, COME UNO SGARBI) figuriamoci la crisi. Ma basta la passione, per spiegare il più 30 per cento del settore, nella fine estate più difficile della storia recente, con il dibattito pubblico diviso tra giravolte elettorali e gli effetti del caro bollette? “Con il Covid la gente ha capito che conta di più godersi la vita che tenersi i risparmi in banca”, ci si sente spiegare tra un ponte e l’altro, tra gli aspiranti compratori che pattinano scalzi tra leghi e ottoni. “Lo status ormai è diventato usare le cose, viversele, non più possederle”, è l’analisi di un imprenditore milanese, a Genova “non per comprare, non è ancora l’anno buono, - mette in chiaro - al massimo per rifarmi gli occhi”. L’impressione è che la questione sia un poco più semplice, però, e per capirlo basta mettersi in coda per pagare (caro) un caffè. “La crisi non è per tutti, e qui si vede bene”. La crisi non è per tutti, e a dirlo sono i numeri, mica altro. “Quest’anno abbiamo fatto 40 milioni nel comparto vela, 30 nel motore”, fa il quadro del suo anno “mostruoso” Federico Gambini, presidente del gruppo friulano Solaris Yachts, fresco di vendita di un nuovo 50 piedi da 595mila euro. “Comprano stranieri ma anche una buona fetta di italiani, prenotano barche che vedranno tra due anni, in tanti di rimbalzo dopo le chiusure della pandemia: chi se lo può permettere ha deciso di volersela godere”. La verità, banale ma puntuale, è che “i super ricchi della crisi non ne hanno risentito, anzi, qualcuno se l’è cavata ancora meglio – continua Gambini, mica un agitatore della sinistra radicale – e noi ci guadagniamo”. Tra le migliaia di passaggio dal Salone più importante della nautica italiana, dicono i numeri, sono realmente interessati all’acquisto di imbarcazioni, dalle più piccole alle più grandi, solo due visitatori su dieci. Basta questa percentuale, però, - nota Alessandro Guardigli, che in Italia rappresenta Majesty yachts e tratta usato di primissima qualità, trattando barche che vanno dai 300mila euro ai 35 milioni – per dare l’idea di “una bolla fortunata”. “Lo scorso anno nautico si è chiuso con un più 6 per cento in più rispetto all’anno migliore di sempre, il 2007”, spiega. “Per capire come andrà quest’anno servirà aspettare ancora qualche mese, ma il boom c’è già”. Tra tanti zeri e comunicati stampa da record, però, “attenzione perché tutti i numeri su cui ci stiamo cullando sono comunque un po’ viziati”. Chiedere per credere ai “piccoli” del settore, come i titolari della Conero, cantiere marchigiano che costruisce barche da pesca e da turismo dai 4 agli 8 metri, investimenti da 20, 30mila euro. “Il settore della nautica oggi è un castello di carta – mette in guardia Debora Domizio, alla guida dell’azienda – Tra grandi si fa il boom, tra i piccoli si cresce di neanche un terzo, aumentano i costi, i clienti pensano due, tre volte per spendere quello che prima spendevano subito”. “La realtà è la stessa di un po’ tutto il Paese, un po’ tutti i settori: dalla pandemia alla guerra, di questi tempi chi sta bene sta sempre meglio, chi prima stava attento alla bolletta ora deve iniziare a stringere la cinghia, chi stava male starà sempre peggio”. La barca va, insomma, e la forchetta aumenta. Ma con il mare all’orizzonte “tutto passa, tutto si allontana”, recitano i veri marinai. Figuriamoci la crisi, soprattutto per chi non ce l’ha.

SCANIA MOTORI MARINI

Sunday, September 11, 2022

In memory of Queen Elizabeth II

Ci ha lasciati la donna più influente dei nostri tempi, nonché icona d’Inghilterra, la ReginaElisabetta II. L’Italia intera si stringe attorno a tutta la famiglia reale. Era Regina dal 1952 e il suo regno è stato il più longevo della storia britannica, un arco di tempo che va da Churchill a Liz Truss. Rimarrà per sempre simbolo del più alto valore delle istituzioni, delle tradizioni inglesi e del mondo libero. Per questo , sbagliano coloro che lamentano una presunta eccessiva manifestazione d’affetto nei confronti di Elisabetta II, come se nulla dovesse interrompere l’ormai abituale banalizzazione di qualsiasi evento, consumandolo superficialmente nello spazio di un pomeriggio; come se i fatti del mondo avessero tutti il medesimo valore e scorressero veloci, scomparendo subito per non annoiare, come sul muro di un social. Qui non è questione di monarchia o repubblica, di destra o sinistra, di chi se ne frega o invece m’interessa; è questione intima nostra ritrovarci in alcuni momenti, ammettendo anche banalmente di condividere un leggero velo di tristezza, che possa restituirci un desiderio di essere migliori tutti insieme. Martedì 24 novembre 1992, Guildhall di Londra, banchetto per festeggiare i suoi primi quarant’anni di regno. Elisabetta II ha la voce leggermente rauca. Qualche giorno prima è stata costretta a respirare i fumi dell’incendio che aveva devastato il castello di Windsor, ma non per questo rinuncia al discorso che ha preparato per i suoi sudditi. Una frase resterà idiomatica: “Questo 1992 non sarà un anno di cui mi ricorderò con piacere. È stato veramente un annus horribilis”. Per lei, davvero un’annata nera. Nerissima, se pensiamo al rogo di Windsor. Otto mesi prima, a marzo, il secondogenito maschio Andrea si era separato dalla provocante Fergie, dopo la pubblicazione di foto scandalose. Ad aprile era stato il turno di Anna, l’unica figlia: il divorzio da Mark Phillips, capitano del reggimento dei Dragoni, è l’ultimo atto di una tumultuosa love story punteggiata da reciproci tradimenti che fanno la gioia dei tabloid. A giugno, le rivelazioni di lady Diana piombano su Buckingham Palace scuotendo le fondamenta della Corona: la nuora denuncia la relazione extraconiugale di Carlo, l’erede al trono, con Camilla Parker Bowles (oggi è la regina consorte). Le polemiche virulente sul tenore di vita della famiglia reale affossano l’immagine della monarchia britannica. Gli anni Novanta, in verità, si rivelano miserabili sotto il profilo domestico, ma sulla scena internazionale il prestigio di Elisabetta si consolida, ha sottolineato Robert Hardman, ex corrispondente reale e autore della biografia Queen of the World. PUBBLICITÀ Martedì 6 settembre 2022. Trent’anni dopo, una Elisabetta II affaticata ma sorridente riceve al castello scozzese di Balmoral Liz Truss, ufficializzandone così la nomina a nuova premier conservatrice. Proprio colei che nel 1994, durante il congresso liberal-democratico di Brighton, aveva reclamato l’abolizione della monarchia (ma anche del nucleare, come la legalizzazione delle droghe). Fino all’ultimo, insomma, nonostante la salute precaria, la sovrana ha voluto assolvere il suo dovere, l’ormai celebre royal duty, che non ha mai smesso di onorare. Due giorni dopo, purtroppo, la sovrana britannica è spirata. Perlomeno era riuscita a compiere la sua missione: rafforzare l’istituzione reale, essendosi assunta, col suo ruolo, tutte le responsabilità. In un momento drammatico: perché mai come in queste ultime settimane il Regno Unito si è trovato così vicino alla “catastrofe sociale”, come si legge nell’edizione settimanale del Guardian datata 2 settembre. Il 2022 è l’annus horribilis del Regno Unito. Carovita incalzante, prezzi alle stelle, paura per l’immediato futuro (bollette, disoccupazione crescente, inflazione che galoppa: la Banca d’Inghilterra prevede che toccherà in autunno il 13%). Scioperi a ripetizione hanno scandito la profonda crisi politica che ha portato, molto faticosamente, alla nomina della Truss. La quale, nello stesso giorno in cui è morta Elisabetta, ha dichiarato: “È un momento durante il quale bisogna essere audaci”. E ha poi annunciato un piano di massicci aiuti (100 miliardi di sterline, ossia 115 miliardi di Euro, che però potrebbero raggiungere i 179 miliardi secondo una stima della Deutsche Bank): “Noi dobbiamo fronteggiare una crisi dell’energia. Non ci sono opzioni gratuite”. E ha aggiunto, per addolcire la pillola amara: “Le misure annunciate oggi porteranno importanti benefici alla nostra economia”. Ma intanto le bollette volano, ad aprile erano aumentate del 54%, ora sono cresciute di un altro 30%. Il nuovo governo, che sino a poco tempo fa si era opposto ad aiuti diretti perché ritenuti incapaci di risolvere i problemi di fondo, ha cambiato idea, decidendo di tamponare le bollette del gas e dell’elettricità: i nuclei familiari riceveranno un contributo medio calcolato su 1.000 sterline. Per i sindacati, tuttavia, sono palliativi. E cresce la rabbia. O peggio, cresce la voglia di ribellarsi. Disobbedienza civile. Strangolati dalle bollette, 145mila persone hanno accolto l’appello dell’associazione Don’t Pay UK (“Non pagate”) lanciato da un gruppo di quattro amici che il governo ha subito bollato di “irresponsabilità”. Le sottoscrizioni potrebbero raggiungere il milione di firme entro ottobre. Duplice, lo scopo. Quello politico, di far pressione sull’esecutivo. Quello pragmatico, di lanciare – nel caso non venissero adottate misure concrete – lo sciopero delle fatture. Questa iniziativa è una delle tante: la protesta coinvolge ormai quasi tutte le categorie dei lavoratori, ma anche le associazioni delle piccole imprese come la Fsb, la quale ha condotto un’inchiesta per appurare che più della metà delle piccole imprese sono asfissiate dai costi di produzione e di trasporto, col rischio di una pesante decrescita nei prossimi dodici mesi.
Consapevoli della gravità della crisi energetica, molte località hanno deciso di creare delle “banche di calore”. Lo spiega The Sunday Times: “A Birmingham, a Bristol e a Glasgow, dei centri di ricreazione, delle biblioteche e degli edifici religiosi potranno servire da rifugio per le famiglie che non possono permettersi questo inverno il riscaldamento”. Il problema è che anche molte strutture, soprattutto quelle religiose, aperte al pubblico temono di non poter pagare le bollette, è l’allarme lanciato dal settimanale New Statesman. Per rimediare qualche sterlina in più della loro pensione, 174mila persone di oltre 65 anni hanno ripreso a lavorare ed è un altro segnale che certifica una crisi che forse nasce da lontano. Di sicuro, anche dalla Brexit. Nel mirino di chi vede compromesso il futuro ci sono appunto i brexiteer a cui viene rinfacciato di non essere stati capaci di mantenere le promesse, ossia di “riprendere il controllo” emancipandosi dall’Unione europea. In questo bailamme, “il movimento sindacale è tornato in carreggiata dopo trent’anni di ripiegamento”, ha scritto il Financial Times, infatti gli scioperi si sono moltiplicati e coinvolgono ferrovieri e scaricatori, camionisti, postini e avvocati. L’ex ministro degli affarti Esteri Liz Truss riuscirà a sbrogliare la matassa sempre più ingarbugliata del caos provocato dalla crisi energetica, dalla guerra in Ucraina, dalla piena attuazione della Brexit, dalla scomparsa della Regina? Come il suo mentore Boris Johnson, è politicamente inafferrabile, poiché cambia opinione a seconda delle circostanze. Come hanno commentato in molti, la mancanza di spina dorsale della Truss inquieta gli ambienti della City ma pure quelli di Bruxelles. È diventata primo ministro dopo 52 giorni di lotte fratricide all’interno del partito conservatore, ottenendo il 5 settembre solo il 57,4% dei voti contro il 42% del rivale Rishi Sunak, ex ministro delle Finanze. Troppe incognite. Troppe situazioni al limite: dall’energia al sistema sanitario, dalle scuole alla recessione. E ora non c’è più Elisabetta a fare da parafulmine alle angosce e alle preoccupazioni nazionali. The Observer, prestigioso quotidiano di sinistra, dubita che la nuova premier sia all’altezza della sfida. Per ora ha le chiavi di Downing Street. Ma non le chiavi del cuore degli inglesi, come Sua Maestà Elisabetta II. Martedì 24 novembre 1992, Guildhall di Londra, banchetto per festeggiare i suoi primi quarant’anni di regno. Elisabetta II ha la voce leggermente rauca. Qualche giorno prima è stata costretta a respirare i fumi dell’incendio che aveva devastato il castello di Windsor, ma non per questo rinuncia al discorso che ha preparato per i suoi sudditi. Una frase resterà idiomatica: “Questo 1992 non sarà un anno di cui mi ricorderò con piacere. È stato veramente un annus horribilis”. Per lei, davvero un’annata nera. Nerissima, se pensiamo al rogo di Windsor. Otto mesi prima, a marzo, il secondogenito maschio Andrea si era separato dalla provocante Fergie, dopo la pubblicazione di foto scandalose. Ad aprile era stato il turno di Anna, l’unica figlia: il divorzio da Mark Phillips, capitano del reggimento dei Dragoni, è l’ultimo atto di una tumultuosa love story punteggiata da reciproci tradimenti che fanno la gioia dei tabloid. A giugno, le rivelazioni di lady Diana piombano su Buckingham Palace scuotendo le fondamenta della Corona: la nuora denuncia la relazione extraconiugale di Carlo, l’erede al trono, con Camilla Parker Bowles (oggi è la regina consorte). Le polemiche virulente sul tenore di vita della famiglia reale affossano l’immagine della monarchia britannica. Gli anni Novanta, in verità, si rivelano miserabili sotto il profilo domestico, ma sulla scena internazionale il prestigio di Elisabetta si consolida, ha sottolineato Robert Hardman, ex corrispondente reale e autore della biografia Queen of the World. Martedì 6 settembre 2022. Trent’anni dopo, una Elisabetta II affaticata ma sorridente riceve al castello scozzese di Balmoral Liz Truss, ufficializzandone così la nomina a nuova premier conservatrice. Proprio colei che nel 1994, durante il congresso liberal-democratico di Brighton, aveva reclamato l’abolizione della monarchia (ma anche del nucleare, come la legalizzazione delle droghe). Fino all’ultimo, insomma, nonostante la salute precaria, la sovrana ha voluto assolvere il suo dovere, l’ormai celebre royal duty, che non ha mai smesso di onorare. Due giorni dopo, purtroppo, la sovrana britannica è spirata. Perlomeno era riuscita a compiere la sua missione: rafforzare l’istituzione reale, essendosi assunta, col suo ruolo, tutte le responsabilità. In un momento drammatico: perché mai come in queste ultime settimane il Regno Unito si è trovato così vicino alla “catastrofe sociale”, come si legge nell’edizione settimanale del Guardian datata 2 settembre. Il 2022 è l’annus horribilis del Regno Unito. Carovita incalzante, prezzi alle stelle, paura per l’immediato futuro (bollette, disoccupazione crescente, inflazione che galoppa: la Banca d’Inghilterra prevede che toccherà in autunno il 13%). Scioperi a ripetizione hanno scandito la profonda crisi politica che ha portato, molto faticosamente, alla nomina della Truss. La quale, nello stesso giorno in cui è morta Elisabetta, ha dichiarato: “È un momento durante il quale bisogna essere audaci”. E ha poi annunciato un piano di massicci aiuti (100 miliardi di sterline, ossia 115 miliardi di Euro, che però potrebbero raggiungere i 179 miliardi secondo una stima della Deutsche Bank): “Noi dobbiamo fronteggiare una crisi dell’energia. Non ci sono opzioni gratuite”. E ha aggiunto, per addolcire la pillola amara: “Le misure annunciate oggi porteranno importanti benefici alla nostra economia”. Ma intanto le bollette volano, ad aprile erano aumentate del 54%, ora sono cresciute di un altro 30%. Il nuovo governo, che sino a poco tempo fa si era opposto ad aiuti diretti perché ritenuti incapaci di risolvere i problemi di fondo, ha cambiato idea, decidendo di tamponare le bollette del gas e dell’elettricità: i nuclei familiari riceveranno un contributo medio calcolato su 1.000 sterline. Per i sindacati, tuttavia, sono palliativi. E cresce la rabbia. O peggio, cresce la voglia di ribellarsi. Disobbedienza civile. Strangolati dalle bollette, 145mila persone hanno accolto l’appello dell’associazione Don’t Pay UK (“Non pagate”) lanciato da un gruppo di quattro amici che il governo ha subito bollato di “irresponsabilità”. Le sottoscrizioni potrebbero raggiungere il milione di firme entro ottobre. Duplice, lo scopo. Quello politico, di far pressione sull’esecutivo. Quello pragmatico, di lanciare – nel caso non venissero adottate misure concrete – lo sciopero delle fatture. Questa iniziativa è una delle tante: la protesta coinvolge ormai quasi tutte le categorie dei lavoratori, ma anche le associazioni delle piccole imprese come la Fsb, la quale ha condotto un’inchiesta per appurare che più della metà delle piccole imprese sono asfissiate dai costi di produzione e di trasporto, col rischio di una pesante decrescita nei prossimi dodici mesi.
Consapevoli della gravità della crisi energetica, molte località hanno deciso di creare delle “banche di calore”. Lo spiega The Sunday Times: “A Birmingham, a Bristol e a Glasgow, dei centri di ricreazione, delle biblioteche e degli edifici religiosi potranno servire da rifugio per le famiglie che non possono permettersi questo inverno il riscaldamento”. Il problema è che anche molte strutture, soprattutto quelle religiose, aperte al pubblico temono di non poter pagare le bollette, è l’allarme lanciato dal settimanale New Statesman. Per rimediare qualche sterlina in più della loro pensione, 174mila persone di oltre 65 anni hanno ripreso a lavorare ed è un altro segnale che certifica una crisi che forse nasce da lontano. Di sicuro, anche dalla Brexit. Nel mirino di chi vede compromesso il futuro ci sono appunto i brexiteer a cui viene rinfacciato di non essere stati capaci di mantenere le promesse, ossia di “riprendere il controllo” emancipandosi dall’Unione europea. In questo bailamme, “il movimento sindacale è tornato in carreggiata dopo trent’anni di ripiegamento”, ha scritto il Financial Times, infatti gli scioperi si sono moltiplicati e coinvolgono ferrovieri e scaricatori, camionisti, postini e avvocati.
L’ex ministro degli affarti Esteri Liz Truss riuscirà a sbrogliare la matassa sempre più ingarbugliata del caos provocato dalla crisi energetica, dalla guerra in Ucraina, dalla piena attuazione della Brexit, dalla scomparsa della Regina? Come il suo mentore Boris Johnson, è politicamente inafferrabile, poiché cambia opinione a seconda delle circostanze. Come hanno commentato in molti, la mancanza di spina dorsale della Truss inquieta gli ambienti della City ma pure quelli di Bruxelles. È diventata primo ministro dopo 52 giorni di lotte fratricide all’interno del partito conservatore, ottenendo il 5 settembre solo il 57,4% dei voti contro il 42% del rivale Rishi Sunak, ex ministro delle Finanze. Troppe incognite. Troppe situazioni al limite: dall’energia al sistema sanitario, dalle scuole alla recessione. E ora non c’è più Elisabetta a fare da parafulmine alle angosce e alle preoccupazioni nazionali. The Observer, prestigioso quotidiano di sinistra, dubita che la nuova premier sia all’altezza della sfida. Per ora ha le chiavi di Downing Street. Ma non le chiavi del cuore degli inglesi, come Sua Maestà Elisabetta II. Quando Elisabetta II è ascesa al trono, nel 1952, sull’impero britannico non tramontava mai il sole. Il declino era già cominciato con l’indipendenza dell’India, nel 1947, ma Winston Churchill, tornato a guidare il governo durante i primi passi della giovane sovrana, era deciso ad aggrapparsi a un impero ancora potente. Nel momento della sua scomparsa, 70 anni dopo, Elisabetta II era ancora la regina di 14 paesi oltre a quelli che formano il Regno Unito (al suo apogeo erano 32). Tuttavia – a parte Canada, Australia e Nuova Zelanda – queste nazioni sono soprattutto piccoli residui dell’ex impero nei Caraibi e nel Pacifico meridionale. Tutti gli altri si sono allontanati dalla corona, anche se mantengono un legame privilegiato attraverso il Commonwealth. Senza dubbio i prossimi giorni saranno segnati da un cordoglio planetario per la perdita di una sovrana che sembra essere stata sempre presente, a prescindere dall’età o dalla provenienza di ciascuno di noi. Ma possiamo già chiederci quale sarà l’influenza della monarchia dopo la sua scomparsa, in un mondo che sta vivendo un colossale cambiamento. Svolte repubblicane “Dall’impero alla Brexit”: forse questo è un riassunto troppo brutale del regno di Elisabetta II, ma in fondo è una descrizione fedele del Regno Unito degli ultimi decenni, che non ha mai smesso di rimpicciolirsi e rischia un’ennesima amputazione. Altri paesi potrebbero infatti abbandonare il simbolo monarchico. L’ultimo ad averlo fatto, nel 2021, è stata Barbados, un’isola caraibica abitata da 300mila persone il cui governo ha proclamato che “è arrivato il momento di lasciarci alle spalle il nostro passato coloniale”. La lista non si concluderà con Barbados. La notizia è passata abbastanza inosservata, ma nel maggio scorso, quando i laburisti hanno vinto le elezioni legislative in Australia, hanno nominato un sottosegretario per la repubblica. Il partito vorrebbe infatti organizzare un referendum per passare dalla monarchia alla repubblica nel caso in cui ottenesse un secondo mandato. Altre fonti hanno rivelato che il suo attaccamento all’Europa era immenso Con la morte di Elisabetta II non si volta solo la pagina coloniale, ma anche quella postcoloniale. Elisabetta era diretta discendente della regina Vittoria – il cui giubileo, nel 1897, coincise con l’apogeo dell’impero britannico – e ha vissuto la transizione postcoloniale. Il suo successore dovrà affrontare un mondo completamente diverso. Elisabetta è stata regina di un impero scomparso, ma anche di un Regno Unito che non trova il suo posto nel mondo. La riservatezza a cui era costretta le ha impedito di esprimersi pubblicamente in merito alla Brexit. I tabloid britannici le hanno attribuito a volte opinioni favorevoli, ma altre fonti hanno rivelato che il suo attaccamento all’Europa era immenso.

Friday, September 9, 2022

Fabrizio Schiaffonati

Uno sguardo sulla città: intervista a Fabrizio Schiaffonati
Autore dell'articolo:Duccio Prassoli Categoria dell'articolo:#Numero 05 - 2019 - CITTÀ DEL FUTURO Fabrizio Schiaffonati, architetto, professore ordinario al Politecnico di Milano dal 1980 al 2012, ha ricoperto diversi ruoli istituzionali: direttore di dipartimenti, presidente di corsi laurea di architettura, coordinatore di dottorati di ricerca, membro del Consiglio di Amministrazione e del Senato Accademico, direttore del Centro Formazione Permanente e del Centro Qualità di Ateneo. Visiting professor all’Accademia di Architettura di Mendrisio dal 2003 al 2005 e all’Università Bocconi di Milano nel 2007. Membro della Commissione edilizia del Comune di Milano dal 1987 al 1993. Progettista di diversi interventi alla scala architettonica e urbana è tra i soci fondatori della Società Italiana di Tecnologia dell’Architettura (SITdA). Attualmente è presidente di Urban Curator TAT, associazione culturale che promuove studi e progetti di riqualificazione urbana della città di Milano. – 1 – Inizierei facendo un inquadramento generale sulla sua carriera, ci racconti di lei. Mi sono laureato negli anni Sessanta al Politecnico di Milano, per l’esattezza nel 1966, e ho fatto una tesi di laurea con relatore Ludovico Barbiano di Belgiojoso. L’argomento della tesi era la progettazione di un centro civico per l’istituendo decentramento amministrativo della città di Milano, localizzato in prossimità del nodo di interscambio della stazione di Rogoredo. Belgiojoso era stato il primo presidente del Piano Intercomunale Milanese (PIM) e quindi sviluppava temi didattici su complessi progetti di scala territoriale. Avevo frequentato il suo corso di Composizione al quarto e quinto anno. Subito dopo la tesi mi fu proposto di diventare assistente del professore. Franca Helg, socia dello studio professionale di Albini, da tempo coordinava il gruppo degli assistenti di Belgiojoso. Ciò mi diede modo di conoscere anche Franco Albini, in quanto le riunioni degli assistenti erano spesso convocate dalla Helg presso il suo studio. Albini era una persona molto riservata, di poche parole, che però partecipò diverse volte alle nostre riunioni, anche perché lui si alternava nello stesso corso biennale. La stima di Albini e Belgiojoso era reciproca. Erano stati chiamati a insegnare a Milano dallo Iuav di Venezia, a cui avevano dato un importante impronta, dopo le contestazioni studentesche del 1963 che avevano portato ad un notevole rinnovamento della didattica a Milano. Al terzo anno avevo frequentato il corso di Ernesto Nathan Rogers, che aveva vinto la cattedra di Elementi di composizione. Una figura fondamentale per la mia formazione di architetto. Infatti, da questo incontro ho scoperto la mia vocazione, per i suoi tanti stimoli e riferimenti culturali. Ho fatto quindi per qualche anno l’assistente di Belgiojoso, per poi essere incaricato come docente di Tecnologia. Per un interesse per gli aspetti costruttivi che ho sviluppato proprio durante l’attività didattica con Belgiojoso. I BBPR avevano infatti progettato nei primi anni Sessanta il quartiere popolare Gratosoglio, un grande intervento di edilizia prefabbricata. Un intervento che durante i corsi era stato fatto oggetto di analisi anche per gli aspetti costruttivi, normativi e di organizzazione della produzione. Un’attenzione che veniva riservata al rapporto intercorrente tra ideazione dell’opera e sua costruibilità. Un mio interesse che andavo anche approfondendo professionalmente, perché incaricato con altri giovani architetti della redazione del Piano di Edilizia economico e popolare per conto di un Consorzio pubblico promosso nell’ambito del PIM, il Cimep. Un’occasione che mi ha impegnato per un triennio parallelamente all’attività didattica, e che mi vedeva in sintonia con Belgiojoso, a cui chiedevo anche delucidazioni e informazioni. Su questo filone ho proseguito per tutti gli anni Settanta, accentuando il mio impegno didattico. Nel 1980 ho vinto il Concorso nazionale di professore ordinario per la cattedra di Tecnologia dell’Architettura e sono stato chiamato a insegnare al Politecnico di Milano. Sulla fine degli anni Settanta ero già stato eletto alla Direzione dell’Istituto di Tecnologia, che era stato gemmato dall’Istituto di Composizione, col compito di strutturare organicamente le discipline della progettazione e della produzione edilizia. Nello stesso anno con un’importante legge di riforma erano stati istituiti i dipartimenti universitari. Mi sono quindi subito attivato per trasformare l’Istituto in una struttura dipartimentale, con altri docenti e in particolare con Marco Zanuso, che già faceva parte dell’Istituto di Tecnologia. Una figura che si era resa disponibile, con un notevole contributo, allo sviluppo di questa ipotesi. Il dipartimento fu istituito con la denominazione Dipartimento di Programmazione, Progettazione e Produzione Edilizia. Una titolazione con l’intento di rendere chiaro l’ambito della sua ricerca e della didattica, esteso all’intero processo della produzione architettonica. In sintonia anche con le nuove istanze della domanda di abitazione e servizi secondo alcune importanti politiche del periodo, come la riforma della casa, l’istituzione delle regioni e il varo di nuove normative per l’edilizia e il territorio. Quella del Dipartimento PPPE, primo dipartimento di area tecnologica istituito in Italia, prospettava una visione fortemente innovativa e interdisciplinare, anche decisamente critica rispetto ad una concezione della composizione architettonica espressa negli anni Ottanta dal postmodernismo. Ho diretto questo dipartimento per due mandati fino al 1987, svolgendo poi anche altri diversi ruoli istituzionali all’interno del Politecnico. Tra cui Presidente della Commissione Edilizia del Politecnico, Membro del Consiglio di Amministrazione, Presidente di Corsi di Laurea, Coordinatore di Dottorati di Ricerca, ed altro ancora. Questo per dire che ho sempre ritenuto importante essere coinvolto in attività gestionali al fine di orientare e migliorare le politiche scientifiche dell’Ateneo, in una fase di continui rinnovamenti e di cambiamento degli statuti didattici. Un periodo che giunge fino ad oggi. Il Dipartimento PPPE ha subito poi diverse trasformazioni. Prima Dipartimento di Disegno Industriale e di Tecnologia dell’Architettura (DI.TEc), poi Dipartimento Building Environment Science and Technology (BEST) e oggi Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito (ABC). In questa evoluzione di crescita ho avuto un ruolo sempre attivo. Il Dipartimento è cresciuto, ha ampliato la tematica del design, ha avuto l’adesione dell’area della Tecnologia degli ingegneri, fino all’attuale assetto. Sono stato ancora Direttore dal 2003 al 2007. Nel 2012 sono andato in pensione, mantenendo ancora un incarico di docenza per un Laboratorio di Progetto e Costruzione dell’Architettura. Ho insegnato anche per tanti anni presso il Polo regionale del Politecnico di Mantova, che ho contribuito a fondare anche come membro del Comitato di gestione. Per qualche tempo ho insegnato anche a Piacenza. Mi preme anche sottolineare che nel corso del mio lungo percorso accademico ho svolto una continuativa e intensa attività di ricerca per conto di enti e istituzioni. Ritenendo questo tra i compiti primari dell’Università, per un avanzamento della conoscenza, per l’acquisizione di risorse per la ricerca e la promozione di borse, contratti e posti in organico per giovani ricercatori. 2 – Lei è presente nel panorama milanese da ormai molto tempo, come si immaginava da studente la Milano del futuro? Nella prima metà degli anni Sessanta, quando studiavo al Politecnico, il tema urbanistico era al centro del dibattito. Il primo governo di centro-sinistra aveva nel programma la riforma della legge del 1942. Nel 1963 fu approvata la legge n. 167 sulla formazione dei Piani di zona per l’edilizia economica e popolare. Una visione dello sviluppo edilizio che si voleva ricondurre ad una pianificazione urbanistica organica dopo la ricostruzione del dopoguerra e lo sviluppo senza vincoli degli anni Cinquanta. Si pensi che il primo Piano regolatore italiano approvato fu quello di Milano del 1953, quando buona parte della ricostruzione era già avvenuta. La relazione al Parlamento del direttore generale del Ministero dei Lavori Pubblici Michele Martuscelli in occasione del dibattito sulla riforma urbanistica presentava un quadro drammatico con riferimento alle inadempienze di quasi tutte le città italiane che non si erano ancora dotate di un piano regolatore. Alla proposta di riforma avanzata dall’Onorevole Fiorentino Sullo non fu dato corso, per le opposizioni del “blocco edilizio”. Comunque, alla fine degli anni Sessanta arriverà un decreto legge che introdurrà gli standard urbanistici obbligatori nei piani per aree destinate a servizi. Quindi in quel periodo volevamo fare tutti gli urbanisti. La presidenza di Belgiojoso al Piano Intercomunale Milanese dà un’idea di come l’intellighenzia mettesse al centro la questione urbanistica. Altri grandi temi erano lo sviluppo dei poli industriali al Sud. I centri direzionali delle grandi città (vedi il concorso di Torino sempre con Belgiojoso presidente della giuria). L’architettura veniva traguardata attraverso queste grandi visioni programmatorie e pianificatorie. Quindi un’urbanistica ancora riferita al grande respiro culturale del Razionalismo, a spazi per i servizi e per i parchi. Si guardava a modelli stranieri come la Grande Londra o il Piano di Amsterdam, con il verde che si incuneava tra le “dita” dello sviluppo edilizio. Il “Piano a Turbina” del 1963 di De Carlo, Tintori e Tutino ne è un’emblematica rappresentazione. Quindi urbanistica anche come impegno politico e sociale. Una strada che porterà anche alla contestazione del 1968 contro la speculazione edilizia. Quindi una visione democratica della società, una visione di giustizia sociale coniugata con la qualità della residenza. Un tema che era stato ripreso dalla Gescal, che proseguiva la politica dell’INA-Casa, ma con quartieri più organici e non decentrati come quelli degli anni Cinquanta. Col centro-sinistra, con il Partito Socialista al governo, si respirava un clima del tutto nuovo. Era il tempo che, come diceva Arbasino, “gli Italiani avevano fatto un viaggio a Chiasso”. Si fuoriusciva quindi da un provincialismo per guardare anche alle politiche degli altri paesi europei, alle new towns inglesi, alle villes nouvelles francesi. Un clima che si respirava dentro l’università e in diversi circoli culturali e di partito molto attivi nella città. Una convergenza tra alcune figure accademiche e importanti intellettuali. Nella scuola Belgiojoso, Albini, Rogers, arriverà da Roma più tardi anche Paolo Portoghesi, nella società figure come “l’ingegner olivettiano” Roberto Guiducci, il filosofo Enzo Paci, lo scrittore Ottiero Ottieri, Franco Fortini. Ma ne potrei citare tanti altri. Ad esempio, Umberto Eco, ero studente al quarto o al quinto anno, che era stato chiamato a tenere un corso libero su tematiche di semiologia. Si teneva il sabato mattina, era frequentatissimo, devo dire che capivo e non capivo le sue dissertazioni sulla filosofia tomistica, comunque era affascinante. Si percepiva di essere testimoni di una svolta di una certa importanza. La Milano del futuro la immaginavamo come una grande area metropolitana dove lo sviluppo degli interventi residenziali doveva essere integrato ad un sistema di verde e di infrastrutture. Una città che si sarebbe sviluppata con la crescita del terziario nella zona Garibaldi-Repubblica, secondo le indicazioni già contenute nel Piano regolatore del 1953. Una città di quartieri dotati di tutti i servizi e uno sviluppo prevalente sulle linee di trasporto pubblico: come le Celeri dell’Adda o la linea ferroviaria verso Piacenza. Due aste su cui il PIM/Cimep avanzò la proposta dello sviluppo di insediamenti per complessiva 100.000 abitanti. Si immaginava quindi una città socialmente equilibrata e con la capacità di contenere gli squilibri determinati dalla rendita fondiaria e con una grande capacità amministrativa da parte del comune e degli enti comprensoriali. Non a caso l’urbanista, chiamato a insegnare al Politecnico, Giuseppe Campos Venuti aveva scritto un piccolo libro “Amministrare l’urbanistica” che era una sorta di vademecum per un ruolo di indirizzo della civica amministrazione nello sviluppo della città. Un quadro quindi che connetteva una visione metropolitana, fino alla scala regionale, a una pianificazione particolareggiata dei nuovi quartieri. 3 – E come vede oggi la città del futuro? La città del futuro c’è già. Sono sostanzialmente le megalopoli come Tokio, con oltre 35 milioni di abitanti, oppure San Paolo del Brasile, così come i grandi agglomerati urbani del sud-est asiatico. La città europea è relativamente più contenuta con i 6 milioni di Parigi, gli 8 di Londra, o i 5 di Berlino, ma comunque al centro di importanti contesti regionali. Come ad esempio Milano, che pur non essendo di quelle dimensioni, può essere vista come il fulcro di una città-regione di 10 milioni di abitanti. Il tessuto più consolidato della città europea, la sua storia, la tradizione amministrativa, consentono di contenere e controllare gli sviluppi suburbani entro un sistema di relazioni funzionali e sociali. Già Mumford a fronte del pericolo di un incontrollato sviluppo aveva coniato la relazione “città-metropoli-necropoli”. Cioè il pericolo di una possibile decadenza della città. Un pericolo che già si sta palesando in molte delle megalopoli, dove parti del territorio sono fuori da ogni controllo. Quindi una città con la downtown che convive con ghetti di emarginazione e di insicurezza sociale. La città del centro e della periferia. Due realtà diverse e conflittuali. In questo senso la fine della città come luogo dell’emancipazione sociale e della convivenza civile. Indubbiamente la tecnologia ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo, ma anche nell’occultare queste contraddizioni e disuguaglianze. Lo smartphone ci consente di entrare in contatto con tutti, ci illude di comunicare. I bisogni primari sono evoluti. Lo smartphone è una protesi individuale di uno smart system mondiale. Qui entriamo su considerazioni di carattere etico e filosofico, con diverse interpretazioni. Da catastrofiche ad ottimistiche. Severino ne fa una interpretazione di grande profondità, individuando nella tecnologia un sistema pervasivo e onnicomprensivo di ogni dimensione dell’umano. Uno scenario inquietante, fino a qualche tempo fa fantascientifico. Già Redley Scott in “Blade Runner” aveva preannunciato un medioevo prossimo venturo con slum e automobili volanti. Oggi potremmo non essere così troppo lontani da questo inquietante scenario. Io faccio una divisione tra chi si crogiola in questa visione estetica di una sorta di bellezza del caos, e chi invece, registrando l’ingiustizia di tali squilibri, rilancia un ruolo progressivo del governo della città e del territorio. 4 – Come crede sia cambiata la città in ambito tipologico? C’è un’involuzione. La chiarezza funzionale del Razionalismo è stata superata con una eccessiva disinvoltura verso una commistione di funzioni che spesso presentano problemi di incompatibilità. Se la zonizzazione poteva sembrare una regola eccessivamente rigida, la commistione di oggi è l’inaccettabile estremo opposto. Ci sono ragioni che dovrebbero definire regole morfologiche e tipologiche in grado di trasmettere una chiarezza fruitiva di ogni ambito urbano. È sbagliato pensare che il rapporto tra morfologia e tipologia possa essere superato indistintamente dalle destinazioni funzionali di ogni organismo architettonico. C’è da aggiungere inoltre che il progetto architettonico non può contravvenire a criteri antropometrici, ergonomici e di modalità d’uso degli spazi abitativi, dei luoghi di lavoro, dei servizi e delle infrastrutture in tutta la loro attuale complessa articolazione. Gli architetti che sono stati i miei insegnanti, non solo i professori ma anche i tanti assistenti, partivano da una precisa conoscenza delle tante regole che governano un progetto razionale, corretto, funzionalmente idoneo allo scopo della realizzazione dell’opera. I progetti di opere pubbliche di quell’epoca, posso citare l’esempio dei quartieri e degli edifici della Gescal, erano sottoposti ad un rigoroso controllo fino ai dettagli costruttivi. Questo per non avere successivi costi manutentivi e disagi per gli abitanti. Ricordo anche una mia esperienza personale, giovane architetto, quando alla fine degli anni Sessanta un progetto di un edificio d’abitazione progettato per la Gescal mi fu restituito con una sessantina di osservazioni da parte degli uffici tecnici dell’Istituto Autonomo Case Popolari che esercitavano un accurato controllo in qualità di stazione appaltante per conto della Gescal. Osservazioni giuste, che accolsi di buon grado. Un buon progetto nasce anche da questa pervicacia per eliminare ogni superficiale disattenzione al particolare e al dettaglio. La disattenzione invece di oggi può essere letta come una sorta di analfabetismo di ritorno, col pericolo di una definitiva emarginazione dell’architetto, non più necessario nella fase di ingegnerizzazione del progetto esecutivo sviluppato da altri. La perdita quindi di una tensione della cultura architettonica, che dovrebbe esercitarsi su tutto l’arco della produzione edilizia. 5 – Che cosa ne pensa della densità architettonica nelle città contemporanee? Il discorso della densificazione c’è sempre stato come valorizzazione del centro della città. Vi è anche una dimensione utopica che la ha cavalcata. Basti ricordare la Città Futurista di Sant’Elia, ma anche più recenti utopie degli Archigram e dei Metabolisti. Oggi la concentrazione esiste con elementi parossistici senza una necessità. Con connotazioni di tipo artistico più che architettoniche. Sulla concentrazione non ho nulla in contrario. Sono contrario quando è gratuita, capisco anche l’opportunità del grattacielo, ma penso che si debba sempre trovare un giusto equilibrio rispetto alla vocazione del luogo. La Milano del futuro è già qui, sarà la Pianura Padana, la Città di Lombardia, come acutamente la denominava Virgilio Vercelloni. Sono contrario alle mode. Milano per l’architettura italiana ha ricoperto un ruolo primario e fondamentale perché ha sempre rivendicato una propria identità. Dal Neoliberty in avanti, c’è stato l’intento di non consegnarsi all’International Style. Mi sembra che oggi questa attenzione sia venuta meno con la globalizzazione. Personalmente mi riconosco più nel neologismo Glocal. L’architettura deve rappresentare uno stato di equilibrio tra le innovazioni e le preesistenze, tra il futuro e la storia dei luoghi. 6 – Quando ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada? Ho deciso la mia strada incontrando Rogers. Mi ero iscritto a ingegneria senza un’idea precisa. Il primo giorno dell’inizio del corso lasciai ingegneria e mi trasferii ad architettura. La scelta per architettura forse derivava dal clima che avevo in casa e dalla compagnia di mio padre che si circondava di intellettuali e pittori. Mio padre era un docente e un intellettuale che nell’immediato dopoguerra ha avuto un certo ruolo politico nella città di provincia da cui proveniva. Ha lasciato anche molti scritti autobiografici e non solo, che io dopo la sua morte ho editato per amici e quanti lo hanno conosciuto. Poi ho incontrato Rogers che mi ha affascinato. Ho scambiato con lui poche parole, studente del suo primo corso di Elementi di composizione, e ne ho avuto un imprinting. Quando mi incontrava mi chiedeva: “Sei andato avanti col progetto? Sei sempre lì? Sono curioso di vedere come ne vieni fuori…”. Non mi dava consigli. Ma era l’attenzione che mi dedicava a stimolarmi. L’attenzione di questa figura che si sedeva al mio tavolo, si concentrava sullo sviluppo del progetto che stavo facendo (il tema era una scuola media), poi se ne andava senza dirmi nulla. Di questo modo carismatico di rapportarsi tra docente e discente c’è un libro molto bello di Bernard-Henri Lévy, “Le avventure della libertà”, che racconta anche dei silenzi dei suoi e di altri maestri. Insegnavano coi silenzi, così era anche di Belgiojoso. Io parlo fin troppo. 7 – Qual è la sua idea di Architettura? Non ne ho una in particolare. Quella che trovo più congrua con il mio pensiero, se devo dirla tutta, l’ho copiata. Me l’ha detta recentemente un mio amico, l’architetto Paolo Aina: “L’Architettura è quella cosa che deve far star bene la gente”. Mi ha colpito questo concetto del benessere. Il benessere è un fatto complesso. Quello vero, è soprattutto psicologico. Se c’è un benessere psicologico ne derivano anche tutte le conseguenze più pratiche. Quindi l’architettura è un problema di giuste dimensioni e di corretti rapporti, fisici e sociali. Le Corbusier aveva inventato il Modulor. Un’idea che potrebbe apparire gratuita, ma che ha introdotto invece il fine dell’architettura per l’uomo. Un approccio non più come un fatto aulico, ma profondamente umano. Ma l’architettura può dare anche un’emozione come un’opera d’arte. Con il passare degli anni ho notato che architetture che prima non avevo guardato con attenzione oggi mi emozionano. Come ad esempio, rimanendo nel contesto milanese, l’ingresso dentro Torre Velasca è emozionante. O le opere di Caccia Dominioni. 8 – Un Consiglio che vorrebbe dare ai giovani architetti e studenti? Quando Paolo Portoghesi è stato il curatore della sezione di architettura della Biennale di Venezia nei primi anni Ottanta, io ho realizzato con la RAI un lungometraggio dal titolo “Lavorare in architettura”, che è stato poi trasmesso in prima serata. Affrontavo attraverso immagini e interviste il rapporto che intercorre tra progettazione e costruzione dell’architettura. Avevo scelto tra i testi a commento recitati da una voce fuoricampo un brano di Le Corbusier che invitava gli studenti a disertare le aule per recarsi nei cantieri. L’architettura senza il cantiere non esiste, prima va progettata e poi va costruita. Si deve vedere e capire come la si costruisce. Quindi l’architettura non va solo vista sulle immagini di riviste o su internet, ma bisogna visitarla, vederla coi propri occhi. L’architettura vive della multisensorialità di chi la fruisce e la percepisce.

Thursday, September 8, 2022

Aeroclub Brescia succedeva nel 2009

Si è trasformò in tragedia con un morto e un ferito grave la seconda giornata del Brixia Air Show, la manifestazione dedicata al volo, in programma nel pomeriggio di questa domenica a Montichiari, nell'area dell'aeroporto Gabriele D'Annunzio. La vittima è Marzio Maccarana, un aviatore professionista di Ronco di Gussago di soli 26 anni ma già con molta esperienza (guidava gli aerotaxi della Aliven di Verona), allievo istruttore. Si trovava sul velivolo insieme con il suo copilota e capo istruttore dell'aeroclub Brescia con base a Montichiari, Paolo Castellani, piacentino di 55 anni molti dei quali trascorsi nell'aeronautica militare, il quale è ricoverato in ospedale in prognosi riservata per fratture agli arti superiori e trauma cranico. Un piccolo aereo acrobatico dell'aeroclub Brescia (identificato come CAP 10 I-ZAG) con le due persone a bordo è infatti precipitato intorno alle 16,18, quattro minuti dopo il decollo, davanti agli occhi delle decine di migliaia di persone che stavano assistendo alla manifestazione che avrebbe avuto come momento clou l'esibizione delle Frecce Tricolori. La visibilità era ottima e il velivolo monomotore Mudry Cap10b (dotato di doppi comandi) era da poco impegnato in alcune evoluzioni quando ha perso potenza nell'eseguire una figura che in gergo viene chiamata 'cappio'. Ed.è caduto dopo aver toccato il terreno con l'ala destra, ribaltadosi ai bordi della pista e lasciando costernati e terrorizzati tutti i presenti, che hanno potuto assistere in diretta alla tragedia. Tra l'altro, pare che lo speaker abbia illuso la folla comunicando in un primo momento che entrambi gli occupanti dell'aereo erano vivi e scatenando un applauso liberatorio. Purtroppo invece non era così. Quando i soccorritori si sono portati sul luogo dello schianto, sono riusciti a estrarre solo Paolo Castellani ancora vivo dai rottami. Per il giovane Marzio Maccarana, purtroppo, non c'era ormai più nulla da fare. All'incidente hanno assistito anche la madre e la fidanzata della vittima. Il ferito è stato trasportato in gravi condizioni con l'eliambulanza all'ospedale Civile di Brescia, dove non corre pericolo di vita. La manifestazione è stata sospesa in segno di lutto e l'attesa esibizione della pattuglia acrobatica dell'Aeronautica militare è stata annullata. Per decine di migliaia di appassionati bresciani c'è stato un triste ritorno a casa da Montichiari. L'Agenzia nazionale per la sicurezza al volo ha aperto un'inchiesta sull'incidente. Il velivolo era stato completamente revisionato nel 2006. Indaga anche la procura di Brescia che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti. Se ne occupa il sostituto Sara Pozzetti. Sul corpo di Maccarana il magistrato ha disposto un'autopsia. Il funerale è in programma giovedì 9 settembre alle 15,30 nella chiesa di San Zenone a Ronco di Gussago. Pubblichiamo qui sotto il video con la ripresa in diretta della tragedia effettuata dall'emittente Teletutto, tratto da Youtube. Si è sempre difeso sostenendo che nulla poteva prevedere, né evitare: fino all'ultima manovra fatale, Marzio Maccarana aveva chiuso evoluzioni perfette con il suo velivolo e nulla lasciava presagire l'errore che gli è costato la vita. Anche avesse avuto la sfera di cristallo, in ogni caso, non avrebbe avuto tempo e modo di impedire la tragedia. In sette secondi, e non potendo disporre di comandi autonomi, non sarebbe riuscito ad evitare lo schianto che è costato la vita al 26enne pilota nel corso dell'Air Show del settembre 2009 a Montichiari, e a lui un'incriminazione per omicidio colposo. Le ragioni di Paolo Castellani, piacentino con un passato da pilota dell'aeronautica e da istruttore di volo, a bordo del velivolo pilotato dal 26enne bresciano morto il 6 settembre del 2009, sono state accolte dal giudice dell'udienza preliminare Luciano Ambrosoli. Ieri il gup ha infatti pronunciato il non luogo a procedere nei confronti del superstite di quella tragedia aerea perché il fatto, così come contestato dal sostituto procuratore Carla Canaia, ovvero l'omicidio colposo per condotta omissiva, non sussiste. Ventotto mesi dopo l'incidente, avvenuto sotto gli occhi di centomila persone e ripreso in diretta dalle telecamere di Teletutto, si chiude la vicenda processuale. La morte di Maccarana alla cloche del Cap10, precipitato ad una velocità ben oltre i 200 km/h, non è dipesa da chi era seduto al suo fianco e che è miracolosamente uscito vivo dalla carcassa fumante del velivolo precipitato in sette secondi. Le inchieste condotte dall'Enav e dalla Procura della Repubblica sono arrivate ad escludere una causa tecnica dell'incidente. L'aereo, un biposto capace di una velocità di crociera di 270 km/h, era correttamente mantenuto e non palesava alcun tipo di problematica. La conclusione per l'Ente nazionale dell'aviazione e per il sostituto procuratore è stata unanime: a causare lo stallo fu l'errata manovra di chi lo conduceva. Un evento, stando almeno alle conclusioni rassegnate dal consulente del pubblico ministero, però evitabile. Per l'accusa infatti Paolo Castellani avrebbe avuto modo e tempo di impugnare la cloche e correggere la traiettoria imposta al velivolo da chi lo pilotava e quindi evitare lo schianto con le sue mortali conseguenze. Il 58enne pilota piacentino, come ha ribadito al giudice dell'udienza preliminare il suo difensore, l'avv. Marco Capra, non aveva alcun obbligo giuridico in quella circostanza. Castellani era a bordo solo ed esclusivamente come passeggero, non manovrava il mezzo, né stava impartendo una lezione a Maccarana. I sette secondi intercorsi dall'uscita dall'ultima manovra riuscita allo schianto, secondo la difesa del 58enne piacentino, non erano sufficienti in quelle condizioni per prendere il comando del biposto e «raddrizzarlo». Ammesso fossero bastati Castellani, che passò alcuni giorni in ospedale in seguito allo schianto, avrebbe dovuto vincere la resistenza del pilota. I comandi del Cap10 sono sì doppi, ma solidali. Il 58enne piacentino avrebbe dovuto strapparli letteralmente di mano a Maccarana per riportare l'aereo in condizioni di sicurezza. Troppo difficile non solo per riuscirci, ma anche per finire a processo.

Tuesday, September 6, 2022

Liceo o Istituto Tecnico

“Quella del liceo contro l’istituto tecnico è una vecchia diatriba, un po’ miope. Se guardiamo ai premi Nobel per la Letteratura in Italia mi sembra quasi ridicola: Dario Fo aveva frequentato quello che oggi si chiamerebbe liceo artistico, Salvatore Quasimodo era geometra, Eugenio Montale ragioniere…”. Queste le parole di Piergiorgio Odifreddi, matematico, logico, divulgatore scientifico e accademico, nel commentare con l’AdnKronos il botta e risposta tra il leader di Azione, Carlo Calenda, e il segretario della Lega, Matteo Salvini, che ieri sono tornati a scontrarsi sul tema scuola. Calenda ha dichiarato che molti dei ragazzi che frequentano gli istituti tecnici “hanno un problema di preparazione gigantesco”. Odifreddi, classe 1950, ha frequentato l’Istituto Tecnico per Geometri a Cuneo, dove ha avuto per compagno Flavio Briatore. Un istituto che è stato il trampolino di lancio della sua carriera: dopo aver studiato matematica presso l’Università di Torino (laurea con lode in logica) si è specializzato nella stessa materia negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. “Effettivamente – spiega Odifreddi all’AdnKronos – c’è da dire che il livello delle scuole superiori si è un po’ abbassato negli ultimi decenni, perché gli istituti tecnici mirano troppo a produrre persone in grado di fare un lavoro concreto, mentre i licei restano un po’ sul generico e non dovendo preparare immediatamente al lavoro possono fornire cultura. Credo, tuttavia, che sia qualcosa che ci portiamo dietro in maniera endemica”. Quindi osserva: “Sono stati Giovanni Gentile e Benedetto Croce i due ideologi, cent’anni fa, della riforma Gentile, che separa il liceo e l’istituto tecnico. Prima questa separazione non c’era. Croce e Gentile sostenevano che coloro che dovevano andare a lavorare potevano frequentare la scuola tecnica per imparare il mestiere e chi invece doveva ‘comandare’ allora doveva fare il liceo. Era una cosa classista, che si è tramandata per decenni”. Aumenta il punteggio con le Digital Skill riconosciute dal MIUR Scopri di più Odifreddi si dice d’accordo con Calenda, per il quale tutti gli studenti, almeno per i primi due anni, hanno diritto ad avere una preparazione alla cultura. “Tutti dovrebbero avere accesso alla cultura – rimarca Odifreddi – in particolare chi frequenta gli istituti tecnici. Ci vorrebbe però una riforma radicale della scuola”. Le uniche riforme che negli ultimi anni hanno interessato la scuola, evidenzia Odifreddi, come la riforma Gelmini, “sono andate a toccare il tema insegnanti ma non si è mai ripensato completamente il modo in cui dovrebbero essere le scuole, come e cosa si dovrebbe insegnare, i metodi, i programmi e i media di apprendimento. I metodi oggi sono ancora molto antiquati, bisognerebbe introdurre di più internet e Google, pensare ad allenare il cervello, oltre a dare nozioni”. Per il matematico “servirebbe fare gli Stati generali della scuola”. “Non è tanto la quantità quanto la qualità dell’insegnamento a fare la differenza", fa notare Odifreddi. Il nuovo governo e i partiti, dice Odifreddi, dovrebbero cercare di “ripensare completamente” l’offerta scolastica. Un ripensamento che, chiosa, “non mi sembra si stia facendo”.