Thursday, December 3, 2020
Varie norme del codice penale (di seguito CP) contengono l’espressione che dà il titolo a questo scritto.
L’art. 2 comma 2: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
L’art. 20: “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa”.
L’art. 77 comma 1: “Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati”.
L’art. 106: “Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena. Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali”.
L’art. 174: “L’’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna”.
L’art. 178: “La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti”.
La stessa espressione è poi contenuta negli artt. 12, 556 comma 3 e 609 nonies CP.
Anche il codice di procedura penale (di seguito CPP) contiene espliciti riferimenti in tal senso negli artt. 445, 572, 587, 622 e 669.
Dal canto suo la Legge 354 del 1975, meglio nota come Ordinamento penitenziario, prevede nell’art. 47 comma 12 che “L’esito positivo della prova estingue la pena e ogni altro effetto penale”.
Lo stesso fa l’art. 93 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 (Testo unico sugli stupefacenti) il quale prevede l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale a beneficio del condannato per reati in materia di stupefacenti che li abbia commessi in conseguenza della sua condizione di tossicodipendenza, sempre che abbia attuato il programma terapeutico che gli è stato assegnato e non commetta nuovi delitti non colposi nel quinquennio successivo alla sospensione dell’esecuzione.
Una locuzione ricorrente, dunque, e nella maggior parte dei casi utilizzata in collegamento ad un fenomeno estintivo.
Serve allora comprenderne il significato e l’ambito applicativo.
Non si tratta tuttavia di un’operazione semplice, per due ragioni essenziali: il legislatore non ha offerto alcuna definizione degli effetti penali; è sempre più intenso il collegamento di effetti pregiudizievoli operanti in ambito extrapenale a sentenze di condanna in sede penale.
2. Il punto di vista della giurisprudenza
Il punto di partenza obbligato è facilmente individuabile nella ormai risalente sentenza n. 7/1994, emessa dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione nel procedimento VOLPE.
Il collegio chiarì nell’occasione che: “Gli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possono determinare quell’effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, “ope legis”, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale”.
Le Sezioni unite individuarono dunque tre requisiti indefettibili: l’esistenza di un rapporto causale necessario tra una condanna penale irrevocabile e l’effetto, l’automaticità di questo e la sua natura sanzionatoria che rimane tale anche allorché si esplichi in un ambito diverso da quello penale.
L’orientamento espresso dal Supremo collegio non è stato smentito dalla giurisprudenza successiva che anzi l’ha arricchito di nuovi e più avanzati significati.
Si legge ad esempio nella recente sentenza n. 32438/2016 della prima sezione penale della Corte di Cassazione che: “Per “effetto penale” della condanna deve intendersi ogni conseguenza di essa che si risolva in incapacità giuridiche o che comporti limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà o alla possibilità di ottenere benefici o che rappresenti il presupposto di inasprimento del sistema precettivo o sanzionatorio riguardante il successivo comportamento del soggetto”.
Il riferimento a concetti come incapacità giuridiche, limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà e possibilità di ottenere benefici accentua significativamente la proiezione extrapenale degli effetti penali, che già le Sezioni unite del 1994 avevano riconosciuto.
3. L’effettiva latitudine della categoria degli effetti penali e la loro estensione agli ambiti extrapenali
È piuttosto controverso in dottrina se gli effetti penali possano dispiegarsi anche in ambiti diversi da quello di provenienza.
Un primo orientamento nega questa possibilità. Il suo fondamento viene principalmente individuato in un argomento di ordine letterale: il legislatore ha usato l’espressione “effetti penali della condanna” – anziché quella, pure astrattamente possibile, di “effetti della condanna penale” -intendendo così esplicitare che questa può produrre effetti solo nell’ambito suo proprio, quello della legge penale.
La ragione sottostante – si aggiunge – è l’affermazione del principio garantistico del favor rei che sarebbe frustrato se si ammettesse che l’affermazione di responsabilità in sede penale possa produrre conseguenze negative anche in ambiti differenti.
Un secondo e contrapposto orientamento ammette invece l’estensione extrapenale degli effetti penali.
Anche questa posizione dottrinale è dichiaratamente giustificata da un intento garantista. I suoi sostenitori ritengono infatti che la qualificazione in senso penalistico degli effetti pregiudizievoli nascenti da una sentenza di condanna è l’unico mezzo per assoggettarli alla disciplina propria degli istituti penali sostanziali e rendere quindi operative le garanzie derivanti dalla Costituzione e dai principi generali dell’ordinamento.
Questo secondo orientamento convince assai più del primo. Non solo perché avallato dalla giurisprudenza penale di legittimità con la sentenza 7/1994 e le successive, ma perché più adatto alla realtà legislativa di questi anni e ad offrire strumenti di salvaguardia della civiltà giuridica altrimenti inapplicabili.
Si prende a prestito, per la sua efficacia descrittiva, l’espressione “La società punitiva” usata come titolo di uno scritto nato dalla collaborazione di prestigiosi esponenti della scuola penalistica italiana e pubblicato il 21 dicembre 2016 sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo.
Nella visione degli Autori, chiaramente esplicitata dal sottotitolo “Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista”, la legislazione penale di questi anni è stata ispirata da prospettive di fondo ben poco rassicuranti: “Libertà versus sicurezza è il leitmotiv di questa originale tavola rotonda, che rappresenta un tentativo di riflettere su usi e abusi del diritto penale nell’era della complessità: un diritto penale “liquido” si forgia sempre più spesso su esigenze politiche di consenso, di rassicurazione sociale, dimenticando le sue caratteristiche di Magna Charta del reo” [sono le parole usate da Lucia Risicato nell’introduzione allo scritto].
Una riflessione pienamente condivisibile che può e deve essere allargata ad ambiti diversi da quello penale.
È indiscutibile che il legislatore stia trasformando il diritto penale in una testa d’ariete, creando incessantemente nuove fattispecie incriminatrici, inasprendo quelle già esistenti, annichilendo l’equilibrio tra le parti processuali mediante scorciatoie probatorie collegate tra l’altro all’aumento costante dei reati di pericolo astratto e di sospetto.
Ma accade anche qualcos’altro: sempre più di frequente vengono varate leggi non penali che tuttavia assumono la condanna penale, talvolta anche non definitiva, come unico e indiscutibile presupposto genetico per la produzione di effetti giuridici svantaggiosi in danno dei destinatari.
Effetti destinati a incidere in modo pesante e in qualche caso irreparabile in aree costituzionalmente protette: non solo la libertà personale ma anche la proprietà, il patrimonio e il risparmio, il lavoro, il diritto di elettorato ed altro ancora.
Ecco, se si ritenesse che questi effetti non sono penali, si escluderebbe per ciò stesso che gli si applichino il fondamentale principio di legalità ed i suoi corollari della riserva di legge, tassatività, divieto di analogia, divieto di irretroattività sfavorevole; si assumerebbe che non rientrano nella sfera protettiva dell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e i diritti fondamentali (di seguito CEDU); si escluderebbe infine la loro cessazione in conseguenza di uno dei provvedimenti estintivi previsti dalla legge.
Non serve altro per dimostrare che un’eventualità del genere violerebbe precetti costituzionali primari e renderebbe quel “diritto penale liquido” ancora più punitivo e incoerente rispetto a quanto ci si attende da uno Stato di diritto.
Si ritiene perciò di ribadire convintamente che in una visione costituzionalmente orientata devono essere considerati effetti penali tutti gli effetti giuridici pregiudizievoli che posseggano i requisiti indicati dalle Sezioni unite con la sentenza 7/1994.
Requisiti che, è bene ricordarlo, sono perfettamente in sintonia con i criteri Engel, così denominati perché affermati dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Engel c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976.
Nella visione del giudice di Strasburgo, infatti, una misura ha natura penale se è classificata espressamente come tale dallo Stato che la sancisce o se è conseguenza della violazione di una norma che tutela beni giuridici dell’intera collettività o se ha una natura afflittiva grave, strumentale a fini di prevenzione sociale generale.
4. Le situazioni giuridiche classificabili come effetti penali
La conclusione appena tracciata equivale a riconoscere che la sentenza penale di condanna è idonea a produrre effetti non solo diretti, cioè compresi nell’ambito della cosa giudicata, ma anche indiretti, in grado di agire oltre quella nozione e i suoi limiti.
Il che è come dire, usando le parole di Francesco Carnelutti, che dalla sentenza deriva un giudizio vincolante in ordine al presupposto di una situazione giuridica, altra e diversa rispetto a quella che ha costituito oggetto del processo [il richiamo al pensiero del Carnelutti e alcuni passaggi classificatori ed esemplificativi contenuti in questo scritto sono stati ispirati da Alessandra Sanna, “Effetti penali della sentenza a pena concordata: il peso insostenibile di una condanna senza giudizio di colpevolezza” in Cassazione penale, dicembre 2013, n. 12].
Non finisce qui però il compito dell’interprete, occorrendo ancora individuare in concreto le situazioni giuridicamente rilevanti che possiedono quei caratteri e producono quei risultati.
È un’operazione piuttosto complicata perché, come spesso accade nella scienza giuridica, soprattutto quando il legislatore lascia briglie sciolte, il dibattito registra varie opinioni e orientamenti.
a) Gli effetti penali in ambito penale ed extrapenale chiaramente esplicitati dal legislatore
Le cose sono abbastanza semplici, e non richiedono scelte interpretative rilevanti, nei casi in cui il rapporto di collegamento sia esplicitamente previsto dal legislatore.
Questo può avvenire anzitutto attraverso norme che subordinino la realizzazione di una fattispecie giuridicamente rilevante di tipo penale, civile, amministrativo, disciplinare e contabile all’accertamento giudiziale di un pregresso reato.
Rientra certamente in questo ambito la previsione dell’art. 185 CP secondo la quale “Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”, chiaramente speculare a quelle contenute negli artt. 651 e seguenti del CPP.
Lo stesso può dirsi, questa volta interamente all’interno del giudizio penale, in riferimento all’art. 238 bis CPP il quale consente l’acquisizione di sentenze irrevocabili emesse in altri procedimenti penali ed attribuisce ad esse valore di prova dei fatti ivi accertati, sia pure nel rispetto del criterio valutativo indicato nell’art. 192 comma 3 CPP.
È comune in questi casi un effetto preclusivo del potere discrezionale del giudice del procedimento ad quem, essendo questi tenuto ad uniformarsi all’accertamento già compiuto nel procedimento a quo.
È una regola logica e razionale, che protegge tre importanti interessi: la non contraddizione (la tenuta dell’ordinamento sarebbe messa in difficoltà se più pronunce giudiziali arrivassero a conclusioni differenti sullo stesso oggetto), l’economia dei mezzi processuali (è insensato ripetere in una sede giudiziale accertamenti già compiuti in altra sede) e la ragionevole durata dei processi (che sarebbe ingiustificatamente compromessa da inutili duplicazioni di accertamenti).
La situazione appena descritta può essere anche il frutto di norme regolatrici di fattispecie sostanziali.
Questo avviene quando una fattispecie di tal genere comprende tra i suoi elementi costitutivi un reato o, per meglio dire, la sentenza che lo ha accertato.
Sono sicure manifestazioni di questo fenomeno l’inapplicabilità del beneficio della sospensione condizionale della pena e la sua revoca, l’applicazione delle recidiva obbligatoria e la dichiarazione dello status di delinquente abituale o professionale, istituti tutti collegati ad una condanna penale.
Lo stesso si può dire per fattispecie incriminatrici come il possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli, applicabili solo in presenza di una pregressa sentenza di condanna.
b) Gli effetti penali risultanti dall’applicazione del criterio interpretativo offerto dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione
Fin qui l’argomentare è stato facile poiché si è giovato di un percorso guidato esplicitamente dallo stesso legislatore.
L’universo giuridico contiene tuttavia molteplici disposizioni normative non altrettanto esplicite che però sanciscono effetti dannosi a carico di taluni in diretta conseguenza di una sentenza penale di condanna.
Un primo caso è rappresentato dal complesso di previsioni che precludono, sul presupposto di una condanna penale, l’accesso a determinate posizioni lavorative, spesso collegate all’iscrizione ad un albo professionale.
Una rapida ricognizione dei vari ordinamenti professionali evidenzia la generale necessità del requisito dell’assenza di condanne penali, alcune volte sancito in modo autonomo, altre come componente imprescindibile di uno status di onorabilità.
L’albo dei promotori finanziari
Si pensi, ad esempio, all’ordinamento che regola l’accesso all’albo dei promotori finanziari.
I requisiti di onorabilità e professionalità necessari per l’iscrizione a tale albo sono fissati dal regolamento del Ministro dell’Economia n. 472 dell’11 novembre 1998. La potestà regolamentare è stata attribuita dall’art. 31 comma 5 del Decreto Legislativo n. 58/1998.
Il testo vigente esclude il requisito dell’onorabilità a fronte di condanne penali di un certo tipo ma lo ripristina in presenza della riabilitazione per tali condanne.
Questa disciplina implica necessariamente l’attribuzione della natura di effetto penale all’impossibilità di iscrizione derivante dalla condanna penale, poiché diversamente sarebbe privo di senso giuridico il riferimento all’effetto sanante della riabilitazione, la cui funzione è appunto di estinguere le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna.
Conclusione avallata dalla Comunicazione CONSOB n. DIN/51191 del 4 luglio 2000 in cui si afferma che “le preclusioni all’accesso all’Albo dei promotori finanziari disposte dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.m. 472/1998 devono essere qualificate tra gli effetti penali della sentenza di condanna”.
Data la struttura gerarchica delle fonti del diritto, né un regolamento ministeriale né la risoluzione di un’autorità amministrativa indipendente avrebbero potuto concepire questa classificazione se una fonte legislativa di rango superiore non glielo avesse consentito o imposto.
Questa fonte non può essere il Decreto Legislativo 58/1998 che si è limitato ad attribuire la competenza regolamentare al Ministero dell’Economia e neanche una qualsiasi norma del Codice penale, nessuna di esse contenendo una descrizione contenutistica cui appigliarsi.
Cos’è allora che permette o impone di considerare la preclusione all’accesso all’albo in conseguenza di una condanna un effetto penale estinguibile dalla riabilitazione?
Un formidabile aiuto viene dalla sentenza 211/1993 della Consulta. In un suo passaggio testuale, anche se di rimando all’ordinanza che ha sollevato la questione di illegittimità, si legge che “gli effetti penali della condanna devono discendere da una fattispecie normativa compresa fra le fonti del diritto penale, dovendo obbedire agli stessi principi che disciplinano la materia penale”.
I principi, appunto.
È adesso facile, coerentemente alla prospettiva tracciata nei precedenti paragrafi, individuare nel finalismo rieducativo della pena, sancito dall’art. 27 comma 3 Cost., il principio di maggior rilievo in materia.
La preclusione all’accesso a un albo impedisce l’esercizio di una facoltà giuridica ed è quindi una sanzione ed un effetto penale nel senso precisato dalla sentenza 32438/2016.
Non può quindi sfuggire al raggio applicativo del citato articolo costituzionale il quale impedisce di attribuire alla sanzione penale uno scopo diverso da quello rieducativo.
Sicché sarebbe giuridicamente insensato negare a un condannato riabilitato (quindi rieducato per definizione) la chance di esercitare una professione di cui possieda i requisiti e le competenze.
Fin qui la disciplina dei promotori finanziari, la cui chiarezza è ovviamente agevolata dal tenore letterale del pertinente complesso normativo.
Esistono però altri ordinamenti professionali più complicati.
La disciplina dell’ordinamento forense
Un esempio significativo può essere individuato nella Legge 247/2012 contenente la vigente disciplina dell’ordinamento professionale forense, il cui art. 17 comma 1 lettera f) preclude l’iscrizione all’albo degli avvocati a coloro che abbiano riportato condanna per uno dei reati ivi previsti.
La Legge 247 non contiene per contro alcuna norma che attribuisca alla riabilitazione e istituti analoghi l’idoneità ad estinguere la preclusione.
Può questo silenzio essere interpretato nel senso che lo sbarramento dell’art. 17 non sia un effetto penale?
La risposta a questa domanda passa preliminarmente attraverso l’esame di un altro “silenzio” legislativo, quello sul significato e sul contenuto della categoria degli effetti penali.
Tutte le volte che il legislatore menziona un istituto senza definirlo, sta per ciò stesso affidando agli interpreti il compito di dargli un contenuto significativo e conforme alla ratio legis. Ciò perché una disciplina di dettaglio è impossibile o inopportuna.
Si torna così, necessariamente, alla giurisprudenza citata nella parte iniziale di questo scritto, cui va riconosciuto il valore di statuto degli effetti penali.
Si deve allora convenire, applicandone i parametri al caso concreto, che l’effetto preclusivo trova la sua unica fonte nell’accertamento giudiziale definitivo, si produce automaticamente dal momento che nessuno spazio discrezionale è lasciato all’organismo competente, cioè il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati al quale l’istante presenta la sua domanda di ammissione, e ha una chiara natura sanzionatoria poiché implica la preclusione all’esercizio di una facoltà giuridica.
Un effetto penale della condanna, dunque, con tutto ciò che consegue in ordine alla sua estinguibilità e comunque all’operatività dei principi propri della materia penale.
È scontato che questa soluzione si attagli non solo all’ordinamento professionale degli avvocati ma a qualunque altro ordinamento del genere che contempli situazioni giuridiche dotate delle medesima caratteristiche.
Prima di abbandonare l’argomento, è giusto menzionare un consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità che nega alla riabilitazione (o provvedimenti di analoga natura) l’idoneità a ripristinare automaticamente l’ulteriore requisito della condotta irreprensibile, anch’esso richiesto dall’art. 17 della Legge 247.
È una visione senz’altro condivisibile che non entra affatto in conflitto con le argomentazioni utilizzate in precedenza.
Un conto è infatti attribuire alla preclusione derivante da condanne la natura di effetto penale, altro conto è affermare che l’organismo competente in materia di albo degli avvocati conservi un suo potere valutativo sul significato che la condotta accertata in sede penale assume riguardo all’affidabilità professionale di chi, pur rieducato, si affacci ad una professione che richiede requisiti morali di alto profilo.
La legge Severino
Un’ulteriore questione degna di nota attiene agli istituti di incandidabilità e decadenza creati dal Decreto legislativo 235/2012, meglio noto come Legge Severino dal nome del Guardasigilli pro – tempore [si rinvia, per un approfondimento sistematico dell’argomento, a Vincenzo Nico D’Ascola, “Alla ricerca di un diritto che non c’è. La presunta retroattività della “Legge Severino” tra derive sistematiche e suggestioni moralistiche”, Archivio penale, 2014, n. 1].
Il provvedimento vieta di candidarsi e di continuare a detenere la carica di parlamentare a coloro che hanno riportato condanne definitive per i reati indicati nel suo art. 1.
Demanda inoltre alla Camera di appartenenza, quando una causa di incandidabilità si manifesti durante il mandato elettivo, una deliberazione ai sensi dell’art. 66 Cost.
È da sottolineare, come dettaglio rilevante, che il Decreto 235 non contiene alcuna norma transitoria sicchè è interamente lasciato agli interpreti il compito di stabilire se le sue disposizioni siano applicabili a situazioni maturate prima della sua entrata in vigore.
Diventa di conseguenza imprescindibile la qualificazione giuridica delle misure ivi previste.
L’applicazione retroattiva di queste è infatti possibile solo se si esclude la loro natura di istituti appartenenti al diritto penale sostanziale e muniti di valenza sanzionatoria e gli si assegna per contro la funzione di semplice presa d’atto della perdita di un requisito di eleggibilità.
Non pare dubbio che la scelta debba propendere per la prima opzione se solo si considera che le misure in esame presentano caratteristiche di piena congruenza ai criteri messi a fuoco dalla nostra giurisprudenza di legittimità e a quelli adottati dalla Corte di Strasburgo.
Esse derivano infatti, strettamente, da una condanna penale definitiva, non lasciano alcun significativo spazio di discrezionalità alla Camera chiamata ad applicarle, comportano un’incapacità giuridica rilevante (anche per la durata che non può essere inferiore a sei anni ed è aumentata se il reato per cui c’è stata condanna è caratterizzato in certi modi) che attiene per di più al diritto costituzionale di elettorato passivo e che penalizza, sia pure indirettamente, il diritto di elettorato attivo di coloro che hanno votato il candidato destinatario della sanzione.
A ciò si aggiunga che l’art. 15 comma 3 della Legge Severino attribuisce alla riabilitazione la capacità di estinguere l’incandidabilità, con ciò riconoscendone la natura di effetto penale.
Chiaro allora che l’incandidabilità non può essere applicata retroattivamente, a pena di violare il divieto di irretroattività sfavorevole sancito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Eppure, il 27 novembre 2013 un parlamentare, sulla base di una condanna precedente all’entrata in vigore del Decreto legislativo 235, è stato dichiarato decaduto dalla sua Camera di appartenenza.
L’interessato ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo e nel luglio del 2016 si è appreso che questa ne ha avviato l’esame (il che implica una valutazione positiva sulla ricevibilità) ed ha inviato il Governo italiano a controdedurre.
Se si considerasse la questione esclusivamente dal punto di vista statistico, si constaterebbe che il 90% circa dei ricorsi presentati a Strasburgo non superano il primo filtro ma, quando ci riescono, sono accolti in una percentuale che supera l’80%.
Non sarebbe azzardato perciò immaginare che a questo punto il ricorso di quel senatore ha ottime chance di successo. E se così fosse, si sarebbe persa un’altra occasione per evitare figuracce di fronte ai nostri partner europei.
Ciò che più conta, come osserva D’Ascola nello scritto citato in precedenza, “La vicenda della quale ci siamo occupati di tutto ciò costituisce una preoccupante dimostrazione. Nessuno – almeno a parole – nega il principio di irretroattività sfavorevole. D’altronde un’affermazione così grossolanamente falsa sarebbe risultata improponibile. Piuttosto si preferisce eluderlo, negandone l’efficacia negli spazi immensi destinati ai giudizi morali. Oggi non importa se ciò avviene al prezzo di sacrificare i principi generali sui quali si è retta – per lo meno sin qui – la nostra civiltà del diritto. Si fa finta di nulla. Tutto ciò lascia intravedere un futuro molto ricco di efficacia punitiva, ma poverissimo sul piano delle garanzie”.
Risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni
Un altro caso di particolare interesse, anch’esso emblematico della proliferazione delle conseguenze della condanna penale in ambito extrapenale, è costituito dall’istituto del risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni.
La sua attuale disciplina, configurata nell’ambito della responsabilità per danno erariale, è contenuta nell’art. 1 comma 1° sexies della L. 20/1994 (come riformato dall’art. 1 comma 62 della Legge 190/2012) il quale stabilisce che “nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertata con sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra attività illecitamente percepita dal dipendente”.
Si introduce in tal modo il cosiddetto criterio del duplo, fondato sulla presunzione, apparentemente iuris tantum ma quasi impossibile da contrastare alla luce dei più diffusi criteri di determinazione del danno, che la condotta del dipendente condannato per un reato contro la p.a. abbia prodotto un danno di entità doppia rispetto al valore economico dell’utilità illecitamente perseguita.
Sentiamo cosa dicono al riguardo le Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei Conti nella sentenza 8/2015. Occorre, a loro avviso, “cogliere alcuni tratti della responsabilità per danno pubblico che, pur rimanendo di chiara impronta civilistica, partecipa di alcuni caratteri tipici della responsabilità penale che è dominata da principi anche di matrice costituzionale. Ci si riferisce al principio di legalità ed ai suoi corollari: il primo, che trova la sua massima espressione nell’art. 25 Cost. e nell’art. 7 della Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; i secondi (corollari), che ai fini che ne occupano hanno una certa rilevanza ed attengono ai principi di tassatività, determinatezza (o cosiddetta “precisione”) e al divieto di analogia … Si vuole solo ricordare la natura anche personale e sanzionatoria – e quindi afflittiva – della responsabilità amministrativa, e che la fattispecie di danno all’immagine della P.A. qui in rassegna è posta in stretta correlazione con l’accertamento di reati accertati con sentenza irrevocabile, con ciò anche derogandosi al generale principio di separatezza tra giudizio penale e giudizio contabile.
Parole ancora una volta inequivocabili che consegnano l’istituto in esame all’area degli effetti penali della sentenza di condanna.
La confisca per equivalente
Si chiude questo sottoparagrafo con l’istituto della confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter comma 2 CP, a norma del quale “… è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto”.
La sentenza 31671/2015 delle Sezioni uniti penali della Cassazione è chiarissima al riguardo: “questa particolare figura di confisca, prevista dall’art. 322 ter c.p., per il profitto o il prezzo di taluni reati contro la pubblica amministrazione, viene ormai pacificamente ritenuta dalla giurisprudenza di questa Corte di natura sanzionatoria. Si è infatti osservato, al riguardo, che, avendo la L. n. 300 del 2000, introduttiva dell’art. 322 ter c.p., espressamente previsto, all’art. 15, la irretroattività della confisca per equivalente del prezzo del reato, una simile opzione si appalesa sintomatica del fatto che il legislatore ha configurato l’ablazione del patrimonio del reo, in proporzione corrispondente all’arricchimento provocato dall’illecito quale misura sostanzialmente sanzionatoria. La confisca per equivalente, infatti, viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. E’ evidente, infatti, che, essendo la confisca di valore parametrata al profitto od al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista ‘quantitativo’, l’oggetto della ablazione finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale, in sè, non presenta alcun elemento di collegamento col reato; il che consente di declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria”.
Lo stesso vale naturalmente per la confisca per equivalente in ambito penale - tributario, introdotta dall’art. 1 comma 143 della Legge 244/2007 il quale ha esteso l’art. 322 ter CP ad alcune delle ipotesi di reato previste dal Decreto legislativo 74/2000.
La natura sanzionatoria anche di questa particolare tipologia di confisca (e quindi la sua irretroattività) è stata riconosciuta dalla Suprema Corte con la sentenza 18308/2014.
Ancora un effetto penale, dunque.
La casistica di questi anni consegna all’interprete casi ben più numerosi di quelli qui analizzati. Varrebbe senz’altro la pena esaminarli singolarmente ma questo scritto si accontenta di una riflessione generale nella quale le situazioni specifiche entrano solo perché utili per scopi argomentativi e esemplificativi.
Del resto, gli istituti presi in considerazione danno già sufficientemente l’idea di quanto magmatico e azzardato sia diventato l’apparato sanzionatorio varato dal legislatore e di quanto spesso le sue fondamenta siano fragili.
c) Le pene accessorie
La regolamentazione generale delle pene accessorie è contenuta negli artt. 19 e 20 del Codice penale.
Il primo le elenca e le differenzia secondo che si applichino ai delitti o alle contravvenzioni.
Il secondo ha cura di precisare che esse conseguono di diritto alla condanna in quanto effetti penali della stessa.
Il loro scopo, come suggerisce l’aggettivazione legislativa, è di completare il trattamento sanzionatorio del reo nei casi in cui risulterebbe inadeguato se affidato alla sola pena principale.
Sembrerebbe a prima vista che queste misure, proprio perché oggetto di una specifica elencazione nella parte generale del Codice penale, costituiscano un numero chiuso.
In realtà non è così.
Già lo stesso Codice menziona in più occasioni pene accessorie diverse da quelle contemplate dall’art. 19 (art. 544 sexies, 600 septies – 2, 603 ter e 609 nonies).
Ad esse si aggiungono quelle ulteriori previste dalle leggi speciali in tema di alimenti e bevande, fallimento, stupefacenti, truffe sportive e scommesse clandestine, reati finalizzati alla discriminazione e all’odio razziale o religioso ed ancora dal Codice della navigazione e dalle leggi sulla pesca marittima e sull’inquinamento ed altre ancora.
Fatta questa ricognizione preliminare, è opportuno evidenziare che, in virtù dell’espressa indicazione legislativa contenuta nel citato art. 20, le pene accessorie sono effetti penali delle sentenze di condanna, ponendosi rispetto a questi in rapporto di specie a genere.
Non sono mancati per la verità orientamenti che dubitano di quest’appartenenza ma il criterio letterale non lascia spazio a interpretazioni creative.
La questione vera è un’altra: esistono situazioni giuridiche che, pur non essendo classificate esplicitamente come pene accessorie, potrebbero comunque essere assimilate a queste, almeno secondo taluni orientamenti interpretativi.
Si analizzeranno adesso due casi interessanti e simbolici.
Spese processuali
Il primo è quello delle spese processuali.
Afferma l’art. 535 CPP che “La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali”.
Qual è il fondamento di questo obbligo, quale lo scopo che il legislatore si prefigge per suo tramite?
Un’ottima risposta è stata data dalla sentenza 98/1998 della Consulta.
La questione riguardava l’illegittimità dell’art. 188 comma 2 CP il quale, pur affermando l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligo del condannato di rimborsare le spese di mantenimento carcerario, non conteneva un’analoga disposizione per il rimborso delle spese processuali.
Con una sentenza additiva, la Corte costituzionale dichiarò fondata la questione, affermando l’illegittimità della disposizione per contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 27 comma 2 Cost.
Ritenne decisivo a tal fine l’art. 56 dell’Ordinamento penitenziario il quale ha ammesso la rimessione del debito per le spese processuali e di mantenimento carcerario a favore dei condannati e internati che si trovino in disagiate condizioni economiche e abbiano tenuto una condotta regolare.
L’introduzione di tale istituto, soprattutto alla luce dei suoi presupposti soggettivi e oggettivi, indusse la Consulta a ritenere che il rimborso delle spese processuali avesse mutato la sua natura giuridica: “non più obbligazione civile retta dai comuni principî della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare denota … il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull’adempimento dell’obbligo economico … Non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era già riconosciuta proprio dall’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a seguito della entrata in vigore dell’articolo 56 dell’ordinamento penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine qualificatoria”.
In un altro passaggio motivazionale, la sentenza evidenzia “le nuove potenzialità dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue già disagiate condizioni”.
Una decisione chiara, ben argomentata e proveniente dal giudice delle leggi. Poteva e doveva costituire un approdo definitivo, almeno secondo il comune mortale.
Non è stato così. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, pronunciatasi sul medesimo argomento con la sentenza 28081/2013, ha ritenuto che “la modificazione in quei termini della natura del debito di rimborso delle spese processuali, rilevata dalla Corte Costituzionale … non comporta necessariamente che l’obbligazione di pagamento delle spese processuali abbia preso, in tutto e per tutto, le caratteristiche di una vera e propria pena accessoria … ciò viene confermato dalla circostanza che la pronuncia della Corte Costituzionale ha ricalibrato il regime dell’obbligo al rimborso delle spese processuali su quello del rimborso delle spese di mantenimento in carcere, con l’intervento sul secondo comma dell’articolo 188 c.p., ed estensione al debito di pagamento delle spese processuali della relativa disciplina di personalizzazione dell’obbligo, che peraltro il primo comma del medesimo articolo sottopone inequivocabilmente alla disciplina delle leggi civili”.
È chiaro, e non lo si vuole certo negare, che l’interpretazione giuridica è libera.
Ma dovrebbero far parte del suo standard minimo la correttezza e la precisione dei riferimenti.
La lettura della sentenza 98/1998 fa comprendere che la Consulta ha escluso con la massima chiarezza la natura di obbligazione civile del debito per le spese processuali e quelle di mantenimento. La pronuncia della Cassazione, dimentica di questa esclusione, risulta quindi fondata su un presupposto oggettivamente errato.
Se ne prende atto e proprio per questo si ritiene di ribadire che le spese processuali, al pari di quelle per il mantenimento carcerario, non sono un’obbligazione civile ma una sanzione accessoria alla pena sicché rientrano a buon diritto nel genus degli effetti penali della sentenza di condanna.
Il secondo e ultimo caso è quello dell’ordine di demolizione delle opere abusivamente edificate e della loro confisca (rispettivamente previsti dagli artt. 31 comma 9 e 44 comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 380/2001).
Piuttosto di recente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9949/2016, ha affermato che “Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale … Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall’incidenza della misura sul bene. In tal senso, non sembra ricorrere neppure l’ulteriore ‘indice diagnostico’ della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell’assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante”.
Basta un’occhiata alla giurisprudenza di merito per rendersi conto che non tutti la pensano così. Ad esempio, secondo il Tribunale di Asti, sentenza del 3 novembre 2014, [commentata da Giulia Bucchi Siena, “Strasburgo chiama, Asti risponde: l’ordine di demolizione è una pena e si prescrive”, Archivio penale, 2015, n.1],l’ordine di demolizione è una pena ad ogni effetto ed è quindi soggetta a prescrizione.
Quanto infine alla confisca e ai diversi modi di intenderne la natura, sia consentito il rinvio a V. Giglio [“L’insostenibile lontananza di Strasburgo”, 11 luglio 2016, in questa rivista].
5. Considerazioni finali
Un’espressione generica – effetti penali – trascurata dal legislatore, che non si è neanche preoccupato di definirla, e dagli interpreti, che vi accostano in genere con una certa noncuranza.
Eppure quelle due parole e il contenitore cui rimandano hanno un peso di non poco conto. Nelle vite dei condannati, anzitutto. Nella civiltà giuridica del nostro Paese, subito dopo. Tutto dipende, come si è tentato di dimostrare, dall’uso che se ne fa: torture permanenti di una “società punitiva” o piccoli laboratori da usare al servizio del fine rieducativo delle pena; gabbie entro cui spegnere ogni speranza di reinserimento del reo o strumenti flessibili per assecondarlo.
E si può dire che è tutto.
1. Introduzione
Varie norme del codice penale (di seguito CP) contengono l’espressione che dà il titolo a questo scritto.
L’art. 2 comma 2: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
L’art. 20: “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa”.
L’art. 77 comma 1: “Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati”.
L’art. 106: “Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena. Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali”.
L’art. 174: “L’’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna”.
L’art. 178: “La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti”.
La stessa espressione è poi contenuta negli artt. 12, 556 comma 3 e 609 nonies CP.
Anche il codice di procedura penale (di seguito CPP) contiene espliciti riferimenti in tal senso negli artt. 445, 572, 587, 622 e 669.
Dal canto suo la Legge 354 del 1975, meglio nota come Ordinamento penitenziario, prevede nell’art. 47 comma 12 che “L’esito positivo della prova estingue la pena e ogni altro effetto penale”.
Lo stesso fa l’art. 93 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 (Testo unico sugli stupefacenti) il quale prevede l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale a beneficio del condannato per reati in materia di stupefacenti che li abbia commessi in conseguenza della sua condizione di tossicodipendenza, sempre che abbia attuato il programma terapeutico che gli è stato assegnato e non commetta nuovi delitti non colposi nel quinquennio successivo alla sospensione dell’esecuzione.
Una locuzione ricorrente, dunque, e nella maggior parte dei casi utilizzata in collegamento ad un fenomeno estintivo.
Serve allora comprenderne il significato e l’ambito applicativo.
Non si tratta tuttavia di un’operazione semplice, per due ragioni essenziali: il legislatore non ha offerto alcuna definizione degli effetti penali; è sempre più intenso il collegamento di effetti pregiudizievoli operanti in ambito extrapenale a sentenze di condanna in sede penale.
2. Il punto di vista della giurisprudenza
Il punto di partenza obbligato è facilmente individuabile nella ormai risalente sentenza n. 7/1994, emessa dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione nel procedimento VOLPE.
Il collegio chiarì nell’occasione che: “Gli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possono determinare quell’effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, “ope legis”, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale”.
Le Sezioni unite individuarono dunque tre requisiti indefettibili: l’esistenza di un rapporto causale necessario tra una condanna penale irrevocabile e l’effetto, l’automaticità di questo e la sua natura sanzionatoria che rimane tale anche allorché si esplichi in un ambito diverso da quello penale.
L’orientamento espresso dal Supremo collegio non è stato smentito dalla giurisprudenza successiva che anzi l’ha arricchito di nuovi e più avanzati significati.
Si legge ad esempio nella recente sentenza n. 32428/2016 della prima sezione penale della Corte di Cassazione che: “Per “effetto penale” della condanna deve intendersi ogni conseguenza di essa che si risolva in incapacità giuridiche o che comporti limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà o alla possibilità di ottenere benefici o che rappresenti il presupposto di inasprimento del sistema precettivo o sanzionatorio riguardante il successivo comportamento del soggetto”.
Il riferimento a concetti come incapacità giuridiche, limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà e possibilità di ottenere benefici accentua significativamente la proiezione extrapenale degli effetti penali, che già le Sezioni unite del 1994 avevano riconosciuto.
3. L’effettiva latitudine della categoria degli effetti penali e la loro estensione agli ambiti extrapenali
È piuttosto controverso in dottrina se gli effetti penali possano dispiegarsi anche in ambiti diversi da quello di provenienza.
Un primo orientamento nega questa possibilità. Il suo fondamento viene principalmente individuato in un argomento di ordine letterale: il legislatore ha usato l’espressione “effetti penali della condanna” – anziché quella, pure astrattamente possibile, di “effetti della condanna penale” -intendendo così esplicitare che questa può produrre effetti solo nell’ambito suo proprio, quello della legge penale.
La ragione sottostante – si aggiunge – è l’affermazione del principio garantistico del favor rei che sarebbe frustrato se si ammettesse che l’affermazione di responsabilità in sede penale possa produrre conseguenze negative anche in ambiti differenti.
Un secondo e contrapposto orientamento ammette invece l’estensione extrapenale degli effetti penali.
Anche questa posizione dottrinale è dichiaratamente giustificata da un intento garantista. I suoi sostenitori ritengono infatti che la qualificazione in senso penalistico degli effetti pregiudizievoli nascenti da una sentenza di condanna è l’unico mezzo per assoggettarli alla disciplina propria degli istituti penali sostanziali e rendere quindi operative le garanzie derivanti dalla Costituzione e dai principi generali dell’ordinamento.
Questo secondo orientamento convince assai più del primo. Non solo perché avallato dalla giurisprudenza penale di legittimità con la sentenza 7/1994 e le successive, ma perché più adatto alla realtà legislativa di questi anni e ad offrire strumenti di salvaguardia della civiltà giuridica altrimenti inapplicabili.
Si prende a prestito, per la sua efficacia descrittiva, l’espressione “La società punitiva” usata come titolo di uno scritto nato dalla collaborazione di prestigiosi esponenti della scuola penalistica italiana e pubblicato il 21 dicembre 2016 sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo.
Nella visione degli Autori, chiaramente esplicitata dal sottotitolo “Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista”, la legislazione penale di questi anni è stata ispirata da prospettive di fondo ben poco rassicuranti: “Libertà versus sicurezza è il leitmotiv di questa originale tavola rotonda, che rappresenta un tentativo di riflettere su usi e abusi del diritto penale nell’era della complessità: un diritto penale “liquido” si forgia sempre più spesso su esigenze politiche di consenso, di rassicurazione sociale, dimenticando le sue caratteristiche di Magna Charta del reo” [sono le parole usate da Lucia Risicato nell’introduzione allo scritto].
Una riflessione pienamente condivisibile che può e deve essere allargata ad ambiti diversi da quello penale.
È indiscutibile che il legislatore stia trasformando il diritto penale in una testa d’ariete, creando incessantemente nuove fattispecie incriminatrici, inasprendo quelle già esistenti, annichilendo l’equilibrio tra le parti processuali mediante scorciatoie probatorie collegate tra l’altro all’aumento costante dei reati di pericolo astratto e di sospetto.
Ma accade anche qualcos’altro: sempre più di frequente vengono varate leggi non penali che tuttavia assumono la condanna penale, talvolta anche non definitiva, come unico e indiscutibile presupposto genetico per la produzione di effetti giuridici svantaggiosi in danno dei destinatari.
Effetti destinati a incidere in modo pesante e in qualche caso irreparabile in aree costituzionalmente protette: non solo la libertà personale ma anche la proprietà, il patrimonio e il risparmio, il lavoro, il diritto di elettorato ed altro ancora.
Ecco, se si ritenesse che questi effetti non sono penali, si escluderebbe per ciò stesso che gli si applichino il fondamentale principio di legalità ed i suoi corollari della riserva di legge, tassatività, divieto di analogia, divieto di irretroattività sfavorevole; si assumerebbe che non rientrano nella sfera protettiva dell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e i diritti fondamentali (di seguito CEDU); si escluderebbe infine la loro cessazione in conseguenza di uno dei provvedimenti estintivi previsti dalla legge.
Non serve altro per dimostrare che un’eventualità del genere violerebbe precetti costituzionali primari e renderebbe quel “diritto penale liquido” ancora più punitivo e incoerente rispetto a quanto ci si attende da uno Stato di diritto.
Si ritiene perciò di ribadire convintamente che in una visione costituzionalmente orientata devono essere considerati effetti penali tutti gli effetti giuridici pregiudizievoli che posseggano i requisiti indicati dalle Sezioni unite con la sentenza 7/1994.
Requisiti che, è bene ricordarlo, sono perfettamente in sintonia con i criteri Engel, così denominati perché affermati dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Engel c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976.
Nella visione del giudice di Strasburgo, infatti, una misura ha natura penale se è classificata espressamente come tale dallo Stato che la sancisce o se è conseguenza della violazione di una norma che tutela beni giuridici dell’intera collettività o se ha una natura afflittiva grave, strumentale a fini di prevenzione sociale generale.
4. Le situazioni giuridiche classificabili come effetti penali
La conclusione appena tracciata equivale a riconoscere che la sentenza penale di condanna è idonea a produrre effetti non solo diretti, cioè compresi nell’ambito della cosa giudicata, ma anche indiretti, in grado di agire oltre quella nozione e i suoi limiti.
Il che è come dire, usando le parole di Francesco Carnelutti, che dalla sentenza deriva un giudizio vincolante in ordine al presupposto di una situazione giuridica, altra e diversa rispetto a quella che ha costituito oggetto del processo [il richiamo al pensiero del Carnelutti e alcuni passaggi classificatori ed esemplificativi contenuti in questo scritto sono stati ispirati da Alessandra Sanna, “Effetti penali della sentenza a pena concordata: il peso insostenibile di una condanna senza giudizio di colpevolezza” in Cassazione penale, dicembre 2013, n. 12].
Non finisce qui però il compito dell’interprete, occorrendo ancora individuare in concreto le situazioni giuridicamente rilevanti che possiedono quei caratteri e producono quei risultati.
È un’operazione piuttosto complicata perché, come spesso accade nella scienza giuridica, soprattutto quando il legislatore lascia briglie sciolte, il dibattito registra varie opinioni e orientamenti.
a) Gli effetti penali in ambito penale ed extrapenale chiaramente esplicitati dal legislatore
Le cose sono abbastanza semplici, e non richiedono scelte interpretative rilevanti, nei casi in cui il rapporto di collegamento sia esplicitamente previsto dal legislatore.
Questo può avvenire anzitutto attraverso norme che subordinino la realizzazione di una fattispecie giuridicamente rilevante di tipo penale, civile, amministrativo, disciplinare e contabile all’accertamento giudiziale di un pregresso reato.
Rientra certamente in questo ambito la previsione dell’art. 185 CP secondo la quale “Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”, chiaramente speculare a quelle contenute negli artt. 651 e seguenti del CPP.
Lo stesso può dirsi, questa volta interamente all’interno del giudizio penale, in riferimento all’art. 238 bis CPP il quale consente l’acquisizione di sentenze irrevocabili emesse in altri procedimenti penali ed attribuisce ad esse valore di prova dei fatti ivi accertati, sia pure nel rispetto del criterio valutativo indicato nell’art. 192 comma 3 CPP.
È comune in questi casi un effetto preclusivo del potere discrezionale del giudice del procedimento ad quem, essendo questi tenuto ad uniformarsi all’accertamento già compiuto nel procedimento a quo.
È una regola logica e razionale, che protegge tre importanti interessi: la non contraddizione (la tenuta dell’ordinamento sarebbe messa in difficoltà se più pronunce giudiziali arrivassero a conclusioni differenti sullo stesso oggetto), l’economia dei mezzi processuali (è insensato ripetere in una sede giudiziale accertamenti già compiuti in altra sede) e la ragionevole durata dei processi (che sarebbe ingiustificatamente compromessa da inutili duplicazioni di accertamenti).
La situazione appena descritta può essere anche il frutto di norme regolatrici di fattispecie sostanziali.
Questo avviene quando una fattispecie di tal genere comprende tra i suoi elementi costitutivi un reato o, per meglio dire, la sentenza che lo ha accertato.
Sono sicure manifestazioni di questo fenomeno l’inapplicabilità del beneficio della sospensione condizionale della pena e la sua revoca, l’applicazione delle recidiva obbligatoria e la dichiarazione dello status di delinquente abituale o professionale, istituti tutti collegati ad una condanna penale.
Lo stesso si può dire per fattispecie incriminatrici come il possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli, applicabili solo in presenza di una pregressa sentenza di condanna.
b) Gli effetti penali risultanti dall’applicazione del criterio interpretativo offerto dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione
Fin qui l’argomentare è stato facile poiché si è giovato di un percorso guidato esplicitamente dallo stesso legislatore.
L’universo giuridico contiene tuttavia molteplici disposizioni normative non altrettanto esplicite che però sanciscono effetti dannosi a carico di taluni in diretta conseguenza di una sentenza penale di condanna.
Un primo caso è rappresentato dal complesso di previsioni che precludono, sul presupposto di una condanna penale, l’accesso a determinate posizioni lavorative, spesso collegate all’iscrizione ad un albo professionale.
Una rapida ricognizione dei vari ordinamenti professionali evidenzia la generale necessità del requisito dell’assenza di condanne penali, alcune volte sancito in modo autonomo, altre come componente imprescindibile di uno status di onorabilità.
L’albo dei promotori finanziari
Si pensi, ad esempio, all’ordinamento che regola l’accesso all’albo dei promotori finanziari.
I requisiti di onorabilità e professionalità necessari per l’iscrizione a tale albo sono fissati dal regolamento del Ministro dell’Economia n. 472 dell’11 novembre 1998. La potestà regolamentare è stata attribuita dall’art. 31 comma 5 del Decreto Legislativo n. 58/1998.
Il testo vigente esclude il requisito dell’onorabilità a fronte di condanne penali di un certo tipo ma lo ripristina in presenza della riabilitazione per tali condanne.
Questa disciplina implica necessariamente l’attribuzione della natura di effetto penale all’impossibilità di iscrizione derivante dalla condanna penale, poiché diversamente sarebbe privo di senso giuridico il riferimento all’effetto sanante della riabilitazione, la cui funzione è appunto di estinguere le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna.
Conclusione avallata dalla Comunicazione CONSOB n. DIN/51191 del 4 luglio 2000 in cui si afferma che “le preclusioni all’accesso all’Albo dei promotori finanziari disposte dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.m. 472/1998 devono essere qualificate tra gli effetti penali della sentenza di condanna”.
Data la struttura gerarchica delle fonti del diritto, né un regolamento ministeriale né la risoluzione di un’autorità amministrativa indipendente avrebbero potuto concepire questa classificazione se una fonte legislativa di rango superiore non glielo avesse consentito o imposto.
Questa fonte non può essere il Decreto Legislativo 58/1998 che si è limitato ad attribuire la competenza regolamentare al Ministero dell’Economia e neanche una qualsiasi norma del Codice penale, nessuna di esse contenendo una descrizione contenutistica cui appigliarsi.
Cos’è allora che permette o impone di considerare la preclusione all’accesso all’albo in conseguenza di una condanna un effetto penale estinguibile dalla riabilitazione?
Un formidabile aiuto viene dalla sentenza 211/1993 della Consulta. In un suo passaggio testuale, anche se di rimando all’ordinanza che ha sollevato la questione di illegittimità, si legge che “gli effetti penali della condanna devono discendere da una fattispecie normativa compresa fra le fonti del diritto penale, dovendo obbedire agli stessi principi che disciplinano la materia penale”.
I principi, appunto.
È adesso facile, coerentemente alla prospettiva tracciata nei precedenti paragrafi, individuare nel finalismo rieducativo della pena, sancito dall’art. 27 comma 3 Cost., il principio di maggior rilievo in materia.
La preclusione all’accesso a un albo impedisce l’esercizio di una facoltà giuridica ed è quindi una sanzione ed un effetto penale nel senso precisato dalla sentenza 32428/2016.
Non può quindi sfuggire al raggio applicativo del citato articolo costituzionale il quale impedisce di attribuire alla sanzione penale uno scopo diverso da quello rieducativo.
Sicché sarebbe giuridicamente insensato negare a un condannato riabilitato (quindi rieducato per definizione) la chance di esercitare una professione di cui possieda i requisiti e le competenze.
Fin qui la disciplina dei promotori finanziari, la cui chiarezza è ovviamente agevolata dal tenore letterale del pertinente complesso normativo.
Esistono però altri ordinamenti professionali più complicati.
La disciplina dell’ordinamento forense
Un esempio significativo può essere individuato nella Legge 247/2012 contenente la vigente disciplina dell’ordinamento professionale forense, il cui art. 17 comma 1 lettera f) preclude l’iscrizione all’albo degli avvocati a coloro che abbiano riportato condanna per uno dei reati ivi previsti.
La Legge 247 non contiene per contro alcuna norma che attribuisca alla riabilitazione e istituti analoghi l’idoneità ad estinguere la preclusione.
Può questo silenzio essere interpretato nel senso che lo sbarramento dell’art. 17 non sia un effetto penale?
La risposta a questa domanda passa preliminarmente attraverso l’esame di un altro “silenzio” legislativo, quello sul significato e sul contenuto della categoria degli effetti penali.
Tutte le volte che il legislatore menziona un istituto senza definirlo, sta per ciò stesso affidando agli interpreti il compito di dargli un contenuto significativo e conforme alla ratio legis. Ciò perché una disciplina di dettaglio è impossibile o inopportuna.
Si torna così, necessariamente, alla giurisprudenza citata nella parte iniziale di questo scritto, cui va riconosciuto il valore di statuto degli effetti penali.
Si deve allora convenire, applicandone i parametri al caso concreto, che l’effetto preclusivo trova la sua unica fonte nell’accertamento giudiziale definitivo, si produce automaticamente dal momento che nessuno spazio discrezionale è lasciato all’organismo competente, cioè il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati al quale l’istante presenta la sua domanda di ammissione, e ha una chiara natura sanzionatoria poiché implica la preclusione all’esercizio di una facoltà giuridica.
Un effetto penale della condanna, dunque, con tutto ciò che consegue in ordine alla sua estinguibilità e comunque all’operatività dei principi propri della materia penale.
È scontato che questa soluzione si attagli non solo all’ordinamento professionale degli avvocati ma a qualunque altro ordinamento del genere che contempli situazioni giuridiche dotate delle medesima caratteristiche.
Prima di abbandonare l’argomento, è giusto menzionare un consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità che nega alla riabilitazione (o provvedimenti di analoga natura) l’idoneità a ripristinare automaticamente l’ulteriore requisito della condotta irreprensibile, anch’esso richiesto dall’art. 17 della Legge 247.
È una visione senz’altro condivisibile che non entra affatto in conflitto con le argomentazioni utilizzate in precedenza.
Un conto è infatti attribuire alla preclusione derivante da condanne la natura di effetto penale, altro conto è affermare che l’organismo competente in materia di albo degli avvocati conservi un suo potere valutativo sul significato che la condotta accertata in sede penale assume riguardo all’affidabilità professionale di chi, pur rieducato, si affacci ad una professione che richiede requisiti morali di alto profilo.
La legge Severino
Un’ulteriore questione degna di nota attiene agli istituti di incandidabilità e decadenza creati dal Decreto legislativo 235/2012, meglio noto come Legge Severino dal nome del Guardasigilli pro – tempore [si rinvia, per un approfondimento sistematico dell’argomento, a Vincenzo Nico D’Ascola, “Alla ricerca di un diritto che non c’è. La presunta retroattività della “Legge Severino” tra derive sistematiche e suggestioni moralistiche”, Archivio penale, 2014, n. 1].
Il provvedimento vieta di candidarsi e di continuare a detenere la carica di parlamentare a coloro che hanno riportato condanne definitive per i reati indicati nel suo art. 1.
Demanda inoltre alla Camera di appartenenza, quando una causa di incandidabilità si manifesti durante il mandato elettivo, una deliberazione ai sensi dell’art. 66 Cost.
È da sottolineare, come dettaglio rilevante, che il Decreto 235 non contiene alcuna norma transitoria sicchè è interamente lasciato agli interpreti il compito di stabilire se le sue disposizioni siano applicabili a situazioni maturate prima della sua entrata in vigore.
Diventa di conseguenza imprescindibile la qualificazione giuridica delle misure ivi previste.
L’applicazione retroattiva di queste è infatti possibile solo se si esclude la loro natura di istituti appartenenti al diritto penale sostanziale e muniti di valenza sanzionatoria e gli si assegna per contro la funzione di semplice presa d’atto della perdita di un requisito di eleggibilità.
Non pare dubbio che la scelta debba propendere per la prima opzione se solo si considera che le misure in esame presentano caratteristiche di piena congruenza ai criteri messi a fuoco dalla nostra giurisprudenza di legittimità e a quelli adottati dalla Corte di Strasburgo.
Esse derivano infatti, strettamente, da una condanna penale definitiva, non lasciano alcun significativo spazio di discrezionalità alla Camera chiamata ad applicarle, comportano un’incapacità giuridica rilevante (anche per la durata che non può essere inferiore a sei anni ed è aumentata se il reato per cui c’è stata condanna è caratterizzato in certi modi) che attiene per di più al diritto costituzionale di elettorato passivo e che penalizza, sia pure indirettamente, il diritto di elettorato attivo di coloro che hanno votato il candidato destinatario della sanzione.
A ciò si aggiunga che l’art. 15 comma 3 della Legge Severino attribuisce alla riabilitazione la capacità di estinguere l’incandidabilità, con ciò riconoscendone la natura di effetto penale.
Chiaro allora che l’incandidabilità non può essere applicata retroattivamente, a pena di violare il divieto di irretroattività sfavorevole sancito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Eppure, il 27 novembre 2013 un parlamentare, sulla base di una condanna precedente all’entrata in vigore del Decreto legislativo 235, è stato dichiarato decaduto dalla sua Camera di appartenenza.
L’interessato ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo e nel luglio del 2016 si è appreso che questa ne ha avviato l’esame (il che implica una valutazione positiva sulla ricevibilità) ed ha inviato il Governo italiano a controdedurre.
Se si considerasse la questione esclusivamente dal punto di vista statistico, si constaterebbe che il 90% circa dei ricorsi presentati a Strasburgo non superano il primo filtro ma, quando ci riescono, sono accolti in una percentuale che supera l’80%.
Non sarebbe azzardato perciò immaginare che a questo punto il ricorso di quel senatore ha ottime chance di successo. E se così fosse, si sarebbe persa un’altra occasione per evitare figuracce di fronte ai nostri partner europei.
Ciò che più conta, come osserva D’Ascola nello scritto citato in precedenza, “La vicenda della quale ci siamo occupati di tutto ciò costituisce una preoccupante dimostrazione. Nessuno – almeno a parole – nega il principio di irretroattività sfavorevole. D’altronde un’affermazione così grossolanamente falsa sarebbe risultata improponibile. Piuttosto si preferisce eluderlo, negandone l’efficacia negli spazi immensi destinati ai giudizi morali. Oggi non importa se ciò avviene al prezzo di sacrificare i principi generali sui quali si è retta – per lo meno sin qui – la nostra civiltà del diritto. Si fa finta di nulla. Tutto ciò lascia intravedere un futuro molto ricco di efficacia punitiva, ma poverissimo sul piano delle garanzie”.
Risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni
Un altro caso di particolare interesse, anch’esso emblematico della proliferazione delle conseguenze della condanna penale in ambito extrapenale, è costituito dall’istituto del risarcimento del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni.
La sua attuale disciplina, configurata nell’ambito della responsabilità per danno erariale, è contenuta nell’art. 1 comma 1° sexies della L. 20/1994 (come riformato dall’art. 1 comma 62 della Legge 190/2012) il quale stabilisce che “nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertata con sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra attività illecitamente percepita dal dipendente”.
Si introduce in tal modo il cosiddetto criterio del duplo, fondato sulla presunzione, apparentemente iuris tantum ma quasi impossibile da contrastare alla luce dei più diffusi criteri di determinazione del danno, che la condotta del dipendente condannato per un reato contro la p.a. abbia prodotto un danno di entità doppia rispetto al valore economico dell’utilità illecitamente perseguita.
Sentiamo cosa dicono al riguardo le Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei Conti nella sentenza 8/2015. Occorre, a loro avviso, “cogliere alcuni tratti della responsabilità per danno pubblico che, pur rimanendo di chiara impronta civilistica, partecipa di alcuni caratteri tipici della responsabilità penale che è dominata da principi anche di matrice costituzionale. Ci si riferisce al principio di legalità ed ai suoi corollari: il primo, che trova la sua massima espressione nell’art. 25 Cost. e nell’art. 7 della Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; i secondi (corollari), che ai fini che ne occupano hanno una certa rilevanza ed attengono ai principi di tassatività, determinatezza (o cosiddetta “precisione”) e al divieto di analogia … Si vuole solo ricordare la natura anche personale e sanzionatoria – e quindi afflittiva – della responsabilità amministrativa, e che la fattispecie di danno all’immagine della P.A. qui in rassegna è posta in stretta correlazione con l’accertamento di reati accertati con sentenza irrevocabile, con ciò anche derogandosi al generale principio di separatezza tra giudizio penale e giudizio contabile.
Parole ancora una volta inequivocabili che consegnano l’istituto in esame all’area degli effetti penali della sentenza di condanna.
La confisca per equivalente
Si chiude questo sottoparagrafo con l’istituto della confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter comma 2 CP, a norma del quale “… è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto”.
La sentenza 31671/2015 delle Sezioni uniti penali della Cassazione è chiarissima al riguardo: “questa particolare figura di confisca, prevista dall’art. 322 ter c.p., per il profitto o il prezzo di taluni reati contro la pubblica amministrazione, viene ormai pacificamente ritenuta dalla giurisprudenza di questa Corte di natura sanzionatoria. Si è infatti osservato, al riguardo, che, avendo la L. n. 300 del 2000, introduttiva dell’art. 322 ter c.p., espressamente previsto, all’art. 15, la irretroattività della confisca per equivalente del prezzo del reato, una simile opzione si appalesa sintomatica del fatto che il legislatore ha configurato l’ablazione del patrimonio del reo, in proporzione corrispondente all’arricchimento provocato dall’illecito quale misura sostanzialmente sanzionatoria. La confisca per equivalente, infatti, viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. E’ evidente, infatti, che, essendo la confisca di valore parametrata al profitto od al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista ‘quantitativo’, l’oggetto della ablazione finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale, in sè, non presenta alcun elemento di collegamento col reato; il che consente di declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria”.
Lo stesso vale naturalmente per la confisca per equivalente in ambito penale - tributario, introdotta dall’art. 1 comma 143 della Legge 244/2007 il quale ha esteso l’art. 322 ter CP ad alcune delle ipotesi di reato previste dal Decreto legislativo 74/2000.
La natura sanzionatoria anche di questa particolare tipologia di confisca (e quindi la sua irretroattività) è stata riconosciuta dalla Suprema Corte con la sentenza 18308/2014.
Ancora un effetto penale, dunque.
La casistica di questi anni consegna all’interprete casi ben più numerosi di quelli qui analizzati. Varrebbe senz’altro la pena esaminarli singolarmente ma questo scritto si accontenta di una riflessione generale nella quale le situazioni specifiche entrano solo perché utili per scopi argomentativi e esemplificativi.
Del resto, gli istituti presi in considerazione danno già sufficientemente l’idea di quanto magmatico e azzardato sia diventato l’apparato sanzionatorio varato dal legislatore e di quanto spesso le sue fondamenta siano fragili.
c) Le pene accessorie
La regolamentazione generale delle pene accessorie è contenuta negli artt. 19 e 20 del Codice penale.
Il primo le elenca e le differenzia secondo che si applichino ai delitti o alle contravvenzioni.
Il secondo ha cura di precisare che esse conseguono di diritto alla condanna in quanto effetti penali della stessa.
Il loro scopo, come suggerisce l’aggettivazione legislativa, è di completare il trattamento sanzionatorio del reo nei casi in cui risulterebbe inadeguato se affidato alla sola pena principale.
Sembrerebbe a prima vista che queste misure, proprio perché oggetto di una specifica elencazione nella parte generale del Codice penale, costituiscano un numero chiuso.
In realtà non è così.
Già lo stesso Codice menziona in più occasioni pene accessorie diverse da quelle contemplate dall’art. 19 (art. 544 sexies, 600 septies – 2, 603 ter e 609 nonies).
Ad esse si aggiungono quelle ulteriori previste dalle leggi speciali in tema di alimenti e bevande, fallimento, stupefacenti, truffe sportive e scommesse clandestine, reati finalizzati alla discriminazione e all’odio razziale o religioso ed ancora dal Codice della navigazione e dalle leggi sulla pesca marittima e sull’inquinamento ed altre ancora.
Fatta questa ricognizione preliminare, è opportuno evidenziare che, in virtù dell’espressa indicazione legislativa contenuta nel citato art. 20, le pene accessorie sono effetti penali delle sentenze di condanna, ponendosi rispetto a questi in rapporto di specie a genere.
Non sono mancati per la verità orientamenti che dubitano di quest’appartenenza ma il criterio letterale non lascia spazio a interpretazioni creative.
La questione vera è un’altra: esistono situazioni giuridiche che, pur non essendo classificate esplicitamente come pene accessorie, potrebbero comunque essere assimilate a queste, almeno secondo taluni orientamenti interpretativi.
Si analizzeranno adesso due casi interessanti e simbolici.
Spese processuali
Il primo è quello delle spese processuali.
Afferma l’art. 535 CPP che “La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali”.
Qual è il fondamento di questo obbligo, quale lo scopo che il legislatore si prefigge per suo tramite?
Un’ottima risposta è stata data dalla sentenza 98/1998 della Consulta.
La questione riguardava l’illegittimità dell’art. 188 comma 2 CP il quale, pur affermando l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligo del condannato di rimborsare le spese di mantenimento carcerario, non conteneva un’analoga disposizione per il rimborso delle spese processuali.
Con una sentenza additiva, la Corte costituzionale dichiarò fondata la questione, affermando l’illegittimità della disposizione per contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 27 comma 2 Cost.
Ritenne decisivo a tal fine l’art. 56 dell’Ordinamento penitenziario il quale ha ammesso la rimessione del debito per le spese processuali e di mantenimento carcerario a favore dei condannati e internati che si trovino in disagiate condizioni economiche e abbiano tenuto una condotta regolare.
L’introduzione di tale istituto, soprattutto alla luce dei suoi presupposti soggettivi e oggettivi, indusse la Consulta a ritenere che il rimborso delle spese processuali avesse mutato la sua natura giuridica: “non più obbligazione civile retta dai comuni principî della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare denota … il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull’adempimento dell’obbligo economico … Non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era già riconosciuta proprio dall’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a seguito della entrata in vigore dell’articolo 56 dell’ordinamento penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine qualificatoria”.
In un altro passaggio motivazionale, la sentenza evidenzia “le nuove potenzialità dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue già disagiate condizioni”.
Una decisione chiara, ben argomentata e proveniente dal giudice delle leggi. Poteva e doveva costituire un approdo definitivo, almeno secondo il comune mortale.
Non è stato così. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, pronunciatasi sul medesimo argomento con la sentenza 28081/2013, ha ritenuto che “la modificazione in quei termini della natura del debito di rimborso delle spese processuali, rilevata dalla Corte Costituzionale … non comporta necessariamente che l’obbligazione di pagamento delle spese processuali abbia preso, in tutto e per tutto, le caratteristiche di una vera e propria pena accessoria … ciò viene confermato dalla circostanza che la pronuncia della Corte Costituzionale ha ricalibrato il regime dell’obbligo al rimborso delle spese processuali su quello del rimborso delle spese di mantenimento in carcere, con l’intervento sul secondo comma dell’articolo 188 c.p., ed estensione al debito di pagamento delle spese processuali della relativa disciplina di personalizzazione dell’obbligo, che peraltro il primo comma del medesimo articolo sottopone inequivocabilmente alla disciplina delle leggi civili”.
È chiaro, e non lo si vuole certo negare, che l’interpretazione giuridica è libera.
Ma dovrebbero far parte del suo standard minimo la correttezza e la precisione dei riferimenti.
La lettura della sentenza 98/1998 fa comprendere che la Consulta ha escluso con la massima chiarezza la natura di obbligazione civile del debito per le spese processuali e quelle di mantenimento. La pronuncia della Cassazione, dimentica di questa esclusione, risulta quindi fondata su un presupposto oggettivamente errato.
Se ne prende atto e proprio per questo si ritiene di ribadire che le spese processuali, al pari di quelle per il mantenimento carcerario, non sono un’obbligazione civile ma una sanzione accessoria alla pena sicché rientrano a buon diritto nel genus degli effetti penali della sentenza di condanna.
Il secondo e ultimo caso è quello dell’ordine di demolizione delle opere abusivamente edificate e della loro confisca (rispettivamente previsti dagli artt. 31 comma 9 e 44 comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 380/2001).
Piuttosto di recente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9949/2016, ha affermato che “Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale … Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall’incidenza della misura sul bene. In tal senso, non sembra ricorrere neppure l’ulteriore ‘indice diagnostico’ della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell’assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante”.
Basta un’occhiata alla giurisprudenza di merito per rendersi conto che non tutti la pensano così. Ad esempio, secondo il Tribunale di Asti, sentenza del 3 novembre 2014, [commentata da Giulia Bucchi Siena, “Strasburgo chiama, Asti risponde: l’ordine di demolizione è una pena e si prescrive”, Archivio penale, 2015, n.1],l’ordine di demolizione è una pena ad ogni effetto ed è quindi soggetta a prescrizione.
Quanto infine alla confisca e ai diversi modi di intenderne la natura, sia consentito il rinvio a V. Giglio [“L’insostenibile lontananza di Strasburgo”, 11 luglio 2016, in questa rivista].
5. Considerazioni finali
Un’espressione generica – effetti penali – trascurata dal legislatore, che non si è neanche preoccupato di definirla, e dagli interpreti, che vi accostano in genere con una certa noncuranza.
Eppure quelle due parole e il contenitore cui rimandano hanno un peso di non poco conto. Nelle vite dei condannati, anzitutto. Nella civiltà giuridica del nostro Paese, subito dopo. Tutto dipende, come si è tentato di dimostrare, dall’uso che se ne fa: torture permanenti di una “società punitiva” o piccoli laboratori da usare al servizio del fine rieducativo delle pena; gabbie entro cui spegnere ogni speranza di reinserimento del reo o strumenti flessibili per assecondarlo.
E si può dire che è tutto.
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Friday, November 27, 2020
Discrezionalità del Giudice
Cass. pen. n. 2350/1990
La determinazione della misura della pena è compito esclusivamente affidato alla prudente valutazione del giudice di merito. Trattandosi di una potestà interamente affidata alla discrezionalità, il controllo sulla corretta applicazione della legge può essere esercitato esclusivamente sulla motivazione che sorregge la decisione. Poiché è peraltro inesigibile, di fronte ad una gamma di discrezionalità tanto vasta quale quella affidata al giudice di merito dal combinato disposto degli artt. 132, 133 ed 81 del c.p., una motivazione che spieghi le ragioni delle differenze tra l'entità della pena concretamente prescelta ed un'altra di poco inferiore (o eventualmente superiore) l'obbligo della motivazione deve intendersi adempiuto tutte le volte che la scelta del giudice di merito venga a cadere su una pena che per la sua entità globale, non appare, sul piano della logica, manifestamente sproporzionata rispetto al fatto oggetto di sanzione. Quando poi il giudice di merito si discosti dai minimi edittali, e determini la pena entro i limiti segnati dall'art. 81 c.p. la discrezionalità diventa di tale ampiezza da assorbire anche le potestà di riduzione che la legge affida al giudice ai sensi dell'art. 62 bis c.p. In tali casi, poiché la «diminuzione della pena» può essere ottenuta per altre vie e con la utilizzazione di altri e diversi strumenti giuridici, non rimane spazio per l'applicazione delle attenuanti generiche, posto che queste ultime sono strumentali alla realizzazione di diminuzioni di pena non ottenibili con l'uso di poteri discrezionali previsti dagli artt. 132 e 133 c.p.
(Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 2350 del 19 febbraio 1990)
IL CTU
Ctu: la perizia errata comporta anche la responsabilita’ penale
Una perizia errata non e' esente da addebiti derivanti da una specifica responsabilita' penale del ctu. Si parla di reclusione e interdizione dai pubblici uffici
Ctu: la perizia errata comporta anche la responsabilita’ penale
Continua la panoramica sulla responsabilità professionale del CTU. La responsabilità del Consulente Tecnico è delineata, in prima battuta dalle norme di diritto civile, tuttavia ciò non esclude una tutela anche in sede penale, grazie al richiamo, contenuto all’interno dell’art. 64 c.p.c, alle norme penalistiche.
Poiché il CTU assume la funzione di Pubblico Ufficiale ai sensi dell’art. 357 c.p., in qualità di ausiliario del Giudice, può incorrere in una serie di reati direttamente collegati a tale ruolo: si pensi al peculato, alla corruzione, alla concussione e all’abuso di ufficio, nonché alla fattispecie specificatamente riferita alla figura dell’esperto dell’autorità prevista dall’art. 366 c.p.
Tale ultima norma, infatti, punisce con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa da 30 euro fino a 516 euro il CT, nominato dal Giudice, che ottenga con mezzi fraudolenti l’esenzione dall’obbligo di comparire o prestare il suo ufficio o il perito che rifiuti di dare le proprie generalità, di prestare il giuramento richiesto o di assumere o di adempiere le proprie funzioni.
Ancora, ai sensi dell’art. 314 del codice penale, il Consulente che si trovi in possesso di danaro o di altra cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione, qualora se ne appropri o ne disponga per uso proprio o altrui, è punibile con la reclusione da 3 a 10 anni e con l’interdizione dai pubblici uffici. Nei casi in cui la reclusione sia prevista per un tempo inferiore ai 3 anni, la condanna comporta l’interdizione temporanea.
L’art. 373 c.p., riguardo falsa perizia o interpretazione, stabilisce invece la pena della reclusione da 2 a 6 anni per il perito che, nominato dall’autorità giudiziaria, dà pareri o interpretazioni mendaci o afferma fatti non conformi al vero.
Il verbale redatto dal Consulente in qualità di Pubblico Ufficiale costituisce atto pubblico, anche riguardo ai fatti che il CTU asserisca essersi verificati in sua presenza, per cui nei suoi confronti si può procedere con querela di falso; tale istituto non è invece ammissibile per il contenuto della consulenza tecnica, la quale non fa pubblica fede delle affermazioni o contestazioni o giudizi in essa contenuti.
L’art. 374 c.p., riguardo la frode processuale, punisce con la reclusione da 6 mesi a 3 anni il perito che, nell’esecuzione di una perizia, modifichi artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone su cui si deve svolgere la consulenza.
Al Consulente Tecnico si applicano le disposizioni del codice penale riguardanti i periti, ma va ricordato che nel codice di procedura penale non vi è alcuna disposizione analoga al citato art. 64 c.p.c.
Pertanto, la parte che abbia subito un concreto pregiudizio in conseguenza dell’operato dell’esperto in un processo penale, può far valere il diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., innanzi al Giudice competente per valore e territorio.
Riguardo alla quantificazione del danno, normalmente esso comprende tutte le spese sostenute per l’adozione di provvedimenti ritenuti necessari in conseguenza di un errata consulenza, nonché le spese affrontate per dimostrare l’erroneità della consulenza d’ufficio.
In relazione agli artt. 373 e 374 c.p., sono previste anche delle aggravanti oggettive (art. 375 c.p.):
· la pena della reclusione da 3 a 8 anni se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non superiore a 5 anni;
· la pena della reclusione da 4 a 12 anni se dal fatto deriva una condanna superiore a 5 anni;
· la pena con reclusione da 6 a 20 anni se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo.
L’art. 376 c.p., prevede poi la non punibilità per il colpevole che ritratti il falso e manifesti il vero non oltre la chiusura del dibattimento.
Va sottolineato come al perito si possono applicare, pur in assenza di uno specifico richiamo, le norme incriminatrici relative al delitto di patrocinio o consulenza infedele (art. 380 c.p.), nonché quelle relative alle altre infedeltà del patrocinatore o Consulente Tecnico (art. 381 c.p.), le quali comunque presuppongono, quale elemento costitutivo del reato, la sussistenza di un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria.
Un’analisi particolare meritano i vari casi di colpa grave da parte del CTU nell’esecuzione del mandato ricevuto. Questi sono regolati dall’art. 64 c.p.c., e si verificano quando:
· il CTU smarrisce documenti originali e non più riproducibili dal contenuto dei fascicoli di parte;
· il CTU perde o distrugge la cosa controversa o documenti affidatogli;
· il CTU omette di eseguire accertamenti irripetibili;
· il CTU non avvisa le parti sulla data d’inizio delle operazioni peritali provocando l’annullamento della consulenza su istanza di parte;
· il CTU redige una consulenza non idonea o incompleta con conseguente innovazione della stessa;
· il CTU assume l’incarico conferitogli dal Giudice pur non avendo un’adeguata e specifica conoscenza tecnica nel settore oggetto della consulenza richiesta e redige pertanto un elaborato viziato da errori.
Il citato art. 64, comma 2, c.p.c., punisce il Consulente che commette tali fattispecie di reato con l’arresto fino ad 1 anno oppure con l’ammenda fino a 10.329 euro, oltre alla pena accessoria della sospensione dall’esercizio della professione da 15 giorni a 2 anni (art. 35 c.p.).
Nell’ipotesi di colpa grave, come già detto, è dovuto anche il risarcimento dei danni indipendentemente dal fatto che sia applicata la pena pecuniaria.
Infine, ai sensi dell’art. 377 c.p., chiunque prometta denaro o altra utilità a un Consulente per indurlo a una falsa perizia, è punibile, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata o sia accettata ma la falsità non sia commessa, con la pena di cui all’art. 373 c.p. (da 2 a 6 anni di reclusione) ridotta dalla metà ai due terzi e con l’interdizione dai pubblici uffici.
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Libera professionista esperta nel settore delle consulenze tecniche e delle valutazioni immobiliari, Pollastrini svolge attività per la pubblica giurisdizione, in ambito stragiudiziale e per gli istituti di credito.
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Progetta e coordina corsi e seminari di studio ad elevata specializzazione tecnico-professionale per enti di formazione, associazioni e ordini professionali. Esperta nella gestione di finanziamenti per la formazione, erogati dal Fondo Sociale Europeo, con competenze certificate dalla Regione Marche secondo la Dgr 1071/05. E’autrice di pubblicazioni per riviste tecniche di settore.
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Tuesday, November 24, 2020
Parziale illegittimità Costituzionale
ART. 131 BIS C.P., PARZIALE ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE: BREVI RIFLESSIONI SUL RUOLO DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE
Sommario: 1. Premesse – 2. Gli effetti sui giudicati di condanna, ruolo del giudice dell’esecuzione ed una trasversale necessità di limiti – 3. La comprensibile mitezza della Corte e i limitati poteri del giudice dell’esecuzione
1. Premesse
La sentenza n. 156 Corte Cost., del 21 luglio 2020, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 131 bis c.p. recante la disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di reato. Brevemente, la vicenda prende spunto dalla censura della norma nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto al reato di ricettazione attenuata da particolare tenuità previsto dall’art. 648, secondo comma, c.p. . Come è noto, l’applicazione della disciplina dell’art. 131 bis suddetto, è subordinata alla previsione di un massimo edittale contenuto nella soglia di anni 5 di reclusione, tuttavia la norma non prevede un limite minimo di applicabilità.
Così, spesso gli interpreti hanno dovuto confrontarsi con le aporie derivanti dalla impossibilità di applicare la particolare tenuità a fatti decisamente poco offensivi e puniti in maniera lieve dal legislatore, proprio perché il reato superava il massimo edittale previsto come limite, ma d’altra parte era caratterizzato da un minimo esiguo. Si tratta di quei casi, non rari, che sono stati definiti dal “compasso largo” tra la pena minima e massima, cioè caratterizzati da una sproporzionata distanza tra limiti estremi della cornice edittale. Già la Corte Costituzionale si era interessata del tema nel 2017 con la sentenza n. 207, rilevando l’anomalia della comminatoria per la ricettazione di particolare tenuità, reato che interessa lo stesso giudizio de quo, in ragione dell’inconsueta ampiezza dell’intervallo tra minimo e massimo di pena detentiva (da quindici giorni a sei anni di reclusione), della larga sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata (da due anni a otto anni), nonché dell’asimmetria scalare tra gli estremi del compasso, giacché mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme. Allo stesso modo, la suddetta pronuncia ha evidenziato che “se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione”, cioè una pena che, “secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività”: per ovviare all’incongruenza “oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità”[1].
“Per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui”, pur rigettando la questione, la medesima corte nel 2017 aveva invitato il legislatore ad occuparsi di una riforma del testo dell’art. 131 bis che tenesse conto anche del minimo edittale. Viceversa, il legislatore si è dimostrato sordo agli inviti della Corte Costituzionale la quale non ha potuto fare a meno, riscontrato il vizio di irragionevolezza della scelta legislativa e superando legittimamente i limiti del sindacato sulle scelte politico – legislative, di dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 131 bis c.p. . E lo ha fatto sottolineando che se il legislatore non ha previsto espressamente un limite minimo per la ricettazione attenuata e pertanto si applica il limite minimo di 15 giorni di reclusione, è evidente che nella scelta politico-criminale ha valutato tale illecito come dotato di una modesta entità offensiva. Pertanto risulta incongruo, illogico e irrazionale che ad una condotta che sia stata già identificata portatrice di una ridottissima capacità lesiva del bene giuridico tutelato, non possa applicarsi l’esimente in questione. Ebbene la Corte giunge, quindi, alla declaratoria di incostituzionalità della norma del 131 bis c.p., si badi bene, nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’esimente ai casi in cui non sia previsto un minimo edittale, e quindi esso si identifichi per legge nella misura di giorni 15 di reclusione.
La sottolineatura è necessaria perché la Corte non ha sindacato e sanzionato la norma nella parte in cui non prevede un limite minimo, ritenendo incongrua la sua assenza, né, pare doversi ritenere, avrebbe potuto farlo in quanto, come già affermato solennemente nella sentenza di rigetto della questione del 2017, la individuazione delle soglie minime e massime di pena cui è subordinata l’operatività dell’esimente è certamente materia di competenza esclusiva del potere legislativo e sottratta ad un sindacato di legittimità costituzionale. Solo la manifesta irragionevolezza del quantum di pena può condurre ad un intervento del giudice delle leggi, caso che tuttavia non è riscontrato nelle sentenze di cui ci si occupa. Pertanto, restando ancorata alla vicenda del caso concreto, stabilisce l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede la possibilità di applicazione della stessa ai soli casi in cui non sia previsto un minimo edittale. La valutazione di irragionevolezza investe pertanto i soli casi limite del minimo edittale…minimo.
La Corte interviene quindi sui casi al confine, quelli di eclatante ridotta offensività che tuttavia non vengono sottoposti all’applicazione potenziale del 131 bis c.p. perché relativi a reati aventi un minimo edittale che supera comunque i 5 anni di reclusione.
Ad ogni modo, le critiche che erano state rivolte alle teorie che ritenevano e ritengono incongrua l’assenza di un limite minimo, erano basate sulla considerazione che l’istituto della suddetta causa di non punibilità è volto ad accertare un fatto sì offensivo ma non bisognoso di pena, sulla base degli indici e dei requisiti che lo stesso art. 131 bis c.p. prevede. Pertanto, deve ritenersi destinato a garantire un particolare vantaggio nei confronti dei soggetti resisi autori di reati che prevedono una pena comunque vicina al massimo di anni 5 di reclusione, sottraendoli ad una pena detentiva comunque gravosa in virtù di requisiti che dimostrino l’assenza di un effettivo bisogno di pena. Il reato viene considerato, in questi casi, un mero incidente di percorso sulla strada dell’attore, che non necessita di attività di risocializzazione o della concretizzazione di finalità generalpreventive o specialpreventive. D’altra parte, nel caso di pene di modesta o modestissima entità, la necessità dell’istituto perde quasi valore. Lì dove la pena minima sia di giorni 15, infatti, tra l’esecuzione della pena e l’applicazione della causa di non punibilità non vi è una differenza così netta e determinante come sarebbe quella tra lo scontare anni di reclusione a fronte della assenza di ogni punizione.
Altri hanno, al contrario, ritenuto che proprio lì dove il trattamento sanzionatorio sia minimo, ed in questo senso si esprime la sentenza qui in commento, sia più necessario evitare al reo l’ingresso nel contesto carcerario, seppur per un breve periodo.
Ma tant’è e, allo stato, non può che prendersi atto che il 131 bis c.p. si applicherà anche ai reati che superino la soglia dei 5 anni di reclusione nel massimo ma che, in virtù dell’ampio compasso di cui più sopra, abbiano un minimo sanzionatorio indeterminato ed innominato e pertanto siano investite dalla previsione legale del minimo di 15 giorni di reclusione previsto per i delitti.
2. Gli effetti sui giudicati di condanna, ruolo del giudice dell’esecuzione ed una trasversale necessità di limiti
Immediatamente dopo il deposito del dispositivo della sentenza si è posto il problema della sorte dei giudicati già intervenuti e basati sulla norma ormai incostituzionale.
Per addivenire ad una disamina consapevole e precisa del tema è necessario procedere ad una serie di annotazioni preliminari che involgono tematiche non solo complesse ma oggetto di costante dibattito ed evoluzione.
Il primo principio cardine in materia è certamente da individuare nella intangibilità dei rapporti giuridici già esauriti e quindi, nella specie, nella incontrovertibilità delle pene ormai definitivamente scontate al momento in cui perviene la dichiarazione di incostituzionalità. In tali casi, è ovvio, l’esigenza di evitare la inflizione di una condanna, per così dire, incostituzionale viene meno. Viceversa, ove sia maturato il giudicato e la pena sia ancora in esecuzione, il procedimento deve considerarsi ancora sub iudice e perciò l’autorità giudiziaria dell’esecuzione è abilitata ad intervenire per rimuovere le conseguenze comminatorie di condanna derivanti da una norma incostituzionale, oppure ad adottare il trattamento sanzionatorio più mite adatto al caso di specie[2]. Come vedremo, tuttavia, a seconda di come si intenda questo assunto, i risvolti in termini di ampiezza del sindacato del giudice dell’esecuzione mutano con effetti sostanziali soprattutto nel diverso campo delle pronunce in contrasto con le sentenze Cedu.
Per il momento, ci si può limitare ad aggiungere che è evidente che tale intervento possa avere un senso soltanto ove le conseguenze dell’incostituzionalità siano in bonam partem e, in via di principio, che ulteriore limite è che quello di esecuzione non si trasformi in un aggiuntivo e non previsto grado di giudizio. Quanto agli effetti in bonam partem, essi devono ritenersi certamente gli unici utili alla tutela dei principi di legalità che ispirano anche la L. 87 del 1953 la quale disciplina la costituzione ed il funzionamento della Corte Costituzionale. Ebbene, dalla disciplina di questa norma emerge la tensione tra la natura ricognitiva della dichiarazione di incostituzionalità, che era esistente dal momento della emanazione della norma o a partire dall’intervenuto conflitto con altre fonti sovraordinate, con il principio dell’affidamento del singolo sulla norma che ha ritenuto valida nel momento in cui si è prefigurato le conseguenze della sua condotta. La norma incostituzionale è considerata come mai esistita nell’ordinamento, eppure produce degli affidamenti legittimi di cui bisogna tener conto.
Ciò brevemente detto, la giurisprudenza ha ampiamente arato il campo dei poteri del giudice dell’esecuzione senza mai poter pervenire, in assenza di una disciplina legislativa puntuale, ad una precisa individuazione dei limiti che tale organo incontra. Nella specie, infatti, l’art. 673 c.p.p. si interessa del caso, probabilmente più semplice, in cui a venir dichiarata incostituzionale sia la norma incriminatrice. Non si ritiene applicabile lo stesso articolo al caso in cui a subire la pronuncia di incostituzionalità sia una norma che ne regola le conseguenze in termini di punibilità. Si è ritenuto strumento utile a tali fini, l’art. 670 c.p.p.[3] che fa riferimento al titolo esecutivo mancante, tale potendo essere considerata anche la sentenza che prende le mosse da una norma dichiarata inesistente nell’ordinamento ab origine a causa della sua incostituzionalità. Ciò in combinato disposto con l’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953 il quale fa riferimento alla “norma”, dichiarata incostituzionale, in applicazione della quale una condanna penale è stata pronunciata. Il generico riferimento deve ritenersi rivolto non solo alle norme incriminatrici, ma anche a quelle incidenti sul trattamento sanzionatorio, da cui consegue che pure la dichiarazione di illegittimità di queste ultime possa riverberarsi post-iudicatum, determinando la cessazione dell’esecuzione della quota di pena inflitta in applicazione della norma illegittima.[4] L’approccio che spesso risulta all’origine della fallacia in materia e che ha sovente determinato un ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione, giungendo all’obiettivo meritorio attraverso una strada probabilmente non percorribile, trova la sua fonte nella concezione che l’attività del giudice dell’incidente di esecuzione debba confrontarsi direttamente con la regola della legge sanzionatoria e debba subire le sue vicende, consentendo una nuova applicazione o disapplicazione del suo dettato inciso dalla pronuncia di illegittimità costituzionale. Questo orientamento, sostenuto eminentemente dalla Suprema Corte, trova compiuta origine nell’assunto che tale attività di rimaneggiamento del giudicato sia espressione di un principio che attiene alla fisiologia del ruolo del giudice finché la questione rimanga sub iudice[5]. Piuttosto, sembra più corretto evidenziare che in materia interviene il fondamentale principio della intangibilità del giudicato e che tale possibilità di incisione del decisum con valore di giudicato risulti essere una circoscritta eccezione a detto principio, proprio in virtù della forza dirompente che deriva dal giudicato costituzionale e dei valori fondamentali che esso tutela. Il giudice dell’esecuzione deve confrontarsi con la regola del caso concreto, con la sentenza emanata, ed emendare quella soltanto. E’ il comando del caso specifico che si sostanzia nel giudicato, quindi nella concreta applicazione della norma incostituzionale, a dover subire l’intervento del giudice dell’esecuzione che deve quindi prendere atto del venir meno delle porzioni di sentenza che si basano sulla norma incostituzionale. Tanto tale processo non appartiene alla fisiologia dell’attività giudiziaria bensì al rimedio del patologico, che è solo e soltanto in virtù della speciale previsione dell’art. 30, comma 4 della summenzionata norma, che il giudicato può subire un intervento, sia esso totalmente caducatorio o modificativo, che deve ritenersi eccezionale. Come ha brillantemente evidenziato un autore[6], la distinzione ed il trapasso dalla norma alla regola applicata in sentenza è ben evidenziato dai tempi verbali utilizzati nell’articolo citato della norma del 1953. Infatti, essa specifica che quando è stata pronunciata sentenza di condanna in applicazione della norma dichiarata illegittima ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali: si opera una piana distinzione tra il momento passato dell’applicazione della norma e quello presente in cui il giudice dell’esecuzione non può fare altro che riscontrare la caducazione degli effetti penali. E non potrebbe farlo, si ritiene, ove mancasse la disposizione dell’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953.
Precisare ciò è di basilare importanza non solo per i riflessi che tale tesi potrebbe produrre sulla ampiezza dei poteri del giudice dell’esecuzione[7], ma soprattutto nello scongiurare il disinvolto e fisiologico utilizzo dell’incidente di esecuzione per reagire alle sentenze della Corte Edu[8] nei casi dei c.d. fratelli minori, così come si è paventato nel caso Scoppola-Ercolano[9] e, più recentemente, per c.d. i fratelli minori del caso Contrada.
Ebbene, i casi più eclatanti hanno riguardato, tra le altre, la materia degli stupefacenti[10] rispetto alla quale però, per inciso, non si era verificato un vuoto di tutela come esito del fenomeno di declaratoria di incostituzionalità della Legge Fini – Giovanardi (vuoto che caratterizza il caso di specie), bensì una riespansione della disciplina previgente dopo la pronuncia della Corte Costituzionale che sanzionava la equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti. Ad ogni modo, l’intervento del giudice dell’esecuzione è stato ritenuto idoneo ad utilizzare tutti i poteri cognitivi utili a superare l’applicazione della norma incostituzionale ed a rimodulare il trattamento sanzionatorio per ricondurlo a legalità[11], compresa l’applicazione delle pene accessorie. Ciò concettualmente in controtendenza con una più risalente tesi che riteneva l’intervento del giudice dell’esecuzione legittimo solamente se “a rime obbligate” cioè solo ove la decisione, anche additiva, fosse meramente dichiarativa di quanto già prescritto dalla norma come derivante dall’emenda della Corte Costituzionale, quasi che potesse dar luogo solo ad una mera operazione matematica di sostituzione della pena “vecchia” con quella “nuova”.
La regola generale che investe l’operato del giudice dell’esecuzione e si erge a baluardo insuperabile si sostanzia nella prescrizione che esso non possa porsi in contrasto col dictum del giudice della cognizione, proprio per evitare che l’incidente di esecuzione si sostanzi in una forma larvata di un nuovo grado di giudizio, una non prevista impugnazione straordinaria. Pertanto il giudice dell’esecuzione non potrà mai controvertere quanto deciso dal giudice della cognizione, anche se soltanto la questione sia stata assorbita, quindi non oggetto di espressa pronuncia del giudice, ma viceversa abbia fatto parte degli elementi sottoposti a valutazione e su di essa sia calato il giudicato.
Infatti, lo strumento dell’art. 670 c.p.p. è stato spesso utilizzato per rimuovere gli effetti di una sentenza che condanni ad una pena illegale solo ove essa sia conseguenza di una mera “svista” o dimenticanza percettiva e non di un errore di valutazione che solo tramite i rimedi tipici di impugnazione potrebbe essere contestato.
Al contrario, nel caso di pronuncia incostituzionale, al giudice dell’esecuzione è affidato un ruolo di cognizione più ampio che riguarda anche il decisum del giudice della cognizione. Ciò in quanto quest’ultimo era basato sulla norma dichiarata incostituzionale e quindi definitivamente esclusa ex tunc dall’ordinamento giuridico. Si crea un vuoto che il giudice dell’esecuzione dovrà colmare con la sua attività che, come hanno evidenziato le SS.UU. Gatto, ha un ampio margine di operatività e comprende, come detto, anche la inflizione di pene accessorie. Allo stesso modo lo strumento dell’incidente di esecuzione è stato utilizzato, o se ne è paventato l’uso, per rimuovere le contraddizioni derivanti dal conflitto con una sentenza della Corte EDU.
Proprio in questa materia, per breve inciso, si acuiscono le difficoltà derivanti da una normativa poco esplicita sul ruolo del giudice dell’esecuzione lì dove rimangono ancora fumosi i confini con la revisione “europea”. Pertanto negli ultimi decenni, più che in tempi passati, si è proposto il tema della esatta collocazione dei vari poteri all’interno della vicenda processuale, materia che sembra necessitare di un intervento che chiarisca limiti e confini, non solo per le vicende che coinvolgono autorità giudiziarie sovranazionali ma anche per quelle tutte nostrane in cui è la Corte Costituzionale ad incidere sulla norma penale.
3. La comprensibile mitezza della Corte e i limitati poteri del giudice dell’esecuzione
In questo contesto si inserisce la questione de quo, e pur senza prendere posizione sulla teoria ormai prevalente in giurisprudenza che impone una lettura ampia dei poteri del giudice dell’esecuzione, si pongono dei dubbi che appaiono essere fondati. Ebbene, in primo luogo bisogna sottolineare che probabilmente l’intervento del Giudice delle Leggi non basta, o meglio non soddisfa appieno le necessità di ragionevolezza del sistema giuridico. Infatti, esso parte dall’assunto che lì dove il giudice non preveda espressamente il minimo di pena per il reato, individui quella situazione come di offensività così esigua da non necessitare quasi menzione o disciplina. L’obiezione più basilare è che situazione non sostanzialmente dissimile è quella dei reati che prevedono una pena minima di poco differente, quale quella di 30 giorni o di due mesi o così via. Anche in quei casi, seppur non operi l’automatismo dei 15 giorni, il legislatore ritiene la condotta potenzialmente portatrice di una offensività minima. Si tratta sempre di reclusione tipica dei delitti e di un trattamento di privazione della libertà scontato nelle strutture carcerarie e una differenza di pochi giorni non sembra poter giustificare una diversa intenzione o una differente valutazione. Quindi sembra che la Corte si sia limitata alla prudenza nella sua declaratoria, limitandosi a censurare le manchevolezze del 131 bis in relazione al reato oggetto della questione dinanzi ad essa sollevata. Ben avrebbe potuto sindacare, sempre sulla base della irragionevolezza, la generale mancanza di un limite minimo nell’art. 131 bis.
L’approccio rimane morbido e mite, e forse non avrebbe potuto essere altrimenti, come detto, per non contraddire la precedente pronuncia del 2017 e non arrogarsi poteri di politica legislativa, ma anche e soprattutto per non produrre necessità di ritornare su tutti i giudicati ancora in esecuzione che potenzialmente avrebbero potuto godere di una pronuncia di lieve entità.
Probabilmente una strada ulteriore poteva essere quella di dichiarare l’incostituzionalità dell’intero articolo 131 bis, che non avrebbe prodotto alcun nocumento ai soggetti che sono stati già destinatari di una pronuncia in tal senso, in quanto la decisione della Corte sarebbe stata in malam partem. Tuttavia ciò avrebbe privato dello strumento tutti i soggetti che nell’intervallo tra la declaratoria di incostituzionalità e la possibile emenda del legislatore, chiamato ad introdurre un nuovo 131 bis, avessero scontato interamente la pena. Ciò avrebbe creato dei vuoti di tutela che sarebbero stati probabilmente tacciati come produttivi di una ingiustificata disparità di trattamento.
Ulteriore strumento di dialogo avrebbe potuto essere quello di un rinvio a tempo, come quello adottato nella vicenda Cappato, che, seppur non incidente su beni di così alto rango, ben avrebbe potuto rappresentare l’ultima chance data al legislatore prima di un intervento più penetrante del Giudice delle Leggi.
Inoltre, non può risolversi in maniera semplicistica la questione dell’attività del giudice dell’esecuzione. Qualunque siano i suoi poteri ed al netto della diatriba su questi, qualcuno di coloro che ritengono una accezione ampia degli stessi, sarebbe certamente spinto ad individuare nella mera rivalutazione quella che deve essere l’attività del giudice dell’esecuzione, chiamato quindi a decidere se ci siano o meno i presupposti per la non punibilità. Ebbene, così non sembra poter essere, o almeno non pare potersi affermare ciò in via assoluta, proprio a causa della sovrapposizione necessaria tra la valutazione dei requisiti dell’art. 131 bis c.p. e quella già operata dal giudice della cognizione ex art. 133 c.p. che si riscontrerebbe in tal caso. Come sopra anticipato, infatti, l’unico limite certo ed incontrovertibilmente individuato, anche dalla giurisprudenza più ampliativa che si è occupata della materia, è certamente quello di non sovrapposizione di tali giudizi al fine di evitare la moltiplicazione di gradi di giudizio non previsti dal codice di procedura. Il giudice dell’esecuzione non potrà, infatti, ritornare su questioni già oggetto della cognizione. Potrà farlo solo ove tali valutazioni cadano come effetto della declaratoria di incostituzionalità della norma che le sostiene. Nel caso di specie, l’incostituzionalità ha coinvolto soltanto l’art. 131 bis nella parte in cui non è consentita la sua applicazione ai casi di minimo edittale di 15 giorni di reclusione e di certo non le norme che impongono la valutazione del comportamento del reo ex art. 133 c.p., valutazione che ha già operato il giudice della cognizione, e che dovrebbe compiere anche il giudice dell’esecuzione per verificare i requisiti del 131 bis. Tanto tale comunanza degli oggetti della ponderazione è effettivamente esistente, che tale ultima norma menziona lo stesso art. 133 c.p., sottolineando pertanto che quella del 131 bis c.p. è una valutazione complessiva che tiene conto, ai fini della qualificazione della condotta come di particolare tenuità e non abituale, delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, profili da considerare già ai sensi dell’articolo 133, primo comma c.p. . E’ evidente che lo spazio di operatività del giudice dell’esecuzione sarà compresso dalle valutazioni comunque compiute dal giudice della cognizione ai sensi del 133 c.p. per la quantificazione della pena. Quest’ultimo è sempre chiamato a valutare la gravità del reato e la capacità a delinquere, quindi certamente quelle modalità della condotta da considerare ai fini del 131 bis e che sono un indice sia della gravità del reato (art. 133, comma 1, n. 1), sia della capacità a delinquere (art. 133, comma 2, n.3). A meno che non si sia effettivamente stabilita nel giudicato di condanna la pena minima di giorni 15, quale limite invalicabile oltre il quale il giudice non può discendere e quale espressione del riconoscimento della sostanziale esiguità dell’offesa arrecata dalla condotta criminosa al bene giuridico, sarà oltremodo complesso ritenere che il giudice della cognizione non abbia già considerato il fatto come di una gravità non lieve e soprattutto addurre la giustificazione di una tale affermazione. A meno, inoltre, di specifico riconoscimento nel giudicato della sostanziale lieve gravità del reato, rispetto al quale il giudice dimostra di non poter fare altro che applicare la pena minima, in assenza della possibilità di applicare il 131 bis nella vigenza della sua versione ancora non destinataria della pronuncia di incostituzionalità, si ritiene molto complesso accordare al g.e. la possibilità di tornare sulla questione e determinarsi nel senso della non punibilità. Tale difficoltà di coordinamento discende, lo si ripete, dalla natura del giudizio richiesto per l’applicazione del 131 bis. Anche la collocazione topografica all’interno del codice non è casuale e impone la qualificazione di esso come di un giudizio complessivo che si affianca a quello necessario per la quantificazione della pena. Essendo un giudizio complessivo, nasce per essere compiuto nella sede di cognizione lì dove il giudice ha a disposizione il più ampio spazio di manovra per la valutazione totale della condotta per come caratterizzata nelle sue molteplici sfaccettature. E’ evidente che il g.e., per quanto ampi siano i suoi poteri, non avrà mai la stessa possibilità di valutare la vicenda nel suo complesso, ma si troverà sempre a risolvere a valle delle incongruenze o delle sopravvenienze che provengono da monte. Colmerà il vuoto, o tapperà la falla, per come potrà, ma in virtù di quanto evidenziato, devono ritenersi decisamente angusti gli spazi operativi ad esso riservati a seguito della declaratoria di incostituzionalità de quo. Sarà sempre oltremodo complesso, a fronte di una pena anche esigua o mite, poter operare un giudizio che incide su spazi già colmati dalla fase di cognizione. Anche se ad altri fini, la condotta è già stata oggetto di valutazione e la compatibilità di quest’ultima con un giudizio che individui la lieve entità del fatto è tutt’altro che scontata. Il g.e. sarà obbligato a confrontarsi con la sentenza passata in giudicato e da questa dovrà trarre gli elementi che giustifichino il suo ulteriore intervento. Quantomeno dovranno riscontrarsi, in tale dettato, degli indici da cui si possa esplicitamente o implicitamente desumere quantomeno che il giudice della cognizione non abbia giudicato come sostanzialmente non lieve il fatto. E ciò è sicuramente complesso in quanto lì dove il giudice della cognizione sa di non poter operare con il 131 bis, e quindi se pure le parti lo domandano la questione è risolta facendo valere la ragione più liquida della inammissibilità, certamente non indugerà sui profili che potrebbero condurre all’applicazione potenziale della causa di non punibilità. Le maggiori difficoltà e le maggiori incertezze si avranno lì dove il g.e. rinvenga nell’implicito della sentenza le ragioni che gli consentono di esercitare il proprio potere decisorio ai fini del 131 bis. Se certamente la condanna, nell’assenza della possibilità di utilizzare il 131 bis, non può essere considerata un indice di incompatibilità con la lieve entità, perché quello lieve è comunque un fatto antigiuridico ed offensivo seppure ritenuto non punibile per ragioni di opportunità criminologica, sarà arduo individuare viceversa delle valide ragioni di compatibilità lì dove la condanna si erga, anche di poco, dalla base del minimo edittale. E’ complesso desumere da una condanna, dalle valutazioni sulla condotta operate per determinare il quantum di pena e soprattutto dal non detto della sentenza, che il giudice della cognizione non abbia valutato come non lieve il fatto, in modo tale che, ove fosse stato possibile applicare il 131 bis al caso di specie, avrebbe potenzialmente potuto scegliere tale opzione.
Quella che appariva una semplice conseguenza della declaratoria di incostituzionalità, sembra essere un difficile banco di prova della compatibilità del giudizio complessivo di cui al 131 bis con una fase che pare non addirsi del tutto ad esso.
Per concludere ed in sintesi, quello composto dal 131 bis e del 133 c.p. è un binomio dai legami saldi che difficilmente consente al g.e. di penetrare nelle strette intersezioni dei suoi nodi. [12] Quello sulla particolare tenuità del fatto è un giudizio che assorbe valutazioni oggettive e soggettivo – personologiche tipiche di una visione complessiva della vicenda, le medesime che vengono compiute per la quantificazione della pena ex art. 133 c.p. E’ inoltre una valutazione che è quanto di più lontano dalle “rime obbligate” di cui più sopra si è dato conto e che rappresentavano un confine, ormai antico e ampiamente valicato, dell’attività del g.e. ma che comunque incontra o incespica, a quanto pare, nel suo limen attuale seppur individuato con grossolana certezza, o incertezza, in ragione della persistente fumosità dell’orizzonte giuridico in materia. Si tratta di giudicare considerando il passato, il presente e la prognosi sul futuro del reo, attività che risulta complessa da operare nella sede dell’esecuzione.
Una parziale giustificazione ai dubbi che si pongono sulla applicabilità del 131 bis in tale sede è ulteriormente fornita dalla disciplina del 620 c.p.p., cioè della cassazione della sentenza senza rinvio. Quando si è posto il problema se fosse possibile per la Corte di Cassazione applicare direttamente il 131 bis c.p. ex art. 620 c.p.p. lett. I) , cioè in quei casi in cui si “ritenga superfluo il rinvio, ovvero può essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari”, una parte della giurisprudenza ha risposto in modo affermativo ma con dei limiti. Una pronuncia[13] ammette l’utilizzo della causa di non punibilità de quo “quando risulti palese, nella sentenza impugnata, la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi” che giustifichino appunto l’utilizzo del 131 bis. Se comunque non si ignorano le differenze sostanziali in termini di accesso al fatto ed alla prova che connotano il giudizio di Cassazione e quello di esecuzione, ebbene, l’utilizzo della causa di non punibilità, in una sede che latamente potrebbe essere comparata con quella dell’esecuzione per il ridotto spazio di manovra concesso al giudice, è subordinata al fatto che sia “palese” la lieve entità del fatto. Sebbene anche la definizione di un tale termine e la sua concreta espressione nel linguaggio tecnico giuridico ponga non poche difficoltà, ciò è comunque prova non solo della sostanziale residualità casistica di una pronuncia di tal fatta, ma soprattutto che un sindacato come quello del 131 bis non può essere generalmente operato ex abrupto in un contesto che non sia dotato delle caratteristiche per contenerlo e sostenerlo. Salve le dovute eccezioni che si ritiene debbano intendersi, come più sopra chiarito, nel caso di una sentenza più che “loquace” sul punto di lieve entità o in una pronuncia che comunque non superi il minimo del minimo edittale previsto per legge per i delitti.
[1] Dal testo della sent. 156 Corte Cost., del 21 luglio 2020 che a sua volta richiama in più punti il dictum della sentenza n. 207 del 2017 del medesimo consesso.
[2] BontempellI, La resistenza del giudicato alla violazione del principio di legalità penale, in Rev. bras. der. proc. pen., 2018, n. 4, 1059 s.; Centorame, La cognizione penale in fase esecutiva, Torino, 2018, 77.
[3] Corbi- Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, 223; Caprioli- Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, 264.
[4] Lavarini L’incidente di esecuzione a rimedio della pena e della condanna illegale: tra riforme “pretorie” e mancate riforme legislative, in Archivio Penale, n. 3/2019; Caprioli, Il giudice e la legge processuale: il paradigma rovesciato, in Ind. pen., 2017, n. 3 (Appendice), 967
[5] Vigoni, Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, in Proc. pen. giust., 2015, n. 4, 8; Gambardella, Norme incostituzionali e giudicato penale: quando la bilancia pende tutta da una parte, in Cass. pen., 2015, 82 ss; Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, in Dir. pen. cont. (Riv. trim.), 2015, n. 1, 32 s.; Vicoli, L’illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria travolge il giudicato: le nuove frontiere della fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni unite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1006 ss
[6] B. Lavarini, I rimedi post iudicatum alla violazione dei canoni europei, in I principi europei del processo penale, a cura di Gaito, Roma, 2016, p. 112.
[7] Caprioli, Giudicato e illegalità della pena: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale, in Bargis (a cura di), Studi in ricordo di Maria Gabriella Aimonetto, Milano, 2103, 286 ss
[8] Randazzo, Interpretazione delle sentenze della Corte europea dei diritti ai fini dell’esecuzione (giudiziaria) e interpretazione della sua giurisprudenza ai fini dell’applicazione della CEDU, in Rivista AIC, 2015, n. 2, 7.
[9] Esposito, Il divenire dei giudici tra diritto convenzionale e diritto nazionale, in Archivio Penale 2018, 39 ss.
[10] Lavarini, Incostituzionalità della disciplina penale in materia di stupefacenti e ricadute ante e post iudicatum, in Giur. cost., 2014, 1907.
[11] Sentenza Gatto, Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in Cass. pen., 2015, p. 41, con nota di M. Gambardella,op. cit.; Si veda altresì G. Romeo, Le Sezioni Unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di una pena “incostituzionale”, in Dir. pen. contemp., 17 ottobre 2014.
[12] Così come ha eminentemente evidenziato Cass., SS.UU., 25 febbraio 2016, n. 13682
[13] Cass., sez. pen. VI, 16 settembre 2015, n. 45073; si veda anche Cass., sez. pen. V, 7 ottobre 2015, n. 48020 secondo la quale è comunque un’ipotesi eccezionale quella che vede la cassazione senza rinvio della sentenza con applicazione del 131 bis a casi in cui appaia certa ed incontrovertibile l’esistenza dei presupposti richiesti dalla norma.
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04 luglio 2016 | Camilla Mostardini
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SULLA POSSIBILITÀ DI REVOCARE PER SOPRAVVENUTA ABOLITIO CRIMINIS LE SENTENZE DI PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO PASSATE IN GIUDICATO
Trib. Enna, ord. 22 giugno 2016, Giud. Minnella
1. L'ordinanza in commento revoca per sopravvenuta abolitio criminis, sulla base di una interpretazione analogica dell'art. 673 c.p.p., una sentenza dichiarativa della non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p., fornendo così un primo significativo riscontro giurisprudenziale alla tesi della natura non pienamente assolutoria di questo tipo di sentenze, che ppresuppongono una almeno implicita affermazione della colpevolezza dell'imputato.
2. I fatti prendono avvio da una sentenza di non punibilità emessa a norma dell'art. 131 bis nei confronti di un soggetto imputato del reato di cui all'art. 2 comma 1 bis l. 638/1983. Nel caso di specie, l'omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali per un valore pari a 94,94 euro era stato ritenuto dal giudice di particolare tenuità.
Successivamente, il d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8 interveniva con effetto di parziale abolitio criminis rispetto alla norma penale in questione: l'omesso versamento continua a risultare penalmente perseguibile solo qualora superi la soglia dei diecimila euro; tutte le ipotesi quantitativamente sottostanti, invece, risultano oggi sanzionabili solo amministrativamente.
Alla luce di questa novità normativa, la difesa dell'imputato proponeva davanti al giudice dell'esecuzione istanza di revoca della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, passata ormai in giudicato, invocando l'art. 673 del codice di rito.
3. Il giudice ritiene fondata l'istanza, sulla base dei seguenti argomenti.
Anzitutto, l'ordinanza precisa che anche la depenalizzazione comporta un'abrogazione del reato, tale da consentire la revoca del giudicato ex art. 673 c.p.p., dal momento che il giudice dell'esecuzione sarà tenuto a dichiarare che il fatto non è - più - previsto dalle legge come reato[1].
In verità, un ostacolo alla possibilità di applicare nel caso di specie la revoca del giudicato sembrerebbe derivare dal tenore letterale dello stesso art. 673 c.p.p., che parrebbe confinare la possibilità di revoca, nel primo comma, alla "sentenza di condanna" e al "decreto penale", e nel secondo comma; alla "sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di punibilità".
Occorre dunque stabilire se la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ex art 131 bis c.p. possa o meno essere ricondotta entro l'alveo applicativo dall'art. 673 c.p.p.
4. L'ordinanza osserva preliminarmente come l'art. 673 c.p.p., in quanto espressione del principio nullum crimen, nulla poena sine lege - sancito dall'art. 25, comma 2 della nostra Costituzione e dall'art. 7 della CEDU - consenta di superare l'intangibilità del giudicato ogni qual volta il venir meno della premessa maggiore (la fattispecie incriminatrice) renda "doveroso rimuovere anche la conclusione del sillogismo giuridico basato su quella premessa (sentenza di condanna)". In questo senso, la revoca di cui all'art. 673 c.p.p. permette di adeguare, di volta in volta, l'esecuzione del comando originario, divenuta iniqua per l'intervenuto mutamento del diritto, alle nuove esigenze di giustizia sopravvenute, assicurando così il rispetto non solo del principio di legalità, ma anche di quello di meritevolezza/proporzionalità della pena.
Ora, osservando l'ambito applicativo delineato dalla norma in esame, risulta evidente come la possibilità di revoca non sia limitata alle sole sentenze di condanna di cui all'art. 533 c.p., ma sia estesa più in generale a quelle tipologie di pronunce che finiscono comunque per produrre effetti pregiudizievoli a carico dell'imputato - è questo il caso delle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato o difetto di imputabilità, espressamente indicate dal comma secondo dell'art. 673. Non sembra quindi difficile individuare la ratio che sta alla base della revoca in esame: il legislatore ha inteso concedere all'imputato la possibilità di vedere eliminata ogni conseguenza a lui più o meno sfavorevole derivante dal provvedimento divenuto ormai, lato sensu, ingiusto - e privo di fondamento normativo -, sì da ottenere una piena riaffermazione della propria innocenza.
Ed allora, quanto alla declaratoria ex art 131 bis, l'ordinanza osserva come non sembra possa affermarsene il carattere pienamente assolutorio. Con questa causa di esclusione di punibilità di recente introduzione, il legislatore ha dato effettiva attuazione ai principi di sussidiarietà e proporzione del diritto penale, ritenendo inopportuna la repressione penale di fatti sì tipici, ma produttivi di un disvalore di entità talmente lieve da rendere sproporzionata l'eventuale applicazione di una pena; al tempo stesso, l'istituto in esame presenta indubbia natura deflattiva, tale da consentire un significativo alleggerimento di quei carichi processuali che - inutilmente - ingolfano il sistema penale.
Invero, proprio la natura di causa di non punibilità dell'art. 131 bis risulta indicativa del fatto che, anche nelle ipotesi suscettibili della declaratoria di particolare tenuità, si ha comunque a che fare con la commissione di un fatto di reato completo di tutti i suoi elementi: e dunque di un fatto tipico, e, al tempo stesso, colpevolmente commesso dall'imputato; mentre il proscioglimento che ne deriva nasce dalla sola rinuncia alla pena compiuta dal legislatore, proprio in ossequio ai principio che confina il ricorso alla sanzione penale all'extrema ratio.
L'ordinanza rileva poi come questa conclusione trovi riscontro normativo nell'art. 651 bis c.p.p., introdotto insieme all'art. 131 bis dallo stesso d.lgs. 28/2015, ove si afferma che anche la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto "ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso" in ambito civile o amministrativo.
Ancora, la natura in un certo modo pregiudizievole per l'imputato della sentenza di proscioglimento ex art 131 bis viene ulteriormente avvalorata attraverso il richiamo ad una recentissima pronuncia della Cassazione, che ha ritenuto prevalente sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, dal momento che, mentre quest'ultima estingue ontologicamente il reato, la prima "lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica"[2].
Dall'implicita affermazione di colpevolezza dell'imputato prosciolto, perché ritenuto non punibile per la particolare tenuità dell'offesa cagionata, derivano dunque conseguenze sfavorevoli per lo stesso. E ciò non solo per quanto visto circa l'efficacia dell'accertamento in sede civile o amministrativa, ma anche in termini di iscrizione del casellario giudiziale: secondo quanto disposto dall'art. 3, comma 1, lettera f) del d.P.R. 313/2002, così come modificato dal d.lgs. 28/2015, le sentenze di proscioglimento per particolare tenuità del fatto devono essere comunque iscritte nel casellario giudiziale - disposizione, quest'ultima, volta a precostituire gli strumenti per poter compiere il giudizio di non abitualità del comportamento, in caso di un'eventuale, nuova commissione di un fatto di reato del quale si discuta la possibile applicazione dell'art. 131 bis.
L'ordinanza fonda poi la ritenuta possibilità di revocare le sentenze emesse ex art 131 bis sull'ulteriore argomento che, diversamente operando, verrebbe leso il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. Nell'ipotesi in esame, infatti, sorgerebbe un'evidente disparità di trattamento tra chi, avendo omesso versamenti per cifre fino a 9.999,99 euro, potrebbe beneficiare della revoca della condanna passata in giudicato, mentre dovrebbe continuare a soffrire degli effetti pregiudizievoli scaturenti dalla "assoluzione" ex art 131 bis chi abbia posto in essere omissioni pari a poche decine di euro.
Tutto ciò premesso, ritiene il giudice che non vi sia necessità di investire la Corte Costituzionale per annoverare tra le sentenze suscettibili di revoca ex art. 673 c.p.p. anche le declaratorie di non punibilità per particolare tenuità del fatto, dal momento che ad un simile risultato può pervenirsi ricorrendo all'interpretazione analogica dello stesso art. 673 c.p.p. Né, così facendo, si incorre in una violazione dell'art. 14 delle preleggi, posto che l'estensione analogica opera qui in bonam partem.
Il giudice passa in effetti in rassegna tutti i presupposti dell'analogia, in modo da dimostrarne la sussistenza nel caso concreto.
Anzitutto, ritiene pacifica la presenza di una lacuna normativa, dal momento che la sentenza di proscioglimento ex art. 131 bis non può essere ricondotta ad alcuno dei provvedimenti indicati all'art. 673, non trattandosi né - come evidente - di una sentenza di condanna propriamente detta, né, d'altra parte, di una delle ipotesi indicate dal secondo comma: tanto le sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato, quanto quelle per mancanza di imputabilità rappresentano infatti pronunce circoscritte a ipotesi ben specifiche, nelle quali non rientra la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
In secondo luogo, riscontra una identità di ratio legis tra la revoca delle pronunce espressamente indicate nella norma in esame e quella delle sentenze di proscioglimento ex art. 131 bis; ciò in quanto "anche in questo caso l'abrogazione della norma incriminatrice - sulla quale si fonda il riconoscimento di un fatto tipico, per quanto tenue - rende necessaria la rimozione di una decisione dalla quale derivano effetti comunque pregiudizievoli per il soggetto, alla stregua delle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità".
Infine, osserva come la norma di cui all'art. 673 c.p.p. non possa essere ritenuta eccezionale, costituendo anzi applicazione in sede di esecuzione del principio nullum crimen sine lege, in ossequio al quale anche il giudicato può - rectius, deve - essere travolto nel caso di abolizione del reato.
L'ordinanza accoglie dunque l'istanza di revoca della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, disponendo contestualmente la cancellazione dell'iscrizione della stessa dal casellario giudiziale.
* * *
5. L'ordinanza in commento ci sembra del tutto coerente con quanto finora rilevato da dottrina e giurisprudenza in merito all'art. 131 bis.
Come ormai pacificamente riconosciuto, infatti, l'applicazione dell'art. 131 bis richiede come condizione preliminare implicita il riscontro da parte del giudice della commissione di un fatto di reato tipico, e dunque completo di tutti i suoi elementi costitutivi, ivi compresa l'offensività della condotta posta in essere, che costituisce un requisito indefettibile di fattispecie. Affinché un fatto di reato possa dirsi di particolare tenuità è infatti necessario, come ovvio, non solo che sia effettivamente stato commesso, ma che sia anche produttivo di un certo disvalore, la cui eventuale esiguità sarà oggetto di valutazione ai fini della causa di esclusione della punibilità in esame. Qualora, infatti, la condotta illecita non fosse in concreto idonea a ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, l'intero comportamento dovrebbe essere qualificato come un reato impossibile, ricadendo pacificamente nell'ipotesi descritta dal secondo comma dell'art. 49 c.p.; in questo caso, dunque, dovrebbe pervenirsi ad una sentenza di assoluzione secondo la formula "il fatto non costituisce reato", pienamente liberatoria per l'imputato in quanto attinente al merito della questione.
Nelle ipotesi di irrilevanza del fatto, invece, il giudice si trova a dover valutare preliminarmente la sussistenza di un fatto di reato antigiuridico e colpevole, del quale l'imputato debba essere ritenuto responsabile[3] - il ché comporta, tra l'altro, la possibilità di agire in legittima difesa nei confronti di una simile condotta. Ne consegue che il fatto di reato manifestatosi in termini di scarsa offensività risulta contrario all'ordinamento giuridico nel suo complesso; ciò che ne esclude la punibilità è, meramente, una valutazione di inopportunità della sanzione penale.
6. Da queste osservazioni deriva la conclusione che una declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto, pur risolvendosi in una sentenza di proscioglimento, porta con sé la necessaria statuizione di colpevolezza dell'imputato. Ne consegue che, da un lato, il giudice dovrà esplicitare in motivazione le ragioni che hanno portato a ritenere che il fatto di reato sia stato commesso e sia attribuibile alla condotta dell'imputato[4]; dall'altro, che qualora vi siano incertezze circa questi elementi costitutivi lo stesso sarà tenuto ad emettere una sentenza pienamente assolutoria nel merito, in ossequio al principio in dubio pro reo. Ma v'è di più: alla sentenza ex art. 131 bis dovrà ricorrersi solo in subordine rispetto ad ogni altra tipologia di pronuncia che dichiari l'estinzione del reato, anche per ragioni attinenti al rito; e ciò proprio in conseguenza del carattere solo apparentemente assolutorio della declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto[5].
A ben vedere, infatti, l'implicita affermazione di colpevolezza dell'imputato contenuta nella sentenza ex art. 131 bis comporta che la stessa non sia immune da qualsivoglia conseguenza sul piano sanzionatorio: si tratta - come indicato nell'ordinanza in commento - dell'iscrizione nel casellario giudiziale e dell'estensione alle sedi civile ed amministrativa dell'efficacia del giudicato penale[6], con tutto ciò che ne consegue[7], anche in termini di etichettamento e stigmatizzazione dell'imputato; tanto da avere indotto una dottrina a definire la declaratoria di proscioglimento per particolare tenuità del fatto come una "cripto condanna"[8].
7. A ulteriore conferma della natura in una certa misura pregiudizievole della sentenza ex art. 131 bis il legislatore ha disposto la possibilità che non solo l'imputato possa presentare opposizione alla sentenza di proscioglimento predibattimentale emessa ex art. 469, comma 2 bis, ma che anche il soggetto indagato possa far sentire le sue ragioni già in fase di indagini preliminari, attraverso un'interlocuzione; in questa sede, infatti, il p.m. sarà tenuto, ai sensi dell'art. 411, comma 1 bis, a notificare l'avviso della richiesta di archiviazione per tenuità del fatto non solo alla persona offesa, ma anche - appunto - all'indagato, il quale entro dieci giorni potrà presentare opposizione[9].
8. Il carattere sostanzialmente pregiudizievole della sentenza di proscioglimento ex art 131 bis trova del resto conferma da un'osservazione degli analoghi istituti rinvenibili altrove nell'ordinamento penale.
Il riferimento è, in particolare, all' art. 27 d.P.R. 448/1988, che, in sede di procedimento a carico di imputati minorenni, prevede una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto; e all'art. 34 d.lgs. 274/2000, laddove si dispone l'esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto nell'ambito del giudizio davanti al giudice di pace.
Ebbene, entrambe queste pronunce sottendono un'affermazione di responsabilità dell'imputato[10]. Tanto che, da una parte, al minorenne è attribuita dal comma 3 dell'art. 27 la facoltà di impugnare la sentenza che dichiara l'improcedibilità per tenuità del fatto; dall'altra, davanti al giudice di pace l'imputato potrà, una volta esercitata l'azione penale, proporre opposizione ad una pronuncia ex art 34. Ora, anche in considerazione del fatto che entrambe queste pronunce non sono neppure soggette a iscrizione nel casellario giudiziale, risulta evidente che l'unico interesse che l'imputato potrebbe avere a ostacolare una declaratoria di questo tipo consiste - ancora una volta - nell'auspicio di ottenere una sentenza totalmente assolutoria nel merito, sapendosi il soggetto estraneo ai fatti o comunque sperando in un esito a lui più favorevole, privo di qualsiasi effetto stigmatizzante.
9. Quanto poi al procedimento ermeneutico utilizzato dall'ordinanza in commento per ricomprendere entro l'ambito applicativo dell'art. 673 c.p.p. la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, il ricorso all'analogia ci pare parimenti ineccepibile.
La possibilità di interpretare analogicamente anche le norme penali, se in una direzione in bonam partem, è infatti ormai dato acquisito dalla dottrina e giurisprudenza maggioritarie. A sostegno di questa conclusione si è rilevato come il termine "leggi penali" di cui all'art. 14 delle Preleggi debba essere letto restrittivamente, come indicativo delle sole norme incriminatrici e non anche di eventuali disposizioni che restringano l'ambito della repressione penale, anche in quanto attuative di principi generali ricavabili dall'ordinamento giuridico nel suo complesso.
[1] Circostanza che, come ricorda la stessa ordinanza in commento, viene già - superfluamente - chiarita nello stesso d.lgs. 8/2016, al comma 2 dell'art. 8.
[2] Cass. pen., Sez. III, 26 maggio 2015 n. 27055.
[3] " Siamo in presenza di un fatto che va esente da pena, ma illecito, contrario all'intero ordinamento giuridico, capace pertanto di produrre conseguenze sanzionatorie extrapenali": così R. Bartoli, Le definizioni alternative del procedimento, in Dir. pen e proc., 2001, p. 175 e ss.
[4] Cfr. R. Dies, Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità, in questa Rivista, 13 settembre 2015, p. 7.
[5] In questo senso si sono espresse anche le Linee guida della Procura di Palermo, pubblicate in questa Rivista, 2 luglio 2015, con nota di G. Alberti, Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: le linee guida della Procura di Palermo.
[6] Anche se, per vero, una simile conseguenza è espressamente attribuita alle sole sentenze emesse a seguito del dibattimento o del giudizio abbreviato, ove sono possibile una cognizione piena e un contraddittorio integrale; l'estensione non varrà, invece, per le pronunce predibattimentali emesse ex art 469, comma 1 bis, né in caso di archiviazione ex art. 411, comma 1, come modificato dal l.lgs. 28/2015 - ed è evidente che proprio questa dovrebbe essere, almeno nelle intenzioni del legislatore, la sede naturale per l'operatività dell'art. 131 bis.
[7] Si osservi come il prevalente orientamento giurisprudenziale ritenga sussistente l'interesse dell'imputato ad impugnare la sentenza di proscioglimento pronunciata perché il fatto non costituisce reato, se finalizzata ad ottenere una assoluzione per insussistenza del fatto, proprio in considerazione degli effetti più favorevoli che ne derivano in sede civile ed amministrativa. Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2003, n. 13261, in Cass. pen., 2004, p. 4128 e ss.; Cass. pen., Sez. II, 18 maggio 2010, n. 33847, CED, 248127; Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, CED, 235655; Cass. pen., Sez. V, 28 settembre 2004, n. 14542, in Cass. pen., 2006, p. 2542.
[8] Cfr. F. Piccioni, Per gli avvocati "armi spuntate" nella strategia, in Guida dir., 2015, n. 15, p. 41 e ss. Riconoscono gli effetti negativi derivanti dalla sentenza di proscioglimento per tenuità del fatto anche la relazione dell'Ufficio del massimario della Corte di Cassazione penale in materia di art. 131 bis (A. Corbo - G. Fidelbo, Problematiche processuali riguardanti l'immediata applicazione della "particolare tenuità del fatto", 23 aprile 2015).
[9] "Una specifica interlocuzione non è invece espressamente prevista dopo l'esercizio dell'azione penale, né in sede di udienza preliminare, né in sede dibattimentale, giacché in tali fasi è già aliunde garantito il contraddittorio pieno" (G. Amato, L'archiviazione presuppone sempre l'avviso alle parti, in Guida dir., 2015, n. 15, p. 38). Si osservi, tuttavia, come una simile disposizione non garantisca un vero e proprio diritto di veto alla declaratoria ex art. 131 bis, essendo il gip comunque libero di accogliere la richiesta di archiviazione presentata dal p.m; né è stata data all'imputato la possibilità di impugnare il provvedimento di archiviazione nel merito, avendo il legislatore ritenuto opportuno far prevalere qui le esigenze deflattive alla base dell'istituto. Tanto che, secondo alcuni, "sarebbe stato più opportuno prevedere un meccanismo attraverso il quale ottenere il necessario consenso dell'indagato ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione" (F. Piccioni, Per gli avvocati "armi spuntate" nella strategia, cit.). Come indicato dallo stesso autore, in tal senso si è espresso anche il presidente dell'Unione delle Camere penali italiane nel parere reso nel corso dell'audizione in Commissione Giustizia. Si osserva, per inciso, come non appaia difficile ravvisare l'interesse che potrebbe spingere l'indagato ad opporsi ad un'archiviazione per tenuità del fatto: egli, infatti, potrebbe sperare di ottenere una pronuncia pienamente liberatoria nel merito ed alla quale non segua alcun effetto sfavorevole.
[10] Contra, in riferimento all'art. 27 d.P.R. 448/1988, Corte Cost., 22 ottobre 1997, n. 311, in DeJure.it, ove si ritiene che la prospettazione accusatoria viene assunta "come mera ipotesi e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l'imputato ne porta la responsabilità". Una simile statuizione ci sembra collidere con la ratio dell'istituto, aprendo la via, oltretutto, a una possibile lettura contra reum della norma: perché, infatti, il mero dubbio circa la responsabilità del minore dovrebbe essere risolto in termini affermativi confluendo in una declaratoria di improcedibilità, lasciando dunque presumere la colpevolezza dello stesso, con tutto ciò che ne deriva in termini di etichettamento? Cosa ne sarebbe del principio in dubio pro reo? Critico nei confronti di questa sentenza anche G. Riccio, voce Irrilevanza penale del fatto (dir. proc. pen.) in Enc. Giur., XIX, 1990 p. 7.
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