Thursday, May 1, 2025

Apertura del Giudicato

L’ESECUZIONE DELLA PENA L’ART. 111 COSTITUZIONE E L’ESECUZIONE LEALE Le prime osservazioni sul tema dell’esecuzione penale devono prendere spunto dalla Costituzione ed in particolare dal principio del “ giusto processo” sancito dall’art. 111 per chiedersi se i principi in esso contenuti debbano trovare applicazione anche al procedimento esecutivo. Indubbiamente il primo comma dell’art. 111 stabilisce che i principi del giusto processo valgano per ogni settore della giurisdizione, tuttavia la parte che l’art. 111 dedica al processo penale si riferisce, a livello di enunciati normativi, esclusivamente al processo di cognizione. Si tratta allora di capire se l’art. 111 abbia riflessi anche sul procedimento esecutivo e cioè se sia possibile individuare ciò che costituisce il minimo etico del giusto processo applicabile ad ogni aspetto della giurisdizione e quello che invece è coessenziale al processo di cognizione e quindi non è applicabile ad una fase diversa anche se conseguente. Non è quindi soltanto nominalistica la questione se oltre che di “giusto processo” si possa anche parlare di “giusta esecuzione” Facendo riferimento alla dicotomia anglosassone “justice/fairness” la dottrina ha coniato il termine “esecuzione leale” ed ha cercato di individuare alcuni principi fissati dall’art. 111 Cost. che devono caratterizzare il procedimento esecutivo. Secondo questa impostazione l’esecuzione leale deve anzitutto garantire l’effettività del contraddittorio e la parità delle armi. Questa esigenza è particolarmente forte nel procedimento esecutivo, disciplinato nel libro X del codice di procedura penale, in quanto l’attività esecutiva è demandata all’ufficio del Pubblico Ministero , in deroga all’impostazione di fondo del nostro codice, che riserva in via generale al Giudice l’adozione di qualsiasi provvedimento limitativo della libertà personale. La legge (ad esempio gli artt. 656 e 663 cpp) riconosce quindi al Pubblico Ministero l’esercizio di poteri che incidono immediatamente sui diritti di libertà personale. E’ allora importante che tutti i provvedimenti del PM, che sono sempre suscettibili di revoca, siano sottoposti al controllo del Giudice dell’Esecuzione, che l’interessato può adire per ottenere una pronuncia da emettersi nel contraddittorio delle parti e contro la quale è ammesso il ricorso per cassazione. Spetta invece alla Magistratura di Sorveglianza determinare le concrete modalità di attuazione della pena. Secondo alcuni il principio dell’effettività del contraddittorio non sarebbe, ad esempio, sufficientemente garantito dalla previsione dell’art. 666 c.4 cpp che, nel disciplinare l’incidente di esecuzione nelle forme del rito in camera di consiglio, prevde che il condannato possa essere sentito soltanto se ne faccia richiesta. Movendosi in questa direzione la dottrina indica altri due elementi che il procedimento esecutivo deve presentare per potersi definire “leale”: l’imparzialità e la terzietà del Giudice dell’Esecuzione. In questo ambito ci si chiede se la norma dell’art. 665 cpp, che individua come Giudice dell’Esecuzione lo stesso Giudice che ha deliberato il provvedimento, sia compatibile con il principio di imparzialità e terzietà anche perché in sede esecutiva non vigono le incompatibilità previste dall’art. 34 cpp Altro principio introdotto dall’art. 111 Cost. è quello della ragionevole durata del procedimento esecutivo ove si contende sempre e comunque sui diritti di libertà del singolo, il quale, in via generale, si duole dell’irregolare formazione del titolo esecutivo e il più delle volte rivendica€ un controllo efficace sulla regolarità del titolo di detenzione ovvero sulla persistente compatibilità della restrizione della libertà che patisce, magari in forza di una decisione risalente nel tempo, con lo sviluppo attuale della sua personalità. Gli interpreti giudicano quindi auspicabile che anche nel procedimento esecutivo vengano introdotti termini perentori. Devono infine citarsi i diritti del condannato alloglotta. L’interpretazione costituzionalmente orientata del procedimento esecutivo impone poi che il condannato alloglotta venga informato nella sua lingua ogni volta che la mancata comprensione di un atto importerebbe un pregiudizio al suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento della procedura e quindi di difesa. L’art. 143 cpp deve quindi sicuramente trovare applicazione nella procedura esecutiva sa per quello che riguarda la presenza di un interprete per gli atti orali sia per la traduzione di quegli atti la mancata comprensione dei quali incida sul diritto di difesa, quali ad esempio l’ordine di esecuzione recante sospensione della stessa (art. 656 c.5 cpp). Possiamo quindi concludere affermando che il procedimento di esecuzione non è più, come si pensava un tempo, volto a dar attuazione alla cosa giudicata ma è diventato uno strumento di controllo e di garanzia per realizzare l’esigenza di controlli costanti e periodici sulla legalità della decisione e sull’ortodossa espiazione della pena detentiva. Una sorta, secondo alcuni autori, di “habeas corpus” permanente. Si va quindi verso un processo penale bifasico (si veda Monteverde: “Tribunale della pena e processo bifasico: realtà e prospettive” in Dir. Pen e proc. 2001, p. 1161) ******************** L’APERTURA DEL GIUDICATO PENALE Se al giusto processo deve seguire una decisione giusta e se alla fase cognitiva rispettosa delle garanzie deve seguire l’esecuzione leale, allora è indispensabile l’apertura del giudicato per assicurare la conformità al diritto obiettivo anche alle pronunce che siano dotate dell’autorità della cosa giudicata. Ed infatti le leggi sull’ordinamento penitenziario e le nuove norme del codice di rito, prima fra tutte l’art. 671 cpp che consente di riconoscere in sede esecutiva la continuazione o il concorso formale, hanno fortemente eroso il canone dell’intangibilità del giudicato. L’accentuazione del carattere relativo dell’irretrattabilità dell’accertamento contenuto nel provvedimento non più impugnabile rappresento un segno di un ordinamento, che, cosciente della propria fallibilità, prefigura una vera e propria successione di strumenti processuali tesa a rimuovere le pronunce che non facciano giusta applicazione del diritto obiettivo. Sul punto vi sono infatti due interessi contrapposti: l’interesse a conseguire una stabile certezza del provvedimento giudiziario e l’interesse individuale di libertà ch non può subire limitazioni “contra tenorem rationis” ed il progressivo prevalere di questo secondo interesse comporta la diffusione delle opportunità di revisione “in bonam partem” del giudicato. **************************** PLURALITA’ DI SENTENZE PER IL MEDESIMO FATTO CONTRO LA STESSA PERSONA Il giudicato penale è anzitutto una salvaguardia della persona già giudicata, precludendone una nuova sottoposizione a procedimento penale per il medesimo fatto, pur se diversamente considerato per titolo, grado e circostanze (art. 649 cpp). Ed infatti l’art. 669 cpp prevede che se vi sono più sentenze di condanna contro la stessa persona per il medesimo fatto il giudice ordina l’esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna meno grave, revocando le altre (comma 1). Se le condanne riguardano pene diverse, il legislatore ha lasciato all’interessato la possibilità d indicare la sentenza da eseguire, prima della decisione del G.E.. Laddove l’interessato non si avvalga di tale facoltà i commi tre e quattro dell’art. 669 indicano i criteri da seguire Se contro la stessa persona sono state pronunciate più sentenze di non luogo a procedere o di proscioglimento, in mancanza di scelta dell’interessato, deve essere disposta l’esecuzione della sentenza più favorevole , sulla base della formula adottata dal giudice della cognizione (art. 669 c.7 cpp). In ipotesi d sentenza di proscioglimento e di sentenza di condanna o di decreto penale, il giudice ordina l’esecuzione della sentenza di proscioglimento e revoca la decisione di condanna. Una ovvia eccezione a questa regola si verifica quando la sentenza di proscioglimento è stata prounciata per estinzione del reato verificatasi successivamente alla data di irrevocabilità della condanna, ad esepio per prescrizione. (art. 669 c.8 cpp). Ulteriori eccezioni sono quelle previste dall’art. 69 c.2 cpp, che prevede espressamente l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona nei confronti della quale sia stata erroneamente pronunciata in precedenza sentenza di proscioglimento per morte; e quella prevista dall’art. 345 cpp, che prevede espressamente che possa nuovamente esercitarsi l’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona nei confronti della quale sia intervenuta, successivamente alla sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere o successivamente al decreto di archiviazione, la condizione di procedibilità dell’azione. Il nono comma dell’art. 669 cpp prevede infine un trattamento particolare per le sentenze di non luogo a procedere che sono sempre soccombenti rispetto alle sentenze pronunciate in giudizio ed ai decreti : in questo caso il legislatore, in evidente contrasto con il canone della prevalenza della decisione più favorevole, fa prevalere comunque la decisione dotata del carattere dell’irrevocabilità. In proposito, deve ricordarsi che la Suprema Corte ha stabilito che soggiace a questa regola anche la sentenza pronunciata ex art. 444 cpp, che viene equiparata ad una sentenza di condanna (Cass. Pen, Sez. I, n. 39337/2002). *********************** LA REVOCA DELLA SENTENZA PER ABOLIZONE DEL REATO Altro caso di apertura del giudicato in “bonam partem” è la previsione dell’art. 673 cpp di revoca della sentenza per abolizione del reato. La norma in esame codifica il principio, da sempre avvertito in tutti i settori del diritto, per cui è contrario a ragionevolezza che possa permanere un effetto, ove giuridicamente annullata la sua premessa: abolita la premessa maggiore e cioè l’incriminazione per un fatto non più previsto come reato, è consequenziale rimuovere la sentenza di condanna. Il legislatore del 1930 con l’art. 2 c.2 cp , che prevede che “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.”, aveva stabilito che l giudicato poteva venire meno solo nell’ipotesi di abolitio criminis. L’art. 30 della l. 87/1953 sul funzionamento della Corte Costituzionale aveva poi stabilito analogo principio nell’ipotesi di declaratoria d incostituzionalità. L’art. 673 cpp prevede ora tutte e due le ipotesi ed attribuisce espressamente al G.E il potere di revoca della sentenza di condanna o del decreto penale “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Il G.E. procede allo stesso modo quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità (art. 673 c.2 cpp). Se non si pongono significativi problemi allorchè il reato viene depenalizzato, bn più complessa è la situazione in cui vi sia un avvicendarsi di norme giuridiche nel tempo, fenomeno che dà origine a conflitti apparenti di norme e l’ordinamento deve individuare i limiti di efficacia delle stesse nel tempo, stabilendo quale sia la disposizione applicabile al fatto. L’interprete in questi casi deve, utilizzando tutti i criteri ermeneutici ed integrandoli tra loro, se la nuova normativa abbia contenuto abrogativo (art. 2 c.2 cp) o meramente modificativo della previgente (art. 2 c. 4 cp). Si deve perciò verificare se fra le norme vi sia continuità punitiva, regolata dal 4° comma dell’art. 2 cp con l’applicazione della disciplina più favorevole, salvo il limite dell’irrevocabilità della sentenza, ovvero se sussista un caso di abolitio criminis, che ha la fora d travolgere l giudicato di condanna come previsto dall’art. 673 cpp. L’abrogazione del reato può essere solo parziale e si realizza quando il legislatore ha eliminato solo una parte della fattispecie legale ovvero, contestualmente alla soppressione, ha introdotto una norma speciale che attiene ad un’area di punibilità più ristretta. In tal caso occorre verificare se, nella fattispecie originariamente contestata , erano o meno presenti gli elementi specializzanti. Ipotesi questa verificatasi ad esempio con la modifica delle norme in tema di false comunicazioni sociali (2621 e 2622 c.c.), di seguito alla novella legislativa introdotta con il D.L. 11/4/200 n.61: le Sezioni Unite, con la sentenza 25887/03, hanno asserito che il D.L. in questione non ha comportato l’abolizione totale dei reati precedentemente contemplati anche ai sensi della legge fallimentare, nell’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, ma una successione di leggi con effetti parzialmente abrogativi in relazione ai fatti non riconducibili alle nuove fattispecie normative. Conseguentemente compito del G.E., investito della richiesta ex art. 673 cpp, sarà quello di verificare la sussistenza degli elementi costitutivi della nuova tipologia di reati, con riferimento all’epoca dei fatti. La casistica è sicuramente varia. E’ stata ritenuta applicabile, ai sensi dell’art. 673 cpp, la revoca della sentenza nel caso di inapplicabilità sopravvenuta della norma nazionale per effetto di pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha affermato l’incompatibilità della norma di diritto interno con quella comunitaria. Secondo la Suprema Corte in questi casi infatti ci si trova di fronte ad un caso assimilabile a quello della declaratoria di illegittimità costituzionale. A queste conclusioni si è giunti sia nel caso di detenzione di CD privi del contrassegno SIAE (Cass. Pen., Sez. VII, n. 21578/2008), sia, più recentemente, con riferimento al reato di inottemperanza all’ordine di espulsione, di cui all’art. 14 c.5 ter del D.L.vo 286/1998 (Cass. Pen., Sez. I, 28/4/2011 n. 22105; Cass. Pen, Sez. I, 29/4/2011, n. 20130; Cass. Pen., Sez. I, 29/4/2011, n. 18586). Ed ancora le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno ritenuto depenalizzato, a seguito della novella introdotta dalla l. 94/2009, per abolitio criminis, ai sensi dell’art. 2 c.2 cp, il reato di inottemperanza all’ordine di esibire i documenti commesso dallo straniero irregolare sul territorio nazionale (Cass. Pen. Sez. Unite, 24/2/2011 n. 16453 Alacev). Quando la condanna riguarda più reati e la revoca della sentenza ex art. 673 cpp è solo parziale, il G.E. deve precisare la porzione di pena imputabile al reato revocato e quindi l’’entità della pena ancora da eseguire. Se il Giudice della cognizione ha ritenuto la continuazione tra più reati e la revoca della condanna riguarda il reato più grave, si rende necessaria la nuova determinazione della pena per i reati già “satellite”:se l’aumento per la continuazione non corrisponde per genere e quantità alla sanzione prevista dalla norma incriminatrice, il reato satellite recupera la propria autonomia e la propria pena. Allo stesso modo il G.E. che revoca la sentenza per una condanna, può applicare ad altra condanna la sospensione condizionale della pena che sia stata impedita, nel giudizio di cognizione, dalla sentenza revocata, quando la concessione del beneficio sia giustificata dagli elementi favorevoli qualificanti il giudizio prognostico (Cass. Pen., Sez. I, 40334/2004 in conformità con Sezioni Unite 20/12/2005). Queste ultime osservazioni suggeriscono un approfondimento delle vicende che il giudicato penale può subire con particolare riguardo ed a partire dall’imputazione. *************************** LA FORMULAZIONE DEL CAPO D’IMPUTAZIONE Nella fase esecutiva si riscontrano non poche difficoltà legate alle diverse modalità di formulazione del capo d’imputazione. In questa fase è sempre particolare importanza l’individuazione della pena inflitta e di quella da eseguire in relazione alle singole ipotesi criminose per le quali è stata pronunciato condanna: è quindi importante che dalla sentenza emerga con chiarezza come è stata determinata la pena in relazione a tali singole ipotesi criminose. Perché ciò si verifichi è necessario che il capo d’imputazione per il quale è stata riconosciuta la responsabilità, oltre a contenere una precisa descrizione del fatto, sia formulato per singoli reati e non per gruppi di reati, con indicazione puntuale dei riferimenti normativi, delle single aggravanti e, soprattutto, del tempo di commissione di essi. Come si vedrà in seguito parlando dell’indulto e delle revoche dei benefici, individuazione puntuale di tali elementi può risultare determinante per l’individuazione della pena. Particolarmente importante è la specificazione del tempo di commissione del reato sia nei reati istantanei che in quelli permanenti. Spesse volte capita di vedere, soprattutto nei casi di cessioni plurime di sostanze stupefacenti, una contestazione generica di tali plurime cessioni con indicazione di un temo approssimativo di commissione ad un certo gono sino ad un altro giorno). Un contestazione di questo genere può determinare singolari problemi allorchè la commissione di un fatto determinato in un giorno piuttosto che in n altro consente o nega l’accesso ad un beneficio ovvero ne determina la revoca. Ad esempio la pena inflitta per un singolo episodio di cessione di stupefacenti commesso il 2 maggio 2006 potrà essere indultata sino alla misura di rte anni; lo stesso fatto commesso il primo agosto del 2006 e punito con una pena non inferiore a due anni di reclusione determinerà non solo l’inapplicabilità del beneficio alla pena inflitta, ma anche la revoca delle precedenti applicazioni Una contestazione generica di un numero indeterminato di fatti in un arco di tempo a cavallo del termine di efficacia del condono e del termine di entrata in vigore della legge richiederà quindi necessariamente l’intervento del G.E, il quale, anche a distanza di tempo notevole dal processo e dalla condanna, sarà chiamato a dirimere la questione senza avere punti evidenti di riferimento. ********************* IL REATO PERMANENTE Nel caso del reato permanente poi si riscontra spesso una contestazione aperta, con indicazione del solo momento di inizio della permanenza o anche, più raramente, del solo termine di cessazione della permanenza. Capita spesso di imbattersi n contestazioni del tempo di commissione del reato con l’indicazione del termine iniziale più o meno approssimativo ( ad esempio dal 2001) e del termine finale incerto: così ad esempio con le espressioni “fino ad oggi” o ancora “in permanenza attuale”, laddove l’uso dell’avverbio di tempo oggi e dell’aggettivo attuale non individua un giorno preciso (come dire quello della formulazione del capo d’imputazione, quello della richiesta di rinvio a giudizio o altro), con la conseguenza che con una finzione giuridica si deve poi in sede esecutiva ritenere che la cessazione della permanenza si sia verificata il giorno stesso della sentenza di primo grado, poiché è evidente che il Giudice non ha potuto giudicare se non atti portati alla sua cognizione sino a quel giorno e non fatti futuri. E’ interessante però ricordare che la Suprema Corte su punto ha affermato che “in presenza d un reato permanente nel quale la contestazione sia sta effettuata nella forma cosiddetta “aperta”, la regola, di natura processuale, per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado, non equivale a presunzione di colpevolezza sino a quella data. Ne consegue che, qualora in sede esecutiva deve farsi dipendere n qualsiasi effetto giuridico dalla data di cessazione della permanenza, è compito del G.E. verificare in concreto se il Giudice della cognizione abbi, o non, ritenuto provato il protrarsi della condotta criminosa fino alla data della sentenza di primo grado” (Cass.Pen., Sez. I, 26/9/2007 n. 37335). Toccherà quindi ancora una volta al G.E. con un ragionamento difficoltoso e spesso privo di riferimenti efficaci individuare quel momento. Accade spesso che il Pubblico Ministero al momento della prima contestazione non abbia ancora acquisito gi elementi probatori sufficienti per definire se la commissione del reato permanente sia cessata o meno ma è difficile pensare che questo momento non sia stato ancora individuato al termine delle indagini preliminari o addirittura all’esito dell’istruttoria dibattimentale. In ogni caso il Giudice di cognizione è chiamato a definire questo dato non irrilevante: nella sentenza e specificamente nel dispositivo egli dovrà necessariamente individuare ed indicare per quali fatti precisi pronunci la condanna e se accerterà che il reato è ancora in esecuzione al momento della pronuncia (come capita frequentemente per i reati di sottrazione agli obblighi di assistenza familiare, di invasione arbitraria di terreni o edifici o di occupazione del demanio marittimo) è giusto che o affermi nella motivazione e anche nel dispositivo integrando in tal senso il capo d’imputazione. ******************** LA RECIDIVA La contestazione di questa aggravante inerente alla persona del colpevole, come di ogni altra, se sussistente è obbligatoria; non è rimessa alla discrezionalità del Pubblico Ministero: potrà il Giudice della cognizione escluderla o non computarla in aumento ma non potrà il Pubblico Ministero ometterne la contestazione. La Suprema Corte con una sentenza a sezioni unite ha ribadito questa affermazione (Cass. Pen., Sez. Unite, 27/5/2010 n. 35738). Dalla recidiva derivano importanti conseguenze in fase esecutiva. La prima, e forse la più rilevante, riguarda il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione. Come si avrà occasione di approfondire in seguito, la legge 251/2005 (la c.d. legge Cirielli), modificando l’art. 656 cpp ha escluso la sospensione dell’ordine di carcerazione nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata ai sensi dell’art. 99 c.4 cp (art. 656 c.9 lett C cpp), salvo che gli stessi siano tossicodipendenti o alcol dipendenti ed abbiano in corso, al momento del deposito della sentenza definitiva, un programma terapeutico di recupero presso servizi pubblici di assistenza o altre strutture autorizzate, se l’interruzione del programma può pregiudicarne la disintossicazione (questo temperamento è stato introdotto dall’art. 4 c.2 della l. 49/2006 che ha mitigato l’iniziale rigore assoluto della norma) . Occorre anzitutto osservare che il legislatore usa il termine “applicata la recidiva”; questa precisazione terminologica comporta che la preclusione è operativa soltanto se la recidiva è stata contestata dal Pubblico Ministero, è stata ritenuta sussistente dal Giudice ed ha comportato in concreto un aumento di pena o anche, nel caso di bilanciamento con le circostanze attenuanti, un giudizio di equivalenza delle stesse. Pertanto un giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla contestata e ritenuta recidiva (peraltro ora escluso dall’art. 69 c.4 cp così come modificato dalla l. 251/2005) la rende non applicata in quanto non incide direttamente sul trattamento sanzionatorio; cosa che avviene invece nel caso di giudizio di equivalenza, nel quale vene impedita la diminuzione della pena, altrimenti conseguente all’applicazione delle attenuanti. All’applicazione della recidiva seguono effetti anche in tema di determinazione della pena in caso di continuazione in executivis, ai sensi dell’art. 671 cpp. La legge 251/2005 ha infatti introdotto l’art. 671 c.2 bis cpp, che a sua volta richiama l’art. 81 c.4 cp. Questa norma prevede che in caso di riconoscimento della continuazione ad un soggetto al quale sia stata applicata la recidiva reiterata l’aumento di pena non può comunque essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave. Infine l’ultimo comma dell’art. 172 cp esclude la prescrizione della pena per i recidivi, di cui al capoverso dell’art. 99 cp. Perché sia esclusa la prescrizione occorre quindi che sia stata contestata la recidiva qualificata e che sia stata dichiarata sussistente in sentenza anche se non abbia operato aumenti di pena in conseguenza di essa. Il primo comma dell’at. 47 ter ord. pen consente poi la detenzione domiciliare al condannato ultrasettantenne purchè non sia mai stato mai condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 cp ed al comma 1 bis esclude la detenzione domiciliare “generica” per i recidivi reiterati. Infine, anche se questi effetti non riguardano la fase esecutiva, deve ricordasi che ai recidivi reiterati è inibito il patteggiamento allargato (art. 444 c.1 bis cpp) e che la recidiva dilata i tempi massimi di prescrizione del reato (art. 161 cp). Da tutto ciò deriva che la recidiva deve essere contestata non in maniera generica (ad esempio con l’espressione “con la recidiva”) che equivale alla contestazione della recidiva semplice, ma puntualmente nelle forme specifiche che assume in relazione ad ogni reato contestato nelle imputazioni. ********************* DICHIARAZIONE DI ABITUALITA’ A DELINQUERE Secondo dottrina e giurisprudenza l’abitualità è un particolare forma dell’aggravante della recidiva e quindi deve essere contestata al pari di qualsiasi altra aggravante. Dalla dichiarazione di delinquenza abituale derivano importanti effetti. Anzitutto l’applicazione della misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione ad una colonia agricola o a una casa di lavoro L’abitualità comporta poi la pena accessoria dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici (art. 29 cpv. cp) Al pari della recidiva la dichiarazione di abitualità esclude la prescrizione della pena (art. 172 cp), dilata i tempi massimi di prescrizione del reato (art. 161 cp) ed esclude il delinquente abituale dal patteggiamento allargato (art. 444 c.1 bis cpp) I delinquenti abituali sono poi esclusi dall’applicazione della sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite di due anni prevista dalla l. 207/2003 (il c.d. indultino) mentre non sono stati esclusi dall’ultima amnistia (l. 75/1990) e dagli ultimi due indulti (D.P.R. 394/1990 e l. 241/2006). Infine la legge 26/11/2010 n. 199 (c.d “legge svuota carceri”) ha espressamente previsto (art. 1 c.2 lett. A) che l’esecuzione presso il domicilio delle peni non superiori all’anno non si applichi ai delinquenti abituali, professionale e per tendenza, quali quindi non possono beneficiare della sospensione del’esecuzione prevista dal terzo comma dell’art. 1 ella legge citata. ******************** L’APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DEL REATO CONTINUATO Il codice di procedura penale, com’è noto, ha introdotto la possibilità di riconoscere il vincolo della continuazione anche tra sentenze di condanna già definitive (art. 671 cpp), con ciò proseguendo nel processo di erosione della graniticità del giudicato penale. L’unico limite che introduce l’art. 671 consiste nell’ipotesi che sul punto si sia già pronunciato negativamente il Giudice della cognizione. Il procedimento si instaura con istanza di parte o sull’accordo delle parti (in caso d più sentenze di patteggiamento) e la decisione è affidata al G.E. con procedimento camerale. I criteri di valutazione saranno gli stessi adottati in sede di cognizione: non è sufficiente quindi la semplice contiguità temporale dei fatti o l’identità delle norme violate, occorre invece una precisazione di elementi che siano un indice sintomatico del programma delittuoso unitario e non invece di una scelta di vita ispirata alla sistematica consumazione di reati (Cass.Pen, Sez. V, 4/6/2010 n. 213264) Il G.E, ai sensi dell’art.187 disp. att. cpp, dovrà individuare la pena base in quella più grave inflitta dai Giudici della cognizione: la decisione del GE è quindi facilitata ma anche vincolata. Nel rideterminare la pena complessiva il G.E incontra un solo limite, quello previsto dal comma 2 dell’art. 671 cpp, vale a dire che la complessiva pena determinata per effetto della continuazione non può superare la somma di quelle irrogate dai singoli Giudici della cognizione. Ciò consene anche di determinare la pena in misura superiore per singoli fatti, ma comunque inferiore alla somma complessiva, senza violare il divieto di reformatio in pejus (Cass. Pen, Sez. I, 8/6/2006 n. 31429; Cass. Pen, Sez. I, 6/3/2008 n. 12704; Cass. Pen. Sez. I, 7/3/2008 n. 12894) La determinazione della pena dei reati satellite deve essere effettuata in maniera precisa e singola dal Giudice della cognizione, che non deve limitarsi come spesso accade, ad un aumento globale per tutti i reati questo perchè le cause di estinzione del reato e della pena, l’abolizione del reato o il ne bis in idem spesso operano solo con riferimento ai reati satellite e pertanto è indispensabile la precisa individuazione di ciascuna pena: in mancanza di determinazione nella fase della cognizione, dovrà provvedere il G.E. con procedimento incidentale. Una particolare questione si pone con riferimento all’applicazione del condono se i reati in continuazione sono stati commessi in tempi diversi , prima e dopo il termine di efficacia della legge che lo concede: risulta perciò importante stabilire la quantità di pena infitta per le singole ipotesi criminose non solo per l’individuazione della pena condonabile, ma anche per l’applicabilità stessa del beneficio, che potrebbe essere inapplicabile ai reati satellite, seppure commessi nei termini, laddove il reato più grave fosse stato commesso successivamente e la pena inflitta in concreto fosse causa di revoca dell’indulto astrattamente concedibile al reato satellite. Sul punto la Suprema Corte a sezioni unite ha affermato che in tema di indulto, in caso di reati uniti nel vincolo della continuazione, alcun dei quali, compreso quello più grave, siano stati commessi nel termine fissato per la fruizione del beneficio ed altri successivamente, la pena rilevante ai fini della revoca dell’indulto va individuata, con riguardo ai reati satellite, nell’aumento di pena in concreto inflitto a titolo di continuazione per ciascun reato; a tal fine, ove la sentenza non abbia specificato la pena applicata per ciascun reato, spetta al G.E. interpretare il giudicato (Cass. Pen, Sez. Unite, 23/4/2009 n. 21501). Con una successiva sentenza la Corte precisa ancora che ai fini della revoca dell’indulto a seguito di nuova condanna per rati unificati dalla continuazione, deve aversi riguardo alla pena inflitta per ciascun reato e non a quella complessiva (Cass. Pen, Sez. I, 24/11/2009 n. 49986). Il G.E. , nell’applicare la disciplina della continuazione, può anche compiere un’autonoma valutazione sulla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena “quando ciò consegue al riconoscimento del concorso formale o della continuazione” (art. 671 c.3 cpp) Questo significa che il G.E non può concedere un beneficio che era stato negato dal Giudice della cognizione, sostituendo così la propria diversa valutazione prognostica a quella sfavorevole del Giudice della cognizione: può però concedere il beneficio quando la diversa determinazione e riduzione della pena rientra nei limiti di concessione ai sensi degli artt. 163 e 164 cp, con la conseguenza che la sospensione che non poteva essere concessa dal Giudice della cognizione, a causa del superamento dei limiti edittali, può poi essere concessa in sede esecutiva, una volta rideterminata la pena. Occorre a questo punto ricordare che la legge 49/2006 di conversione del decreto legge 272/2005 sulle Olimpiadi invernali ha previsto che “fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza”. (art. 671 c.1 ultima parte cpp). Con riferimento a questa norma, che, tra l’altro, ha modificato solo l’art. 671 cpp e non anche l’art. 8 cp, ci si è chiesti se il legislatore abbia inteso introdurre nella condizione di tossicodipendenza una categoria normativa di disegno criminoso e ciò in evidente contrasto rispetto al criterio che individua l’unicità e disegno criminoso in una deliberazione che, anche se generica, unifica fatti delittuosi ed è presente sin dalla commissione del primo reato. La Suprema Corte con giurisprudenza ormai consolidata ha risposto negativamente al quesito, precisando che la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza, non può essere considerata di per se elemento decisivo ai fini dell’unitarietà del disegno criminoso, dovendo sussistere comunque il requisito della preventiva deliberazione a delinquere che unifica l’ideazione dei reati prima della loro commissione. Pertanto l’elemento psicologico della continuazione non si può desumere automaticamente dalla commissione dei reati da parte de tossicodipendente, in mancanza di atri elementi concordanti (Cass. Pen., Sez. I, 13/10/2010 n. 39287). Infine, come si è già osservato, la legge 251/2005 (legge “Cirielli”) ha modificato l’art. 671 cpp, inserendo il comma 2 bis che prevede l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 81 c.4 cp e cioè che l’aumento di pena per i reati satellite, nell’ipotesi commesse da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata, non possa comunque essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave. Dopo avere esaminato i principali casi in cui i giudicato penale può essere modificato è ora necessario passare all’analisi della procedura attraverso la quale l’ufficio del Pubblico Ministero dà esecuzione alle sentenze passate in giudicato. ****************** L’ESECUTIVITA’ DELLE SENTENZE L’esecuzione viene promossa sulla base di un titolo esecutivo: ai sensi dell’art. 650 cpp le sentenze ed i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili. La nozione di irrevocabilità si ricava dall’art. 648 cpp che definisce irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. Se l’impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno n cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso. Il decreto penale è irrevocabile quando è decorso il termine per proporre opposizione, quello per impugnare l’ordinanza che ha dichiarato inammissibile l’opposizione. L’eventuale efficacia estensiva dell’impugnazione proposta dal coimputato, non impedisce l’esecuzione del provvedimento nei confronti di coloro che non hanno proposto impugnazione, fino al passaggio n giudicato della sentenza che abbia accolto in tutto o n parte i motivi estensibili (Cass. Pen, Sez. Unite, 24/4/1995 Cacciapuoti) Nell’ipotesi di annullamento parziale sono inoltre eseguibili capi ella sentenza che non hanno connessione essenziale con la parte annullata (art. 624 cpp), sempre che abbiano un’autonoma rilevanza e dunque contengano una statuizione definitiva riguardante uno o più degli imputati, sia con riferimento al giudizio di responsabilità, sia con riferimento alla misura della pena. Si tratta del principio dl c.d. “giudicato progressivo” già elaborato dalla giurisprudenza in relazione al codice previgente (Cass. Pen, Sez. II,20/9/2000 n. 6287) *********************** L’ESECUZIONE DELLA PENA: ATTIVITA’ PREPARATORIE Quando la condanna diventa irrevocabile, secondo quanto previsto dagli artt. 27 e ss del Regolamento di esecuzione del cpp, la cancelleria del Giudice trasmette l’estratto esecutivo del provvedimento “senza ritardo”, e comunque entro cinque giorni, al Pubblico Ministero presso il Giudice che lo ha deliberato, perché ne curi l’esecuzione. Il termine di cinque giorni per la trasmissione dell’estratto dalla cancelleria del Giudice alla Segreteria del PM è peraltro puramente indicativo. L’art. 28 del Regolamento disciplina il contenuto dell’estratto esecutivo, che deve indicare: le generalità del condannato, l’imputazione, il dispositivo, la precisazione che non è stata proposta impugnazione ovvero copia dei provvedimenti che hanno definito gli eventuali altri gradi del procedimento. L’art. 29 del regolamento di esecuzione indica poi gli adempimenti che deve compiere la Segreteria del Pubblico Ministero una volta ricevuto l’estratto esecutivo e cioè iscrizione della condanna a pena detentiva non condizionalmente sospesa nel registro delle esecuzioni (SIEP), formazione di un fascicolo con un numero progressivo corrispondente a quello di iscrizione nel registro, acquisizione del certificato penale del condannato e dei dati acquisiti dal servizio informatico del Ministero della Giustizia (custodia cautelare, arresto, ermo, liberazione ecc.) Predisposto il fascicolo la Segreteria lo sottopone al Pubblico Ministero per l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 657 cpp (computo della detenzione presofferta), 656 e 663 cpp (ordine di esecuzione e, ove necessario, provvedimento di cumulo delle pene) ************************* L’ACCERTAMENTO DELL’ESEGUIBILITA’ DELLA SENTENZA E L’ORDINE DI ESECUZIONE L’emissione dell’ordine di esecuzione presuppone l’accertamento da parte del PM dell’eseguibilità della sentenza di condanna. Si tratta di un’indagine non sempre facile e comunque basata su elementi che esigono una conoscenza approfondita e una non lieve responsabilità per le conseguenze che possono derivare. Ed infatti da parte di alcuni si sostiene che l’ordine di esecuzione del PM dovrebbe essere preceduto da un provvedimento autorizzativo del G.E., in funzione di tutela della libertà personale del condannato e di garanzia. Non tutte le sentenze irrevocabili di condanna a pena detentiva sono infatti immediatamente eseguibili in quanto il nostro ordinamento (art. 656 cpp) prevede che in alcuni casi l’esecuzione della pena detentiva sia sospesa sino alla decisione della magistratura di sorveglianza in ordine all’eventuale applicazione di un misura alternativa alla detenzione in carcere. L’esame della soluzione data dall’ordinamento penale al problema dei tempi di emissione dell’ordine di carcerazione, con riferimento alla possibilità del condannato di fruire di misure alternative alla detenzione in carcere, è particolarmente interessante perché fornisce una utile indicazione delle scelte di politica criminale di volta, in volta adottate dal legislatore. Nel codice previgente, al passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva, era subito prevista l’emissione da parte del PM dell’ordine di carcerazione. Ola scansione temporale prevedeva quindi: il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, l’emissione dell’ordine di carcerazione, l’esecuzione dello stesso con il conseguente ingresso in carcere del condannato. Quest’ultimo quindi poteva formulare domanda volta alla concessione di misure alternative alla detenzione solo dopo avere fatto ingresso in carcere. Ed anzi la misura alternativa più ampia e cioè l’affidamento in prova era possibile solo dopo tre mesi di osservazione carceraria. Il sistema così delineato presentava però due inconvenienti rilevanti. Anzitutto per il condannato tossicodipendente che avesse corso un programma terapeutico il passaggio in giudicato della sentenza comportava la brusca interruzione del programma stesso e quindi della terapia. Inoltre per i condannati a pena breve i tempi tecnici di attivazione del procedimento di sorveglianza non consentivano la effettiva fruizione dei benefici eventualmente concessi. In altri termini spesso il condannato veniva scarcerato per fine pena prima che la magistratura di sorveglianza potesse concedere la misura. Succedeva così che delle misure alternative finivano per fruire solo i condannati a pene detentive lunghe e quindi le persone, quanto meno in astratto, più pericolose. Per ovviare a questi inconvenienti già nella vigenza del vecchio codice di rito erano state introdotte norme, che prevedevano la possibilità per il condannato di chiedere misure alternative prima dell’emissione dell’ordine di carcerazione e cioè dalla libertà o, come si diceva, dall’esterno allo scopo di evitare che soggetti potenzialmente non pericolosi fossero costretti comunque ad entrare nel circuito carcerario. Lo studio dell’evoluzione della normativa sul punto porta all’individuazione di una prima fase in cui le ipotesi di sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione in attesa delle decisioni della magistratura di sorveglianza vanno via, via ampliandosi e poi una seconda fase in cui questo spazio va progressivamente restringendosi. Nella prima versione del codice del 1989 l’art. 656 cpp prevedeva la regola generale (comma 1) della immediata emissione da parte del PM dell’ordine di carcerazione al passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva. Il secondo comma prevedeva, per le pene inferiori a sei mesi ed in assenza di pericolo di fuga, l’ingiunzione da parte del Pubblico Ministero diretta al condannato di costituirsi in carcere entro cinque giorni, decorso inutilmente i quali doveva essere ordinata la carcerazione. Non si trattava quindi di una norma volta a favorire la concessione di misure alternativa alla detenzione dalla libertà, ma semplicemente a favorire per i condannati a pene brevi e quindi astrattamente non pericolosi la spontanea presentazione in carcere. L’unica eccezione che consentiva la possibilità di sospendere l’immediata carcerazione era prevista dagli artt. 90 e ss. del D.P.R. 309/1990 per i tossicodipendenti con programma in corso. La successiva tappa si realizza nel maggio del 1998 con la legge 165/1998 c.d. legge Simeone –Saraceni. La legge prevedeva al 5 comma dell’art. 656 cpp che la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre ani, o quattro per i tossicodipendenti e gli alcoldipendenti, dovesse essere sospesa. Il Pubblico Ministero emetteva quindi ordine di esecuzione recante sospensione della carcerazione con l’avviso al condannato che entro trenta giorni poteva presentare istanza volta alla concessione di misure alternative. L’ordine sospeso doveva essere consegnato, e non solo notificato, al condannato (solo con la legge 4/2001 alla consegna sarà sostituita la notifica). In caso di mancata presentazione della domanda da parte del condannato o di rigetto della stessa da parte del Tribunale di Sorveglianza era prevista la revoca da parte del PM della sospensione dell’esecuzione con la conseguente carcerazione del condannato. Il meccanismo della sospensione dell’esecuzione vedeva due eccezioni, disciplinate al comma 9 dello stesso articolo 656 cpp, evidentemente legate ad una presunzione di pericolosità del condannato che sconsigliava la sospensione stessa. La prima (lett. A) riguardava le persone condannate per uno dei reati di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario e quindi per reati ritenuti gravi. La seconda eccezione riguardava (lett. B) le persone che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovavano in custodia cautelare in carcere al momento del passaggio in giudicato della della sentenza e cioè persone per le quali, in sede di giudizio di cognizione, era già stata compiuta una valutazione positiva di pericolosità sociale. I reati compresi nell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario all’epoca erano l’associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis cp), il sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cp), l’associazione per delinquere finalizzato al traffico di stupefacenti (art. 74 del D.P.R. 309/1990), i reati commessi per finalità di terrorismo, l’omicidio volontario (art. 575 cp), la rapina e l’estorsione aggravata (artt. 628 c.3 e art. 629 c.2 cp), la detenzione e lo spaccio di ingenti quantità di stupefacente (artt. 73 e 80 c.2 del D.P.R. 309/1990). La prima versione della legge Simeone segna la massima espansione di questo filone legislativo volto a limitare l’ingresso dei condannati per reati non particolarmente gravi nel circuito carcerario. Da questo momento in poi tutte le successive riforme in materia hanno progressivamente limitato le possibilità per i condannati di chiedere misure alternative prima dell’inizio della carcerazione. Può essere interessante esaminare, sia pure molto sinteticamente, questi interventi legislativi nel loro susseguirsi cronologico. La legge 19/2001 modifica l’art. 4 bis dell’ord. pen. e quindi il comma 9 lett. A dell’art. 656 cp (e cioè i reati per i quali non può essere sospesa l’esecuzione) introducendo il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di cui all’art. 609 bis , 609 quater e 609 quinquies cp (violenza sessuale, atti sessuali con minorenni e corruzione di minorenni). Si è trattato invero di una riforma non particolarmente significativa, non essendo fortunatamente frequenti casi di rati associativa finalizzati alla commissione di reati sessuali. La legge 92/2001 modifica l’art. 4 bis ord. pen. introducendo i reati di associazione per delinquere finalizzata alla contrabbando di TLE (art. 291 quater T.U.L.D.) e di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando aggravato (art. 291 ter T.U.L.D.) La legge 279/2002 aggiunge ai reati di cui all’art. 4 bis ord. pen. i delitti di riduzione in schiavitù, tratta di persone ed acquisto di schiavi (artt. 600, 601 e 602 cp). Sino a questo momento le restrizioni si riferiscono tutte a reati indubbiamente gravi e non particolarmente diffusi e quindi non hanno sicuramente avuto particolare incidenza sulla popolazione carceraria. La legge che invece interviene in maniera rilevante ampliando considerevolmente la fascia dei casi di emissione dell’ordine di carcerazione non sospeso è la legge 251/2005, la legge Cirielli, che introduce la lett. C al comma 9 dell’art 656 cpp, che vieta la sospensione dell’esecuzione per i condannati, ai quali sia stata “applicata” la recidiva reiterata. Gi si è avuto modo di precisare che cosa debba intendersi per “applicazione” della recidiva. Un’altra importante riforma in senso restrittivo è stata la legge 38/2006, che inserisce tra i reati di cui all’art. 4 bis ord. pen., per i quali è quindi vietata la sospensione, la prostituzione minorile, la pornografia minorile la violenza sessuale e la violenza sessuale aggravata (artt. 600 bis, 600 ter, 609 bis e 609 ter cp). Il pacchetto sicurezza del 2008 (l. 125/2008) allarga poi la serie dei reati di cui alla lettera A del comma 9 dell’art. 656 cpp, inserendo: l’incendio boschivo (art. 423 bis cp), il furto se aggravato da due o più delle circostanze di cui all’art. 625 cp, il furto in abitazione e lo scippo (art. 624 bis cp) ed i delitti aggravati dalla art. 61 n.11 bis cp. Si tratta dell’aggravante della clandestinità, che è stata poi dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte Cost. sentenza 249/2010). L’ultimo pacchetto sicurezza, di cui alla legge 99/2009, colloca nei reati di cui all’art. 4 bis ord. pen. l’associazione per delinquere finalizzata a commettere i reati di contraffazione di marchi e commercio di prodotti con marchi contraffatti (artt. 473 e 474 cp) e di organizzazione dell’immigrazione clandestina (artt. 12 c.3, 3bis e 3 ter del D.L.vo 286/1998). Queste leggi hanno sicuramente avuto una diretta e significativa incidenza sulla popolazione carceraria. Indicative sono, sotto questo profilo, le statistiche della Procura delle Repubblica di Genova: nell’anno 2001 e ciò vigente la prima versione della legge Simeone l’Ufficio ha emesso 754 ordini di esecuzione sospesi e solo 308 ordini non sospesi. Nell’anno 2008 il numero degli ordine è complessivamente diminuito, a causa dell’indulto, ma le percentuali sono sensibilmente mutate: sono stati emessi 299 ordini non sospesi e 285 ordini sospesi. Nell’anno 2009 la Procura ha emesso 305 ordini sospesi e 278 non sospesi. L’ultima riforma che deve essere ricordata inverte invece la tendenza. Si tratta della l. 199/2010, la legge “svuota carceri”, che ha previsto la misura dell’esecuzione presso il domicilio delle pene non superiori ad un anno. La legge dispone (art1 c.3) che per il condannato libero, quando la pena detentiva da eseguire non sia superiore ai dodici mesi, il pubblico ministero, salvo che non debba sospendere l’esecuzione ai sensi dell’art. 656 c.5 cpp e che non ricorrano i casi di cui all’art. 656 c.9 lett. A (e cioè sia intervenuta condanna per un reato ostativo alla sospensione), sospende l’esecuzione trasmette gli atti senza ritardo al Magistrato di Sorveglianza perchè disponga l’esecuzione della pena al domicilio. Questa forma di sospensione si riferisce alle persone libere e non condannate per uno dei reati di cui all’art. 656 c.9 lett. A e quindi sostanzialmente riguarda i recidivi reiterati con pena da eseguire inferiore all’anno. Si tratta quindi di una riforma che, almeno in parte, ha voluto limitare gli effetti della legge Cirielli sul divieto di sospensione per i recidivi reiterati. I dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sula popolazione detenuta sembrano indicare che la l. 199/2010, appunto “svuota carceri” ha raggiunto i risultati che si proponeva. Nel maggio del 2011 i detenuti in Italia era 67.174 in diminuzione rispetto allo stesso mese dell’anno precedente dello 0,6 % e alla stessa data il numero di detenuti condannati con pena residua inferiore all’anno, con esclusione dei condannati per uno dei reati di cui all’art. 4 bis ord. pen., era pari a 9.253 persone con una diminuzione rispetto al mese di novembre del 2010 del 15 %. ********************* IL PROVVEDIMENTO DI CUMULO L’esigenza di emettere da parte del PM un provvedimento di cumulo si prospetta quando a carico dello stesso condannato devono essere eseguite più sentenze di condanna concorrenti. Per consolidata giurisprudenza sono condanne concorrenti quelle relative a reati commessi prima dell’inizio dell’esecuzione di ciascuna condanna. Secondo la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte l’inizio dell’esecuzione coincide con il momento di inizio della carcerazione in espiazione di una qualsiasi delle pene concorrenti, dovendosi intendere per inizio dell’espiazione anche l’inizio della custodia cautelare sofferta per quei titoli (Cass.Pen., Sez. I, 18/6/2004 n.31214) La necessità del provvedimento d determinazione delle pene concorrenti viene individuata dal PM dall’esame del certificato penale del condannato, dal quale emerge (purtroppo non sempre in modo chiaro) se per qualcuna delle condanne già iscritte si ponga la necessità di revoca di qualche beneficio (sospensione condizionale, indulto ecc.) e se esse san in tutto o in parte espiate. Il Pubblico Ministero nel cumulo computa una dietro l’altra tutte le condanne considerate, sommando aritmeticamente le pene per specie omogenee, tenendo conto dei periodi di carcerazione presofferta relativi alle singole sentenze, calcolando anche le pene per le quali pera di diritto la revoca de benefici della sospensione condizionale e del condono e non computando, invece, quelle per le quali risultino applicabili amnistie o condoni (provvedimenti che vanno contemporaneamente tutti richiesti a G.E., che prenderà un provvedimento d natura dichiarativa), giungendo così alla determinazione della pena complessiva unica che rimane da espiare, in relazione alla quale si dovrà stabilire se ricorrano le condizioni per disporre la sospensione dell’esecuzione. Il provvedimento si compone normalmente di una parte descrittiva (con l’indicazione delle generalità del condannato, l’elencazione delle condanne riportate e con le annotazioni sullo stato di esecuzione ad esse singolarmente riferibili), di una parte motiva (nella quale si dà conto dei conteggi effettuati e si forniscono indicazioni sulla competenza, sui benefici revocati e sulle detrazioni di pena) e di una parte dispositiva (nella quale viene determinata la pena residua da espiare e se ne ordina l’esecuzione o, a seconda dei casi, la sospensione). La somma aritmetica delle pene e cioè il cumulo materiale trova però un limite in quanto previsto dall’art. 78 cp, secondo il quale la pena da applicare non può essere superiore al quintuplo della più grave tra le pene concorrenti né comunque eccedere trenta anni di reclusione e sei anni di arresto. Quindi quando il cumulo materiale e cioè la somma aritmetica della pena supera i limiti previsti dall’art. 78 cp deve procedersi a quello che viene definito “cumulo giuridico” e la pena deve essere ridotta entro tali limiti. Il cumulo giuridico non determina però una riduzione definitiva delle pene inflitte, come avviene ad esempio nel caso della continuazione in executivis ai sensi dell’art. 671 cpp; le pene restano infatti integre e dovranno essere espiate per intero nel caso se si modificheranno nel tempo le condizioni di operatività dei criteri limitativi. Si pensi, ad esempio, al caso di una persona che abbia riportato sei condanne tutti per reati commessi prima dell’inizio dell’esecuzione di ciascuna; in questo caso il cumulo materiale delle pene pari a dodici mesi è superiore al quintuplo della condanna più grave e cioè dieci mesi. Il Pubblico Ministero nel provvedimento di determinazione delle pene concorrenti procederà quindi al cumulo giuridico e determinerà la pena complessiva in dieci mesi di reclusione. Tuttavia, se successivamente sopravvenisse una nuova condanna a mesi quattro di reclusione per un reato commesso anch’esso prima dell’inizio dell’esecuzione delle pene, il Pubblico Ministero dovrà emettere un nuovo provvedimento di cumulo; in questo caso però la pena più grave sarà quella di quattro mesi il cui quintuplo è venti mesi; sarà quindi più favorevole il cumulo materiale di sedici mesi di reclusione pari alla somma aritmetica delle pene. Il criterio moderatore del cumulo giuridico opera però solo per le pene concorrenti e cioè per reati commessi prima dell’inizio dell’esecuzione di ciascuna condanna; non è invece consentita una generale cumulabilità delle pene inflitte per reati diversi, in relazione ai quali vi siano stati diversi periodi di carcerazione presofferta o espiata. Un periodo di carcerazione infatti non può mai essere imputato ad un cumulo che comprenda pene inflitte per reati commessi successivamente alla carcerazione di cui si tratta in quanto in questo caso il presofferto verrebbe calcolato anche con riferimento ai reati successivi all’inizio della carcerazione, violando il disposto dell’art. 657 c.4 cpp. Questa norma sancisce un principio generale secondo cui la pena non può mai precedere il reati incoraggiandone la reiterazione (Cass. Pen, Sez. I, 28/2/1992 n. 266 – Pilone; Cass. Pen. 10/6/1992 – Potorti; Cass. Pen, Sez. V, 8/2/1993 n. 2064). In questo caso la giuriprudenza della Suprema Corte indica come soluzione quella della formazione di cumuli parziali e progressivi con possibile azzeramento dell’effetto del cumulo giuridico (Cass. Pen, Sez. I, 28/2/1992 n. 266 – Pilone; Cass. Pen, Sez. V, 8/2/1993 n. 2064). Ci si deve infine domandare che cosa accade quando, in una situazione di cumulo giuridico, si verifica che ad alcune soltanto delle pene cumulate, per il tempo del commesso reato o per esclusioni oggettive, sia applicabile l’indulto. La Suprema Corte, con giurisprudenza consolidata, risolve il caso stabilendo che il beneficio debba essere applicato prima del cumulo giuridico e quindi sul cumulo materiale delle pene. Dopo avere così detratto l’indulto dalla somma aritmetica delle pene, il cumulo giuridico dovrà essere applicato solo ove la pena risultante ecceda ancora i limiti di cui all’art. 78 cp. Il criterio moderatore del cumulo giuridico infatti, ponendosi come temperamento legale delle sole pene da eseguirsi effettivamente, non può estendersi anche alle pene già coperte dal condono, le quali altrimenti verrebbero a godere di un duplice abbattimento. (Cass. Pen., Sez. I, 23/11/1995 n. 4102; Cass. Pen, Sez. I, 18/6/2004 n. 31211). Ranieri Miniati Sostituto Procuratore Repubblica Genova

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