Thursday, November 12, 2020
ISCRIZIONE All'ALBO
Iscrizione all'Albo
§ 1. La condizione per l’esercizio della professione.
La norma in commento, il cui principio era già rinvenibile nell’art. 21, co. 1, del previgente codice deontologico ((“L’iscrizione all’albo costituisce presupposto per l’esercizio dell’attività giudiziale e stragiudiziale di assistenza e consulenza in materia legale e per l’utilizzo del relativo titolo“.)) e, prima ancora, nell’art. 1, co. 1, RDL n. 1578/1933 (“vecchio” Ordinamento forense) ((“Nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore se non è iscritto nell’albo professionale“.)), riproduce pressoché testualmente quanto ora stabilito dall’art. 2, co. 3, L. n. 247/2012 (nuovo Ordinamento forense) ((“L’iscrizione ad un albo circondariale è condizione per l’esercizio della professione di avvocato“.)), e ciò in ossequio al disposto generale secondo cui “la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi ed elenchi” (art. 2229 c.c.) ((In arg. cfr. Cassazione Civile, sez. II, 6 giugno 2006, n. 13214.)).
Secondo tali precetti, l’iscrizione all’albo (unitamente all’impegno solenne ((Art. 8 L. n. 247/2012.)), che ha sostituito il giuramento ((Art. 12, co. 2, RDL n. 1578/1933.))) è quindi necessaria per l’esercizio della professione di avvocato ((Cfr. Pergolesi, Ordini e collegi professionali, Enc. for., vol. V, Milano, 1960, p. 423 ss.)), sia in ambito giudiziale sia -a determinate condizioni- in quello stragiudiziale ((Cfr. art. 2, co. 6, L. n. 247/2012, secondo cui “l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati“.)), a pena di sanzioni civili ((Art. 2231 c.c.)) e penali ((Art. 348 c.p.)), nonché disciplinari ((Art. 36 codice deontologico.)). A quest’ultimo proposito, si ricorda tuttavia che il potere sanzionatorio dell’Ordine professionale può essere esercitato solo nei confronti dei propri iscritti ((Consiglio Nazionale Forense (Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere del 10 aprile 2013, n. 49; Consiglio Nazionale Forense (rel. Morlino), parere del 10 aprile 2013, n. 44; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Neri), sentenza del 15 ottobre 2012, n. 151.)), sicché le predette conseguenze di tipo disciplinare non possono che riguardare, evidentemente, solo quei soggetti che esercitino la professione in violazione di particolari limiti o divieti concernenti la propria iscrizione (si pensi all’avvocato non cassazionista, all’avvocato sospeso dall’albo, al praticante avvocato, ecc.).
Alla luce di questa sua funzione tipica ed essenziale, l’iscrizione all’albo non può avvenire per scopi diversi dall’esercizio della professione (come ad esempio “ai soli fini del titolo” ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Morgese), parere del 27 aprile 2005, n. 36; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 8 marzo 1988, n. 2336. A tal proposito, si ricorda infatti che, ai sensi dell’art. 2 L. n. 247/2012, l’uso del titolo di avvocato spetta esclusivamente chi si o sia stato iscritto all’albo (comma 7), fatta eccezione per chi non lo sia più perché radiato (comma 8).)), o per partecipare a determinati concorsi pubblici ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense, parere del 3 ottobre 2001, n. 138.))), tant’è vero che, peraltro a differenza di quanto stabiliva la previgente normativa ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Bianchi), parere del 28 maggio 2009, n. 16.)), gli iscritti all’albo hanno perciostesso l’obbligo (rectius, l’onere) -la cui osservanza deve naturalmente verificarsi in concreto ((Cfr. Cassazione Civile, sentenza del 28 novembre 1978, n. 5575, secondo cui l’iscrizione all’albo non prova, di per sé, l’esercizio effettivo della professione.))- di esercitare la professione in modo “effettivo, continuativo, abituale e prevalente” ((Cfr. art. 15, co. 1, lett. e), L. n. 247/2012. Oltre agli avvocati, sono altresì tenuti ad esercitare la professione, sebbene soltanto in circostanze speciali determinate dalla legge e per motivi di interesse generale, anche i medici, i notai e gli agenti di cambio: cfr. artt. 57 e 256 T.U. leggi sanitarie; art. 21 legge notarile; art. 11 D.L.L. 19 aprile 1946, n. 321: in arg. cfr. Roversi Monaco, op. cit., p. 156 ss.)), a pena di cancellazione dall’albo ((Art. 15, co. 4, L. n. 247/2012.)).
§ 2. Natura e funzioni dell’albo professionale.
L’albo professionale (denominato “ruolo” per talune professioni ((Cfr. artt. 16-18 legge notarile 16 febbraio 1913, n. 89. È anche il caso dei revisori ufficiali dei conti e dei mediatori. Anche gli agenti di cambio, prima che la L. 29 maggio 1967, n. 402, prevedesse che venissero organizzati in un “albo”, erano iscritti in un ruolo tenuto dalle camere di commercio.))) costituisce la prova documentale della legittimazione all’esercizio della professione da parte degli iscritti ((Cfr. Piscione, Professioni (disciplina delle), op. cit., 1045 ss.; Lega, Le libere professioni intellettuali, op. cit., p. 211 ss.)), e va perciostesso tenuto distinto da quegli elenchi privati di persone che esercitano una libera professione non riconosciuta ex lege, i quali non hanno infatti carattere ufficiale ((Cfr. Cass., sez. I, 18 giugno 1965, in Giur. it., 1966, I, 1, 65.)), ma solo e semplicemente un non necessario scopo divulgativo (come ad es. l’elenco, peraltro incompleto, degli agenti di assicurazione) ((Cfr. Cavallo, Lo status professionale. Parte speciale, Milano, 1969, p. 105 ss.; Catelani, op. cit., p. 33 ss.; Piras, op. cit., p. 83 ss.)). A differenza di tali meri elenchi, l’albo fa quindi presumere (iuris tantum) che i professionisti ivi iscritti siano in possesso di adeguata capacità professionale e morale ((Giannini (voce “Albo”, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1013 ss.)) (in quanto requisiti indispensabili per l’iscrizione all’albo) e, quindi, l’attendibilità e la serietà della loro attività ((Cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 135 ss.)).
Quanto al suo contenuto, l’albo è compilato secondo l’anzianità d’iscrizione dei relativi professionisti ((V. per tutti l’art. 3 DPR 5 aprile 1950, n. 221, al quale ci si è costantemente rifatti per tutte le professioni: cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 135 ss.)), di cui riporta, in ordine alfabetico, le generalità (cognome, nome, data e luogo di nascita, codice fiscale, recapiti di studio, data di iscrizione), in conformità alle risultanze anagrafiche dei registri dello Stato Civile ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)), perciò senza possibilità di indicare pseudonimi o diminutivi ((Consiglio Nazionale Forense, parere del 4 luglio 2001, n. 64.)), né aggettivazioni di sorta in caso di omonimia ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Picchioni), parere del 28 marzo 2012, n. 21, che ha infatti escluso la possibilità di distinguere due omonimi mediante l’attributo “senior”.)). Tale contenuto è pubblico ((Art. 15, co. 3, L. n. 247/2012. Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Allorio), parere del 22 maggio 2013, n. 50.)), quindi liberamente consultabile da chiunque ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)), anche attraverso il rilascio di certificati di iscrizione, a firma del segretario e del presidente del Consiglio dell’Ordine ((Cfr. Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi. Aspetti sostanziali e profili di tutela, Milano, 1996, p. 210.)).
Oltre alla suddetta funzione pubblicitaria, gli albi professionali consentono il controllo e la vigilanza che sui singoli iscritti viene esercitata dagli enti professionali e dalle pubbliche autorità ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)).
Anche in considerazione di tali sue funzioni informative e di controllo, l’albo è tenuto costantemente aggiornato ((Art. 15, co. 4 e 5, L. n. 247/2012.)), cioè sottoposto a revisione permanente, proprio al fine di verificare periodicamente se in capo agli iscritti permangano i requisiti (tecnici e morali) richiesti dalla legge per l’esercizio professionale. A fronte di tali periodiche revisioni dell’albo, la permanenza dell’iscrizione fa conseguentemente presumere (sempre iuris tantum) anche la permanenza dei requisiti in capo agli iscritti (che altrimenti sarebbero appunto cancellati).
Come pure nelle altre professioni, il numero dei posti contemplati dall’albo degli avvocati è aperto, ma può in astratto essere temporaneamente chiuso con Legge per motivi contingenti di sovraffollamento professionale ((Cfr. Lega, Ordinamenti professionali, cit., p. 9 ss., nonché Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)).
§ 2.1. Gli elenchi e registri annessi all’albo.
Annessi agli albi sono frequenti, in molte professioni intellettuali, particolari registri ed elenchi di coloro che hanno un esercizio più limitato e talvolta più esteso della professione ((Si pensi, ad esempio, all’elenco degli psicoterapeuti iscritti all’albo degli psicologi ex art. 3 L. n. 56/1989.)).
Con particolar riferimento alla professione forense, il nuovo Ordinamento espressamente affianca ((Art. 15 L. n. 247/2012.)) all’albo ordinario:
1) gli elenchi speciali degli avvocati dipendenti da enti pubblici ((Già art. 3 R.D.L. n. 1578/1933.)), la cui iscrizione presuppone il concorso di tre elementi imprescindibili: (i) deve esistere, nell’ambito strutturale dell’ente pubblico, un ufficio legale che costituisca un’unità organica autonoma; (ii) colui che richiede l’iscrizione – in possesso, ovviamente, del titolo abilitativo all’esercizio professionale (condictio facti soggettiva) – faccia parte dell’ufficio legale e sia incaricato di svolgervi tale attività professionale, limitatamente alle cause ed agli affari propri dell’ente; infine, (iii) la destinazione del dipendente-avvocato a svolgere l’attività professionale presso l’ufficio legale deve realizzarsi mediante il suo stabile inquadramento ((Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Allorio), sentenza del 29 novembre 2012, n. 158; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Berruti), sentenza del 27 novembre 2009, n. 133, nonché Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 19 ottobre 1998, n. 10367.));
2) gli elenchi degli avvocati specialisti ((Cfr. artt. 9 e 29 co. 1 lett. e L. n. 247/2012.));
3) l’elenco speciale dei docenti e ricercatori, universitari e di istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici, a tempo pieno ((Art. 19, co. 2, L. n. 247/2012.));
4) l’elenco degli avvocati sospesi dall’esercizio professionale per qualsiasi causa (che deve essere indicata) o cancellati per mancanza dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione;
5) l’elenco degli avvocati che hanno subìto provvedimento disciplinare non più impugnabile, comportante la radiazione;
6) il registro dei praticanti;
7) l’elenco dei praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo, allegato al registro di cui sopra;
8) la sezione speciale dell’albo degli avvocati stabiliti ((Cfr. art. 6 D.Lgs. n. 96/2001.)), che abbiano la residenza o il domicilio professionale nel circondario;
9) l’elenco delle associazioni e delle società comprendenti avvocati tra i soci, con l’indicazione di tutti i partecipanti, anche se non avvocati;
10) l’elenco degli avvocati domiciliati nel circondario ((Cfr. art. 7, co. 3, L. n. 247/2012.));
11) l’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori ((Cfr. art. 22 L. n. 247/2012, già art. 33 RDL n. 1578/1933.)), che è unico per tutto lo Stato ed è tenuto dal Consiglio Nazionale forense. Ad esso si può essere iscritti per esame, di diritto (professori universitari ed ex magistrati con determinate qualità), o per anzianità di esercizio professionale ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Morlino), parere del 20 giugno 2012, n. 44, secondo cui “Ai fini del computo dei dodici anni di anzianità di esercizio professionale di cui all’art. 33 della Legge professionale non può essere ricompreso il periodo di tirocinio”.));
12) ogni altro albo, registro o elenco previsto dalla legge o da regolamento.
Fino a poco tempo fa esisteva inoltre l’albo dei procuratori legali, ora soppresso ((L. 24 febbraio 1997, n. 27.)).
§ 3. I requisiti per l’iscrizione nell’albo.
Ai fini dell’iscrizione all’albo professionale, il Consiglio dell’Ordine deve accertare in capo al richiedente l’iscrizione la presenza di determinati requisiti, ai quali l’ordinamento subordina l’esercizio della libera professione.
A tal proposito, il nuovo Ordinamento forense espressamente stabilisce ((Art. 17, co. 1, L. n. 247/2012.)) che costituiscono requisiti per l’iscrizione all’albo:
a) essere cittadino italiano o di Stato appartenente all’Unione europea (salvo quanto previsto per gli stranieri cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea);
b) avere superato l’esame di abilitazione;
c) avere il domicilio professionale nel circondario del tribunale ove ha sede il consiglio dell’ordine;
d) godere del pieno esercizio dei diritti civili;
e) non trovarsi in una condizione di incompatibilità ((Art. 18 L. n. 247/2012.));
f) non essere sottoposto ad esecuzione di pene detentive, di misure cautelari o interdittive;
g) non avere riportato condanne per i reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e per quelli previsti dagli articoli 372, 373, 374, 374-bis, 377, 377-bis, 380 e 381 del codice penale;
h) essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense.
Di tali requisiti tratteremo in dettaglio nei paragrafi che seguono.
§ 3.1. Il requisito della cittadinanza (europea), salvo eccezioni.
Mentre le altre attività lavorative sono, in linea di massima, aperte a tutti, l’esercizio della professione di avvocato non è invece consentito a chiunque, ma -in analogia con quanto previsto nel pubblico impiego, quale diretta conseguenza della rilevanza pubblicistica delle funzioni esercitate ((Cfr. Catelani, op. cit., p. 146 ss.))- solo a coloro che siano cittadini italiani o di uno Stato dell’Unione Europea ((V. Titolo III, Capo I, artt. 48-51, del Trattato CEE firmato a Roma il 25 marzo 1957, come modificato dall’Atto Unico Europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 e all’Aia il 28 febbraio 1986 (entrato in vigore il 1° luglio 1987). Cfr. art. 7, lett. a, ordinamento psicologi, e art. 27, lett. a, ordinamento tecnologi alimentari.)).
Allo straniero privo della cittadinanza italiana o di altro Stato appartenente all’Unione europea l’iscrizione all’albo è infatti consentita esclusivamente: a) se abbia conseguito il diploma di laurea in giurisprudenza presso un’università italiana e abbia quindi superato l’esame di Stato, o se abbia conseguito il titolo di avvocato in uno Stato membro dell’Unione europea; b) se regolarmente soggiornante in possesso di un titolo abilitante conseguito in uno Stato non appartenente all’Unione europea, nei limiti delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato ((Art. 3, co. 4, D.Lgs. 286/1998 – Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.)), previa documentazione del riconoscimento del titolo abilitativo rilasciato dal Ministero della giustizia e del certificato del CNF di attestazione di superamento della prova attitudinale ((Art. 17, co. 2, L. n. 247/2012.)).
§ 3.2. L’esame di Stato, salvo eccezioni.
In conformità a quanto espressamente previsto dalla Costituzione ((Art. 33, co. 5, Cost.: “È prescritto un esame di Stato […] per l’abilitazione all’esercizio professionale”.)), per l’esercizio della professione di avvocato occorre (di regola) aver superato il relativo esame di Stato ((Art. 46 L. n. 247/2012.)), il quale è appunto requisito necessario (ma non sufficiente ((Cfr. Corte di cassazione, sentenza n. 646/2014, secondo cui integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato ex art. 348 c.p. la condotta di chi, conseguita l’abilitazione statale, eserciti l’attività professionale senza aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale.))) a controllare che il candidato possegga quella necessaria preparazione teorica-pratica destinata a costituire il bagaglio delle cognizioni che servono per l’esercizio di fatto della professione ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 225 ss.)).
Per accedere all’esame di Stato, il candidato deve essere in possesso:
a) del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito a seguito di corso universitario di durata non inferiore a quattro anni ((Art. 2, co. 3, L. n. 247/2012. Tale titolo può essere autocertificato: Consiglio Nazionale Forense, parere del 4 luglio 2001, n. 71. Si noti che per la professione di giornalista e di agente di cambio non invece è indicato espressamente alcun titolo di studio (v. rispettivamente artt. 29 e 31 L. 69/1963, cit. e art. 1 L.402/1967); cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 88 ss.)). Si consideri che non costituisce titolo idoneo a sostenere l’esame di stato la laurea “honoris causa”, che infatti “è un riconoscimento esclusivamente onorifico, privo degli effetti della laurea rilasciata dalle Università a conclusione di un percorso pluriennale di studi e sulla base del superamento dei prescritti esami; pertanto, essa non può essere considerata titolo idoneo all’iscrizione nel Registro dei Praticanti e/o nell’Albo degli Avvocati ((Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere 25 settembre 2013, n. 96.)).
b) del certificato di compiuto tirocinio ((Art. 45, co. 3, L. n. 247/2012.)).
§ 3.2.1. L’iscrizione di diritto all’albo.
Possono essere iscritti di diritto all’albo ((Art. 2, co. 3, L. n. 247/2012.)), cioè senza bisogno di superare l’esame di Stato:
a) coloro che hanno svolto le funzioni di magistrato ordinario ((Ai vice procuratori onorari (VPO), ai GOT, ai Giudici di Pace e ai magistrati onorari in genere non spetta, invece, l’iscrizione di diritto all’albo forense: Consiglio Nazionale Forense (rel. Florio), parere del 21 luglio 2010, n. 46; Consiglio Nazionale Forense (rel. Florio), parere del 9 luglio 2008, n. 33; Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Bulgarelli), sentenza del 22 aprile 2008, n. 32; Cassazione Civile, SS.UU., 4 aprile 2008, n. 8737; Consiglio Nazionale Forense (rel. Petiziol), parere del 9 maggio 2007, n. 14; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Cricrì, rel. Martuccelli), sentenza del 21 novembre 2006, n. 128; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 02 giugno 1997, n. 4905; Cassazione Civile, sez. Unite, 29 marzo 2011, n. 7099.)), di magistrato militare ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 17 giugno 1981, n. 3946.)), di magistrato amministrativo o contabile ((Al componente della Commissione Tributaria non spetta, invece, l’iscrizione di diritto all’albo forense: Cassazione Civile, sez. Unite, 8 agosto 2011, n. 17068; Consiglio Nazionale Forense (pres. ALPA, rel. SICA), sentenza del 16 marzo 2010, n. 1.)), o di avvocato dello Stato, e che abbiano cessato le dette funzioni senza essere incorsi nel provvedimento disciplinare della censura o in provvedimenti disciplinari più gravi;
b) i professori universitari di ruolo, dopo cinque anni di insegnamento di materie giuridiche ((Ai docenti della scuola di polizia non spetta, invece, l’iscrizione di diritto all’albo forense: Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Baffa), sentenza del 7 marzo 2012, n. 49; Consiglio Nazionale Forense (pres. Buccico, rel. Sgromo), sentenza del 14 novembre 2000, n. 162; Cassazione Civile, sentenza del 11 gennaio 1997, n. 192; Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Rossi), sentenza del 5 dicembre 1994, n. 140.)).
§ 3.3. Il requisito del domicilio (o della residenza).
Il previgente Ordinamento forense prevedeva che, per ottenere l’iscrizione all’albo, gli avvocati dovessero necessariamente risiedere “nella circoscrizione del Tribunale nel cui albo l’iscrizione è domandata” ((Art. 27 RDL n. 1578/1933; Consiglio Nazionale Forense, parere del 4 luglio 2001, n. 73.)). Oltre che per l’iscrizione all’albo, la residenza era altresì requisito anche per mantenere l’iscrizione stessa dopo averla ottenuta; in particolare, l’avvocato che intendeva trasferire altrove la propria residenza, aveva l’onere di chiedere il trasferimento dell’iscrizione presso l’Ordine della circoscrizione della nuova residenza, prima ancora di aver ottenuto la nuova iscrizione e di essersi effettivamente trasferito trasferiva la propria residenza, pena appunto la cancellazione d’ufficio dall’albo ((Art. 37 n. 4 RDL n. 1578/1933; Cass., SS.UU., n. 9292 del 9 novembre 1994, in Rep. Foro it., 1994, voce “Professioni intellettuali”, n. 44; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 28 giugno 1976, n. 2421; Cass., SS.UU., 28 giugno 1976, n. 2421, in Giust. civ., 1976, I, p. 1411. Cfr. Piras, op. cit., p. 98 ss. V. pure l’art. 37 L. 69/1963, il quale prevede, per i giornalisti, che, qualora cambino residenza, devono chiedere il trasferimento nell’albo del luogo della nuova residenza, pena la cancellazione dall’albo.)).
Successivamente, ai fini dell’iscrizione agli albi, elenchi e registri, la legge 21 dicembre 1999 n. 526 ha equiparato il domicilio professionale alla residenza, che sono pertanto diventati requisiti tra loro alternativi ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Alpa, rel. Cricrì), sentenza del 12 dicembre 2001, n. 272.)). Pertanto, la cancellazione dall’albo può ora avvenire solo se il professionista risulti senza residenza né domicilio professionale nell’ambito della circoscrizione di competenza del Consiglio che custodisce l’albo presso cui il professionista stesso risulta iscritto ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Berruti), sentenza del 7 maggio 2013, n. 66; v. pure artt. 31 e 37, co. 1 n. 3, RDL n. 1578/1933.)).
In ogni caso, a prescindere dal luogo di residenza o domicilio, gli avvocati possono esercitare la professione in tutto il territorio dello Stato ((Art. 2, co. 3, L. n. 247/2012, già art. 4 RDL n. 1578/1933; cfr. pure Piscione, ult. cit., p. 66 ss.)).
§ 3.4. Il godimento dei diritti civili e politici e l’assenza di precedenti penali specifici.
Altri requisiti per l’iscrizione all’albo sono l’assenza di specifici precedenti penali, tassativamente indicati dalla legge ((L’art. 17, co. 1, L. n. 247/2012 fa espresso riferimento ai reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e per quelli previsti dagli articoli 372, 373, 374, 374-bis, 377, 377-bis, 380 e 381 del codice penale.)), che si dimostra mediante autocertificazione o con la presentazione del certificato generale del casellario giudiziario ((Cfr. Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 66 ss.)), nonché il godimento dei diritti civili e politici ex art. 415 cod. civ.
Con riferimento a quest’ultimo requisito, non può pertanto essere (o restare) iscritto all’albo degli avvocati, l’interdetto o inabilitato ((Cassazione Civile, sentenza del 10 settembre 2004, n. 18261.)) così come il fallito ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Danovi, rel. Caddeo), sentenza del 11 novembre 1998, n. 145.)). In ogni caso, la cancellazione dall’albo professionale disposta per sopravvenuto venir meno del requisito del godimento dei diritti civili e politici non ha carattere di sanzione disciplinare e non è pertanto soggetta alle relative formalità: essa ha infatti valore di pronuncia di accertamento del venir meno dei requisiti in base ai quali si era inizialmente proceduto all’iscrizione nell’albo ((Cass., SS.UU., n. 2129 del 11 aprile 1981, in Rep. Foro it., 1981, voce “Professioni intellettuali”, n. 21 e id., id., n. 7937 del 6 agosto 1980 (pronunce entrambe rese con riferimento ad una fattispecie in cui era intervenuta dichiarazione di fallimento).)).
§ 3.5. Il requisito della buona condotta.
Sebbene la condotta morale non sia presa in considerazione ai fini dell’iscrizione agli albi professionali di più recente istituzione ((Cfr. art. 7 L. 18 febbraio 1989 n. 56, relativa alla professione di psicologo, e art. 27 L. 18 gennaio 1994 relativa alla professione di tecnologo alimentare. Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi, Milano, 1996, p. 203 ss.)) (ove, tuttavia, continua a rilevare con riferimento alla permanenza dell’iscritto nell’albo stesso ((V. art. 26 legge professionale dei tecnologi alimentari, e art. 31 legge professionale degli psicologi.))), la buona condotta rimane invece un imprescindibile requisito per la restante totalità delle professioni ((Cfr. l’art. 31, co. 2, L. 69/1963, relativo ai giornalisti; l’art. 9 ordinamento sanitari; art. 3, lett. e, L. 12/1979, relativo ai consulenti del lavoro; l’art. 5, n. 2, L. 89/1913, relativo ai notai; l’art. 5, lett. c, L. 396/1967 relativo ai biologi; l’art. 5, lett. c, L. 112/1963, relativo ai geologi; l’art. 31, n. 3, D.P.R. 1067/1953, relativo ai commercialisti; l’art. 14 ordinamento attuari; l’art. 2 L. 897/1938, relativo agli ingegneri.)), tra cui quella di avvocato, ove è appunto espressamente prevista la condotta “irreprensibile” ((Art. 17, co. 1, lett. h, L. n. 247/2012.)), già detta “specchiatissima ed illibata” ((Art. 17, n. 3, RDL n. 1578/1933.)).
L’accennata modificazione terminologica non ha tuttavia inciso sul contenuto sostanziale del requisito in parola ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Salazar), sentenza del 9 maggio 2013, n. 75.)), con ci si continua a riferire sia all’aspetto professionale che alla vita privata ((Cfr. Piras, op. cit., p. 98 ss.; Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 66 ss.)), giacché compito dell’ordine professionale e del Consiglio Nazionale ((Cfr. Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 4 maggio 2004, n. 8429, secondo cui il requisito della “condotta irreprensibile”, al fine dell’iscrizione nell’albo degli avvocati, può essere autonomamente accertato e valutato dal Consiglio Nazionale Forense, anche in base ad elementi diversi da quelli posti dal Consiglio dell’Ordine a fondamento della decisione impugnata, con utilizzazione altresì di fonti di prova sorte anche dopo quest’ultima, atteso che il predetto Consiglio Nazionale è giudice anche del merito, non soltanto di legittimità.)), chiamati a valutarla, è appunto quello di tutelare la professione nel decoro e nel prestigio, che sono evidentemente collegati alla complessiva condotta morale degli iscritti, senza che ciò comporti peraltro contrasto con gli artt. 2, 3 e 4 Cost. ((Cfr., tra le altre, Cass. SS.UU. n. 12016 del 1991, in Rep. Foro it., 1991, voce “Avvocato”, nn. 34 e 38 e id., id., n. 13005 del 1992, in Rep. Foro it., 1992, voce “Avvocato”, nn. 51 e 64 e voce “Professioni intellettuali”, n. 56.)).
Per tali motivi, la sussistenza del requisito della irreprensibilità è quindi da ritenersi esclusa in presenza di condotte dell’interessato che, ponendosi in contrasto con la disciplina positiva o con le regole deontologiche della professione forense, siano idonee (anche per la loro natura, la non occasionalità e la prossimità alla data in cui il requisito viene in gioco) ad incidere negativamente sull’affidabilità del professionista in ordine al corretto esercizio dell’attività forense ((Cfr. Cass. Civile, SS.UU., sentenza n. 10137/2004; Corte cost., sentenza n. 311/1996.)).
In ogni caso, al fine di evitare che la valutazione del requisito della buona condotta dia luogo ad arbìtri, si richiede che essa sia rigorosa, ovvero tale da fondare il diniego dell’iscrizione (o la cancellazione dall’albo) soltanto quando vi siano fatti specifici che inducono a ritenere con sicurezza che il privato non sia persona moralmente idonea ad esercitare la professione: deve trattarsi, cioè, non di fatti la cui valutazione dia luogo ad incertezze, bensì di circostanze obiettivamente valutabili, e l’obiettività della valutazione deve riguardare non soltanto i fatti, in sé considerati, che si addebitino al privato, ma anche la loro idoneità a pregiudicare il corretto esercizio della professione ((Cfr. Catelani, op. cit., p. 146 ss.)).
A tal fine, tuttavia, la valutazione in sede deontologica della condotta ai fini dell’iscrizione all’albo professionale può prescindere dall’eventuale valutazione che della condotta stessa si sia fatta o si stia facendo in sede penale ((Cfr. Cass. Civile, SS.UU., sentenza n. 10137/2004; Corte cost., sentenza n. 311/1996.)). Da un lato, infatti, in sede di iscrizione all’albo, alcun rilievo può attribuirsi, ai fini della ritenuta sussistenza del requisito della requisito della “condotta irreprensibile”, alla circostanza che i contegni ascrivibili al richiedente siano condotte criminose risalenti per le quali sia stata concessa riabilitazione, la quale, infatti, pur estinguendo le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, non impedisce l’operatività delle ulteriori conseguenze prodottesi autonomamente sul piano amministrativo, quali la valutazione dei requisiti soggettivi occorrenti per l’iscrizione o quelle di tipo disciplinare, né vale ad escludere la storicità dei fatti e la loro negativa valenza in ordine alla considerazione dell’affidabilità del soggetto in relazione alla previsione della sua inclinazione ad un corretto svolgimento della professione forense ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Picchioni), sentenza del 9 settembre 2011, n. 137.)); dall’altro lato, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva, posta dall’art. 27, co. 2, Cost. non osta a che i fatti materiali addebitati all’aspirante avvocato nel processo penale possano comunque essere valutati negativamente ai fini dell’iscrizione all’albo ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 9 novembre 1994, n. 9291.)).
§ 3.6. L’assenza di incompatibilità.
V. art. 6 codice, cui si rinvia.
§ 4. L’atto di iscrizione all’albo.
Per espressa previsione normativa, l’avvocato può essere iscritto in un solo albo forense ((Art. 17, co. 5, L. n. 247/2012; in dottrina, cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 88 ss.)); invece, per quanto riguarda le iscrizioni plurime in più albi di differenti professioni, sebbene alcuni ritengano che siano “in generale, vietate” ((Lega, Ordinamenti professionali, cit., p. 9 ss.)), non si rinviene un divieto legislativo altrettanto esplicito in tal senso.
La domanda di iscrizione all’albo, corredata dai documenti comprovanti il possesso dei requisiti richiesti, è rivolta al Consiglio dell’Ordine del Circondario nel quale il richiedente intende stabilire il proprio domicilio professionale ((Art. 17, co. 6., L. n. 247/2012.)). Nei successivi trenta giorni, accertata la sussistenza dei requisiti e delle condizioni di Legge, il Consiglio provvede alla iscrizione ((Art. 17, co. 6., L. n. 247/2012.)).
Con riferimento alla natura di tale atto, in dottrina non si registra una uniformità di opinioni: alcuni autori ritengono infatti che si tratti di una autorizzazione ((Cfr. Teresi, op. cit., p. 454.)), altri di una ammissione ((Cfr. Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 48 ss.; cfr. Piscione, Professioni (disciplina delle), cit., p. 1040 ss.; cfr. Roversi Monaco, op. cit., p. 156 ss.; cfr. Zanobini, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in Primo trattato di diritto amministrativo (a cura di Orlando), II, parte terza, Milano, p. 338 ss.; cfr. Catelani, op. cit., p. 138.)), altri ancora di un accertamento ((Cfr. Pergolesi, op. cit., p. 423 ss.; cfr. Giuliano, Ordini ed albi professionali. La retribuzione ai professionisti di fatto, Roma, 1960, p. 83; cfr. Lega, Ordinamenti professionali, cit., p. 6 ss.; Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 255 ss.; cfr. Piras, op. cit., p. 67 ss.)), ed infine altri di un atto dichiarativo ((Cfr. Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi, Milano, 1996, p. 201 ss.)).
In giurisprudenza, invece, dopo le non uniformi pronunce del passato ((Secondo un risalente orientamento, infatti, il provvedimento di iscrizione nell’albo sarebbe un “atto di ammissione previo accertamento delle condizioni di legge”: cfr. Cass. Sez. I, 31 ottobre 1958, n. 3599, in Mass. Foro it., 1958, p. 743; Cass., S. U., 8 marzo 1955, n. 690, in Mass. Giur. it., 1955, p. 157; Cass., S. U., 6 ottobre 1954, n. 3350, ivi, 1954, p. 749; Cass., S. U., 11 luglio 1955, n. 2199, in Giust. Civ., 1955, I, p. 83; Cass., S. U., 7 ottobre 1964, n. 2544, in Temi nap., 1964, I, p. 470. Secondo un altro orientamento il provvedimento di iscrizione negli albi professionali avrebbe natura dichiarativa ed i suoi effetti retroagirebbero al momento del verificarsi della condizione per l’acquisizione dello status professionale: cfr. Cass., S.U., 1680/1959, in Mass. Giur. lav., 1959, p. 207. Secondo un altro orientamento ancora l’atto di iscrizione all’albo professionale si configurerebbe come autorizzazione basata su una scelta discrezionale (in base a valutazioni motivate sulla corrispondenza delle condizioni richieste volta per volta dalla legge e gli interessi pubblici generali che la potestà autorizzativa vuole tutelare): cfr. Cass., sez. I, n. 2658 del 1974, in Mass. Foro It., 1974, c. 628; Cass., S.U., 25 novembre 1981 n. 6252, in Foro it., 1982, I, cc. 1633.)), da qualche anno si è raggiunta una certa costanza di indirizzo, secondo cui l’iscrizione negli albi professionali è da definirsi come atto di accertamento costitutivo dello status professionale ((Cfr. Cass. Civile, sez. I, 23 settembre 2009, n. 20436; Cass., SS.UU., 20 ottobre 1993, n. 10382, in Foro it., 1994, I, c. 427; id., 30 dicembre 1991, n. 14021, ivi, 1992, I, c. 349; id., sez. lav., 13 settembre 1991, n. 9570, in Mass. Foro it., 1991, c. 864; id., SS.UU., 4 maggio 1991, n. 4940, ivi, 1991, c. 418; id., ord. 14 febbraio 1990, n. 84, in Foro it., 1990, I, c. 864; id., sez. lav., 4 aprile 1987, n. 3296, in Mass. Foro it., 1987, c. 565; id., 10 gennaio 1987, n. 109, ivi, 1987, c. 20; id., 29 giugno 1984, n. 3849, in Foro it., 1984, I, c. 2147; id., SS.UU., 17 giugno 1982, n. 3675, in Mass. Foro it., 1982, c. 770; id., 25 novembre 1981, n. 6252, in Foro it., 1982, I, c. 1633; Cass. Civile, sentenza del 28 novembre 1978, n. 5575.)).
In quanto tale, gli effetti di tale atto costitutivo non retroagiscono al momento della domanda ((Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere del 28 settembre 2012, n. 56; Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Casalinuovo), sentenza del 20 marzo 1995, n. 33.)), ma decorrono dalla data della deliberazione con cui il Consiglio dell’Ordine ha ordinato l’iscrizione nell’albo (elenco o registro), vale a dire dal momento stesso della perfezione dell’atto ((In tal senso cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Giorgino), sentenza del 22 aprile 1996, n. 62; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Cagnani, rel. Diego), sentenza del 29 novembre 1995, n. 142; Consiglio Nazionale Forense (pres. Cagnani, rel. Siciliano), sentenza del 27 novembre 1989, n. 159.)). Conseguentemente, pone in essere un comportamento penalmente e disciplinarmente rilevante il professionista che eserciti la professione nelle more dell’iscrizione all’albo ((Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Di Benedetto), sentenza del 5 ottobre 1996, n. 120; Corte di cassazione, Sez. Penale, sentenza n. 646/2014.)).
L’accennata irretroattività, tuttavia, non è assoluta: infatti, nel caso in cui la domanda di iscrizione sia stata rigettata con decisione del COA poi riformata dal CNF in sede di impugnazione, gli effetti dell’iscrizione retroagiscono alla data di (ingiusto) diniego da parte del COA territoriale ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Cagnani, rel. Diego), sentenza del 29 novembre 1995, n. 142.)).
§ 4.1. Il rigetto della domanda di iscrizione all’albo.
Sulla domanda di iscrizione, il Consiglio dell’Ordine provvede entro trenta giorni ((Secondo l’art. 31 RDL n. 1578/1933 – “vecchio” Ordinamento forense, tale termine era di tre mesi.)) con deliberazione motivata da notificarsi entro quindici giorni all’interessato, il quale può presentare entro venti giorni dalla notificazione, ovvero -qualora il consiglio non abbia provveduto sulla domanda nel citato termine di trenta giorni ((Detto termine ha carattere perentorio e non è suscettibile di interruzione mediante una lettera di convocazione: Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 23 dicembre 1997, n. 13022.))- entro dieci giorni dalla scadenza di tale termine, ricorso al CNF, che decide sul merito dell’iscrizione con provvedimento immediatamente esecutivo ((Art. 17, commi 6 e 7, L. n. 247/2012.)).
Alla luce di tale disciplina deve quindi ritenersi che, ove il Consiglio territoriale non provveda sulla domanda entro il predetto termine, non operi (più) il meccanismo del c.d. silenzio-assenso, a differenza di quanto avveniva in passato ((In arg. cfr. Consiglio Nazionale Forense (Pres. Alpa, Rel. Pasqualin), sentenza del 27 dicembre 2012, n. 195; In senso conforme, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Perfetti), sentenza del 15 dicembre 2011, n. 181, secondo cui “In tema di iscrizione all’Albo degli Avvocati, nella disciplina novellamente modificata dagli artt. 45, 49 segg. del D. lgs. n. 59/10, va ravvisata l’avvenuta formazione del silenzio assenso qualora, entro due mesi dalla presentazione della domanda di iscrizione, non sia intervenuto alcun provvedimento di accoglimento o di rigetto. Dopo tale momento, peraltro, resta preclusa l’adozione, in ordine alla medesima domanda, di una seconda decisione che assuma – come nella specie – la veste di atto espresso di diniego, avendo esaurito il consiglio territoriale, all’epoca della pronuncia negativa impugnata, il suo potere provvedimentale al riguardo. Il che non toglie, peraltro, che l’ente conservi pur sempre il potere di autotutela anche con riguardo al provvedimento formatosi col meccanismo del silenzio assenso, in conformità a quanto previsto dall’art. 20, co. 3, l. n. 241/1990.)).
§ 4.1.1. La comparazione con le altre professioni.
Mancando, nelle altre professioni, una analoga disciplina a quella appena vista in ambito forense per il caso di rigetto espresso o tacito della domanda di iscrizione, ci si chiede quali quali siano i rimedi offerti al soggetto richiedente l’iscrizione stessa.
Al fine di rispondere a tal domanda occorre preliminarmente chiarire se la valutazione dei requisiti per l’iscrizione possa o non possa essere dall’ente professionale adito valutata discrezionalmente (e se sì, di che discrezionalità si tratti). Infatti, a seconda della soluzione adottata, derivano infatti importanti conseguenze circa il rapporto giuridico intercorrente tra il soggetto che richiede l’iscrizione e l’ente professionale adito, da una parte; e circa l’individuazione del giudice competente a risolvere le controversie inerenti alla iscrizione all’albo ed ai poteri da quest’ultimo esercitabili, dall’altra giacché -com’è noto- “va affermata la giurisdizione dell’a.g.o. ogni qualvolta l’interessato faccia valere una posizione di diritto soggettivo – a meno che non sia legislativamente affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – mentre va dichiarata la giurisdizione di legittimità di quest’ultimo quando la posizione del privato sia di interesse legittimo ((Cass., S.U., n. 1620 del 21 febbraio 1997.)).
Ebbene, pur non senza qualche voce dissonante ((Cfr. Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 48 e ss., secondo cui l’atto di iscrizione avrebbe natura discrezionale.)), si ritiene che l’iscrizione all’albo “non implica mai esercizio di potere amministrativo discrezionale in senso proprio, richiedendo invece tutt’al più valutazioni di carattere tecnico-deontologico” ((Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi, cit., p. 204.)), “anche con riferimento all’accertamento della buona condotta, che non comporta alcun apprezzamento discrezionale, rispetto al quale la posizione dei soggetti coinvolti possa configurarsi come interesse legittimo” ((Cass., S.U., 29 aprile 1988 n. 3259, in Mass. Foro it., 1988, c. 482.)), sicché “l’iscrizione nell’albo professionale resta sottratta a scelte o valutazioni discrezionali dei competenti organi dell’ordine professionale, configurandosi come atto dovuto in virtù del positivo riscontro del possesso da parte dell’istante di determinati requisiti fissati dalla legge” ((Cassazione, S.U., n. 3844 del 5 settembre 1989, in Rep. Foro it., 1989, voce “Professioni intellettuali”, n. 69.)). Da ciò consegue che, sempre con riferimento alle professioni diverse da quella d’avvocato, e precisamente per quelle nelle quali manca cioè il suddetto meccanismo impugnatorio avanti al CNF, deve quindi concludersi che in materia sussista la giurisdizione del giudice ordinario al quale spetta di provvedere con pienezza di poteri e anche con pronuncia di condanna ad eseguire l’iscrizione ((Cassazione, SS.UU., del 7 ottobre 1983 n. 5837, in Rep. Foro it., 1983, voce “Professione intellettuale”, n. 39; id., del 14 ottobre 1983 n. 5998, ivi, 1983, voci “Giurisdizione civile”, n. 133, “Professioni intellettuali”, 38, “Provvedimenti d’urgenza”, n. 111; id., del 29 aprile 1988 n. 3259, ivi, 1988, voce “Professione intellettuale”, n. 52; Cass., S.U., n. 1620 del 21 febbraio 1997; Cass., S.U., 16 marzo 1978 n. 1322, in Rep. Foro it., 1978, voce “Professioni intellettuali”, nn. 58 e 59; id., id., 14 ottobre 1983 n. 5998, ivi, 1983, voci “Giurisdizione civile”, n. 133, “Professioni intellettuali”, n. 38, “Provvedimenti d’urgenza”, n. 111; id., id., 23 febbraio 1990 n. 1399, ivi, 1990, voci “Cassazione civile”, n. 12, “Impugnazioni civili”, n. 10, “Professioni intellettuali”, nn. 51-54.)). Né potrebbe essere altrimenti, perché lo svolgimento di una qualunque attività professionale è espressione della generale situazione di libertà assicurata dall’ordinamento italiano ad ogni cittadino (art. 4 cost.), in ordine alla scelta del lavoro. Può accadere che in un dato momento storico, certe attività, prima liberamente esercitabili, sembrino bisognose di una regolamentazione nell’interesse generale e vengano perciò consentite soltanto a chi dimostri di essere capace e degne di esercitarle. Ma qualunque diritto, appunto perché tale e non puro arbitrio o irrilevante possibilità di agire, richiede di essere ancorato a determinati presupposti e circoscritto entro certi limiti; l’importante è che ove ricorrano i presupposti e siano osservati i limiti esso possa pienamente esercitarsi ((Cass. n. 2994 del 1991)).
In defintiva, poiché il compito riconosciuto all’Ordine professionale di stabilire la validità della certificazione prodotta dal richiedente al fine del legittimo esercizio dell’attività di psicoterapeuta non implica valutazioni di carattere amministrativo, ossia scelte del comportamento più rispondenti all’interesse pubblico, ma solo l’individuazione di circostanze senza alcun margine di discrezionalità ma esclusivamente di c.d. discrezionalità “tecnica”, si deve, quindi, ritenere che la tutela giurisdizionale delle ragioni di colui che chieda l’iscrizione all’albo spetti al giudice ordinario (istituzionalmente competente in tutte le controversie su diritti soggettivi ex art. 2907 c.c. e 1 c.p.c.), al quale spetta di provvedere con pienezza di poteri e quindi anche con pronunce di condanna a consentire l’esercizio, in quanto –si faccia attenzione su questo punto– “non gli sono opponibili i noti limiti che la l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, ha posto a salvaguardia dell’attività discrezionale amministrativa” ((In tal senso, Cassazione n. 8633 del 3 ottobre 1996 (in Rep. Foro it., 1996, voce “Professioni intellettuali”, n. 86), n. 9654 del 6 novembre 1996 (ivi, 1996, voce “Procedimento civile”, n. 65), nelle quali si fa riferimento a “pronunce di condanna ad eseguire l’iscrizione”. V. pure Cass., SS.UU., n. 5802 del 25 maggio 1995, in Rep. Foro it., 1995, voce “Professioni intellettuali”, n. 81; Cass., SS.UU., 20 marzo 1991 n. 2994, ivi, 1991, voce id., n. 74; Cass., SS.UU., 23 dicembre 1991 n. 13866, ivi, 1991, voce id., n. 73; Cass., SS.UU., 21 gennaio 1992 n. 682, ivi, 1992, voce id., n. 44; Cass., SS.UU., 20 febbraio 1992 n. 2096, ivi, 1992, voce id., n. 45; Cass., SS.UU., 7 dicembre 1992 n. 12966, ivi, 1992, voce id., nn. 47-49 e 51; Cass., SS.UU., 7 dicembre 1992 n. 12982, ivi, 1992, voce id., nn. 50 e 52; Cass., SS.UU., 15 luglio 1993 n. 7839, ivi, 1993, voce id., n. 65; Cass. 2 maggio 1994 n. 4189 (non massimata).)).
In sostanza, il Consiglio dell’Ordine cui venga presentata domanda d’iscrizione deve limitarsi ad accertare l’esistenza nel soggetto dei requisiti prescritti all’uopo dalla legge, e, una volta che li abbia verificati, deve accogliere la domanda ((In questo senso l’iscrizione sarebbe atto dovuto. Cfr., sul punto, Teresi, op. cit., p. 454, e Gotti, op. cit., p. 201 ss. Secondo quest’ultimo autore: “il possesso dei requisiti tassativamente prescritti dalla legge (…) è condizione necessaria e sufficiente per ottenere l’iscrizione la quale deve essere disposta se quei requisiti sussistono e deve essere invece negata nel caso contrario”.)). In mancanza, trattandosi di diritto soggettivo e non di mero interesse legittimo, sarà possibile adire il giudice ordinario, il quale (come evidenziato nelle citate sentenze) può addirittura condannare l’ente professionale ad eseguire l’iscrizione ((Dall’impostazione seguita nel testo e confortata dall’unanime giurisprudenza della Suprema Corte si discosta nettamente l’opinione del Consiglio di Stato (sez. IV, n. 1212 del 20 ottobre 1997, in Foro it., 1998, n. 2, III, 45, ed in Giorn. dir. amm., n. 4, 1998, p. 331 ss., con nota di Daria de Pretis), con riferimento alla sola, “diversa questione relativa all’individuazione del giudice competente a definire la controversia relativa al diniego di ammissione alla sessione riservata di esami per titoli, preordinata all’acquisizione del titolo che, nella fase transitoria abilita all’iscrizione all’albo degli psicologi” ex art. 33 della legge n. 56 del 18 febbraio 1989 (ordinamento della professione di psicologo). In tale ipotesi, secondo il Consiglio di Stato, “la controversia rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, comportando una questione di discrezionalità tecnica e non di accertamento tecnico”. A parte questa “ribellione” alla Suprema Corte, il Consiglio di Stato (in armonia con la Corte di Cassazione) ritiene che nelle ipotesi di controversie professionali che non ricadano nell’applicazione dell’art. 33 cit. (e quindi che non riguardino la sessione speciale di esame di Stato disposta come prima applicazione della legge professionale psicologi) “il problema dell’iscrizione nell’albo professionale (…) è sempre condizionato, nella sua soluzione, al riscontro dell’esistenza dei requisiti rigidamente e tassativamente preordinati dalla legge senza che, sul punto, possano residuare spazi per valutazioni discrezionali della pubblica amministrazione e pertanto, vertendosi in materia di diritti soggettivi, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario” (cfr., su quest’ultimo punto, anche le seguenti decisioni: Cons. Stato, sez. IV, 5 dicembre 1994, n. 983, in Foro it., Rep. 1995, voce “professioni intellettuali, n. 98; 1° febbraio 1995, n. 50, ibid., n. 100; 20 marzo 1995, n. 180, ibid., n. 101; Cons. giust. amm. sic. 30 maggio 1995, n. 199, ibid., n. 102). Ciò vale anche per i ricorsi contro i provvedimenti adottati in via transitoria dal Commissario straordinario nominato ai sensi dell’art. 32 L. 56/ 1989. A mio avviso, tuttavia, dalla terminologia impiegata dal legislatore nel cit. art. 33 non appare giustificato ipotizzare in capo all’ente professionale richiesto della iscrizione un margine di discrezionalità tale da far “affievolire” il diritto soggettivo all’iscrizione (peraltro riconosciuto come tale dallo stesso Consiglio di Stato nelle altre citate ipotesi) in mero interesse legittimo tutelabile, pertanto, innanzi al solo giudice amministrativo.)).
§ 5. l trasferimento da un albo all’altro.
Il trasferimento dell’iscritto da un albo all’altro della stessa professione posto in diversa circoscrizione territoriale deve essere autorizzato, sia in partenza che in arrivo, giacché il professionista è tenuto ad avere la residenza o il domicilio nel territorio di competenza dell’ente professionale che tiene l’albo. Egli pertanto viene cancellato da questo albo ed iscritto nell’altro, previo rinnovo della procedura di accertamento dei requisiti da parte del Consiglio dell’Ordine o Collegio della nuova sede ((Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)).
Il trasferimento ad altro albo è vietato, dall’art. 1, comma 2, legge 4 marzo 1991, n. 67, per l’avvocato sottoposto a procedimento penale o a procedimento per l’applicazione di una misura di sicurezza, è operativo anche per l’ipotesi che il trasferimento sia richiesto in relazione a diversa indicazione del proprio domicilio effettivo, dipendendo detto divieto dalla posizione di iscritto all’Albo e non dal dato (residenza o domicilio) al quale detta iscrizione è ricollegata ((Consiglio Nazionale Forense, parere del 3 ottobre 2001, n. 143.)).
Quando vengono meno i requisiti e le condizioni prescritti dalle leggi per l’iscrizione e la permanenza nell’albo, lo stesso organo che ha proceduto all’iscrizione (il Consiglio dell’Ordine o Collegio) provvede alla cancellazione dell’iscritto, la quale viene effettuata sulla base di un provvedimento, che non è inquadrabile nelle figure dell’annullamento o della revoca degli atti amministrativi, ma costituisce espressione di un potere (privo di carattere di discrezionalità) conferito ai Consigli dell’ordine in sede di controllo sui requisiti del rapporto costituito con l’iscrizione ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 11 novembre 1991, n. 12016.)).
§ 6. La cancellazione dall’albo.
La cancellazione dall’albo è pronunciata: a) quando viene meno uno dei requisiti per l’iscrizione; b) quando l’iscritto non abbia prestato l’impegno solenne senza giustificato motivo entro sessanta giorni dalla notificazione del provvedimento di iscrizione; c) quando viene accertata la mancanza del requisito dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione; d) per gli avvocati dipendenti di enti pubblici, quando sia cessata l’appartenenza all’ufficio legale dell’ente, salva la possibilità di iscrizione all’albo ordinario, sulla base di apposita richiesta ((Art. 17, co. 9, L. n. 247/2012; nello stesso senso, già l’art. 37 RDL n. 1578/1933.)).
La cancellazione dal registro dei praticanti e dall’elenco allegato dei praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo è pronunciata ((Art. 17, commi 10 e 11, L. n. 247/2012.)): a) se il tirocinio è stato interrotto per oltre sei mesi senza giustificato motivo (ad es., salute, maternità, paternità, adozione); b) dopo il rilascio del certificato di compiuta pratica e alla scadenza del termine per l’abilitazione al patrocinio sostitutivo; c) nei casi previsti per la cancellazione dall’albo ordinario, in quanto compatibili.
La cancellazione dall’albo, elenco o registro può avvenire su iniziativa dell’interessato, d’ufficio oppure a richiesta del P.M. ((Art. 17, co. 9, L. n. 247/2012; nello stesso senso, già l’art. 37 RDL n. 1578/1933.)). Al terzo estraneo non è quindi accordata la legittimazione ad impugnare il provvedimento, positivo o negativo, concernente la cancellazione non contrasta con gli artt. 3, 24 e 113 Cost., poiché egli non è ritenuto portatore di ragioni da tutelare ((Cassazione Civile, sez. Unite, sentenza del 5 marzo 2008, n. 5904.)), e ciò, peraltro, anche qualora intenda agire nell’interesse dell’iscritto, eventualmente impossibilitato per ragioni di salute ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Morgese), parere del 26 ottobre 2006, n. 72, il quale ha escluso che la cancellazione dall’albo potesse essere chiesta da coniuge di avvocato in coma irreversibile, giacche “Nel caso di incapacità del soggetto di provvedere alla cura dei propri diritti si dovrà percorrere, per questo come per ogni altro atto, la strada prevista dalla normativa civilistica, ed in particolare dagli artt. 414 e segg. c.c.”.)).
La cancellazione su richiesta dell’interessato ed equivale ad un atto di dimissioni (per ragioni di salute, di età, di famiglia, di incompatibilità sopravvenuta, ecc.) mentre quella d’ufficio risponde ad un potere conferito ai consigli dell’ordine in sede di controllo sui requisiti del rapporto costituito con l’iscrizione: essa ha effetti “ex nunc”, quindi non comporta annullamento o revoca dell’atto precedente, e può essere disposta non solo per situazioni sopravvenute, ma anche per fatti preesistenti e noti al momento dell’iscrizione ((Cassazione Civile, sez. Unite, 1 febbraio 2010, n. 2223; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 11 novembre 1991, n. 12016; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 6 agosto 1990, n. 7939.)).
La cancellazione dall’albo può essere sollecitata anche dal P.M. presso il Tribunale nei casi di revoca o interdizione: trattasi di mera facoltà che non concretizza un’impugnativa delle deliberazioni adottate dal consiglio dello ordine locale, nell’ambito della normale revisione degli albi, ma si pone in via autonoma ed alternativa rispetto a quella revisione, sicché l’indicata richiesta: 1) va proposta al consiglio dell’ordine locale, non al consiglio nazionale forense; 2) non è soggetta ad alcun termine dall’eventuale delibera con cui il consiglio locale abbia, in sede di revisione, negato la cancellazione ((Cfr. Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 21 giugno 1976, n. 2321.)).
Alla cancellazione si deve procedere di diritto in esecuzione di un provvedimento dell’autorità amministrativa o giudiziaria che ha disposto la revoca dell’abilitazione o l’interdizione dall’esercizio professionale. La cancellazione dall’Albo degli Avvocati, disposta come conseguenza di pena accessoria irrogata all’esito di un giudizio penale, integra una fattispecie autonoma di cancellazione, non di natura disciplinare, che presuppone la sola esistenza di una sentenza definitiva che infligga all’imputato la pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione di avvocato e non impedisce, come tale, l’esercizio dell’azione disciplinare e l’esame del merito del ricorso da parte del C.N.F. ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Borsacchi), sentenza del 14 novembre 2011, n. 171.)).
La cancellazione di diritto dall’albo in conseguenza della sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici: E’ manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 42, secondo comma, lett. a), R.D.L. n. 1758 del 1933, sollevata in relazione all’art. 3, Cost., nella parte in cui stabilisce che l’interdizione temporanea dai pubblici uffici comporta, di diritto, la cancellazione dall’Albo degli avvocati, in quanto il provvedimento del Consiglio dell’ordine che la dispone non ha natura disciplinare, ma costituisce effetto della sanzione accessoria applicata nel caso di condanna per determinati reati, che incide sullo ‘status’ del condannato, determinandone l’inidoneità a ricoprire pubblici uffici, privandolo di uno dei requisiti necessari per l’iscrizione al succitato albo, sicchè non è richiamabile, in riferimento a questo provvedimento, il principio di proporzionalità che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 40 e n. 158 del 1990; n. 16 del 1991), rende costituzionalmente illegittime le norme che prevedono l’automatismo della destituzione, in conseguenza di una condanna penale ed in mancanza di una valutazione della condotta nel corso del procedimento disciplinare ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza dell’11 gennaio 2005, n. 308.)).
Il provvedimento di cancellazione ha natura giuridica eguale a quello di iscrizione. Salvo il caso di dimissioni, esso è preceduto da un procedimento di accertamento dei motivi che la giustificano. Il provvedimento di cancellazione svolge, come quello di iscrizione, funzioni certative e di pubblicità della mutata situazione giuridica che viene a verificarsi per il già iscritto.
Fra le altre cause, ricordiamo che la cancellazione può essere pronunciata per morosità con riguardo al pagamento della tassa d’iscrizione o della quota associative dovute all’ente professionale.
Tuttavia non comporta la cancellazione dall’albo la sospensione dall’esercizio professionale per un determinato periodo di tempo a seguito di provvedimenti di natura disciplinare o penale ((Teresi, op. cit., p. 449 ss.)).
§ 6.1. Il divieto di cancellazione.
La cancellazione dall’albo professionale non può essere pronunciata -neppure quando a richiederla sia l’iscritto ((Cfr. Cassazione Civile, sentenza del 15 ottobre 2003, n. 15406.))- ove questi sia sottoposto a procedimento penale o disciplinare ((Art. 17, co. 16, L. n. 247/2012 (nuovo ordinamento forense) (già art. 37 del R.D.L. n. 1578/1933. In arg. cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Mariani Marini), sentenza del 7 maggio 2013, n. 70; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Danovi, rel. Petiziol), sentenza del 29 novembre 2001, n. 251.)).
La ratio di tale divieto è duplice: 1) evitare che il consiglio dell’ordine possa far ricorso in via breve alla misura della cancellazione come forma di autotutela nei confronti dell’iscritto il cui comportamento (successivo all’iscrizione) abbia già dato luogo ad un procedimento disciplinare o debba dar luogo ad una contestazione disciplinare (di riflesso a fatto imputato in sede penale) con maggiore ampiezza di difesa per l’inquisito ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 20 ottobre 1993, n. 10382.)); 2) evitare che, proprio attraverso la cancellazione dall’albo, il soggetto possa sottrarsi alla potestà disciplinare dell’Ordine professionale ((Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere del 10 aprile 2013, n. 49; Consiglio Nazionale Forense (rel. Morlino), parere del 10 aprile 2013, n. 44; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Neri), sentenza del 15 ottobre 2012, n. 151; Consiglio Nazionale Forense (rel. Perfetti), parere del 14 dicembre 2005, n. 97.)).
I dubbi di legittimità costituzionale del divieto in parola in relazione agli artt. 3, co. 1, e 13, co. 1, Costituzione, ed al principio di ragionevolezza, nella misura in cui costringerebbe la persona a far parte di una associazione professionale contro la sua volontà e con l’obbligo di pagare i relativi contributi, sono stati ritenuti manifestamente infondati (Cfr. Cassazione Civile, sentenza del 17 settembre 2004, n. 18771.)).
La cancellazione dall’albo professionale non può essere pronunciata dal consiglio dell’ordine se non dopo aver sentito l’interessato nelle sue giustificazioni, ma a tal fine non occorre che l’interessato stesso sia convocato davanti al consiglio nel giorno stesso della deliberazione, ma basta il previo invito a presentare le giustificazioni, anche per iscritto ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 28 giugno 1976, n. 2421.)).
Il termine di quindici giorni previsto dall’art. 37 r.d.l. 1578/33 per il deposito della decisione del C.d.O. in materia d’iscrizione o cancellazione all’albo non ha natura perentoria e la sua inosservanza non determina la inefficacia del provvedimento adottato ma comporta soltanto lo spostamento del termine per l’impugnazione dinanzi al C.N.F. ((Consiglio Nazionale Forense (Pres. Alpa, Rel. Piacci), sentenza del 20 febbraio 2012, n. 15.)).
§ 7. La reiscrizione all’albo.
Il professionista che è stato cancellato dall’albo può esservi reiscritto a sua domanda verificandosi determinate condizioni. Bisogna anzitutto distinguere i motivi in base ai quali la cancellazione è stata disposta. Se, ad es., fu dovuta a motivi di incompatibilità e tali motivi successivamente sono scomparsi, il professionista può chiedere e ottenere la reiscrizione. Come regola generale, alla domanda di reiscrizione fa sempre seguito un procedimento di accertamento vertente su tutti indistintamente i requisiti voluti dalla legge come se si trattasse di procedere all’iscrizione per la prima volta. Se invece la cancellazione è stata determinata da motivi disciplinari, oppure è l’effetto di una sentenza penale, deve intercorrere un certo periodo di tempo dal provvedimento disciplinare e, nel caso di condanna penale, deve essere intervenuta la riabilitazione giudiziale ((V. artt. 178-181 c.p. e art. 683 c.p.p.)). Tuttavia, la riabilitazione non dà, di per se stessa, diritto alla reiscrizione perché il Consiglio dell’Ordine o Collegio può valutare discrezionalmente i comportamenti precedenti e successivi alla cancellazione ((Nell’ordinamento forense il professionista radiato o cancellato per sanzioni disciplinari può chiedere la reiscrizione solamente dopo cinque anni dal provvedimento e dopo sei anni se fu condannato per delitto commesso con abuso di prestazione d’opera professionale o per delitto contro le pubbliche amministrazioni, la fede pubblica o il patrimonio: art. 47 legge forense; negli ordinamenti delle professioni di dottore commercialista e ragioniere la riammissione nell’albo dei professionisti radiati può avvenire dopo sei anni dal provvedimento di radiazione, previa riabilitazione se intervenuta condanna penale, e, in ogni caso, deve risultare che il radiato tenne dopo la radiazione irreprensibile condotta: art. 45.)) ((Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)).
L’avvenuta riabilitazione dell’avvocato in sede penale non comporta un’automatica possibilità di reiscrizione all’albo, per la quale deve essere compiuta una autonoma valutazione della gravità, della natura e del numero degli illeciti e della complessiva durata della condotta illecita, al fine di verificare se la reiscrizione non comporti comunque conseguenze negative per la stima e la fiducia di cui deve poter godere l’ordine professionale, in tutti i suoi componenti ((Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Diego), sentenza del 31 marzo 1995, n. 44.)).
La valutazione della condotta irreprensibile (già specchiatissima e illibata)
Il requisito della condotta specchiatissima ed illibata (ora, “irreprensibile”) del professionista che chiede l’iscrizione o la reiscrizione all’albo deve essere valutato singolarmente, caso per caso, con la necessaria prudenza valutando non solo l’integrità personale dell’aspirante, ma anche l’idoneità a svolgere sotto il profilo morale la professione.
Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180
http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf
180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933
La reiscrizione all’albo del professionista cancellato in via disciplinare
Il professionista cancellato disciplinarmente dall’Albo può domandare la reiscrizione solo dopo che sia trascorso un periodo di almeno 5 anni dalla esecuzione del provvedimento di cancellazione adottato dal COA, fornendo elementi che diano contezza che nel periodo trascorso il comportamento del richiedente sia stato improntato al recupero dei requisiti previsti dall’art. 17 RDL n. 1578/1933 (ora art. 17 L. n. 247/2012).
Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180
http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf
180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933, 52 L. n. 247/2012, 62 L. n. 247/2012
NOTA:
Il principio di cui in massima deve ora riferirsi alla radiazione, non essendo più prevista dalla nuova legge professionale la cancellazione come sanzione disciplinare (cfr. art. 52 L. n. 247/2012), giusta il disposto dell’art. 62, co. 10, L. n. 247/2012 secondo cui “Il professionista radiato può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine”.
La reiscrizione all’albo del professionista cancellato in via disciplinare
Il professionista cancellato disciplinarmente dall’Albo può domandare la reiscrizione solo dopo che sia trascorso un periodo di almeno 5 anni dalla esecuzione del provvedimento di cancellazione adottato dal COA, ma ai fini del predetto quinquennio non può essere computato l’eventuale periodo trascorso in esecuzione del provvedimento cautelare di sospensione, poichè nessun rilievo può avere il tempo decorso in esecuzione di un provvedimento cautelare di sospensione ai fini della rivalutazione della sussistenza del requisito della condotta specchiatissima ed illibata (ora irreprensibile).
Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180
http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf
180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933, 52 L. n. 247/2012, 62 L. n. 247/2012
NOTA:
Il principio di cui in massima deve ora riferirsi alla radiazione, non essendo più prevista dalla nuova legge professionale la cancellazione come sanzione disciplinare (cfr. art. 52 L. n. 247/2012), giusta il disposto dell’art. 62, co. 10, L. n. 247/2012 secondo cui “Il professionista radiato può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine”.
La sentenza di riabilitazione non è di per sè sufficiente alla reiscrizione all’albo del professionista cancellato in via disciplinare
Il professionista cancellato disciplinarmente dall’Albo può domandare la reiscrizione solo dopo che sia trascorso un periodo di almeno 5 anni dalla esecuzione del provvedimento di cancellazione adottato dal COA, fornendo elementi che diano contezza che nel periodo trascorso il comportamento del richiedente sia stato improntato al recupero dei requisiti previsti dall’art. 17 RDL n. 1578/1933 (ora art. 17 L. n. 247/2012), non essendo all’uopo sufficiente l’intervento di una sentenza di riabilitazione, la quale deve infatti essere associata ad ulteriori elementi da valutarsi autonomamente.
Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180
http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf
180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933, 52 L. n. 247/2012, 62 L. n. 247/2012
NOTA:
In senso conforme, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Picchioni), sentenza del 9 settembre 2011, n. 137, secondo cui “la riabilitazione, pur estinguendo le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, non impedisce l’operatività delle ulteriori conseguenze prodottesi autonomamente sul piano amministrativo, quali la valutazione dei requisiti soggettivi occorrenti per l’iscrizione o quelle di tipo disciplinare, né vale ad escludere la storicità dei fatti e la loro negativa valenza in ordine alla considerazione dell’affidabilità del soggetto in relazione alla previsione della sua inclinazione ad un corretto svolgimento della professione forense”.
Il principio di cui in massima deve ora riferirsi alla radiazione, non essendo più prevista dalla nuova legge professionale la cancellazione come sanzione disciplinare (cfr. art. 52 L. n. 247/2012), giusta il disposto dell’art. 62, co. 10, L. n. 247/2012 secondo cui “Il professionista radiato può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine”.
Tuesday, November 10, 2020
INCEDENTE DI ESECUZIONE
INCIDENTE DI ESECUZIONE
L’incidente di esecuzione a rimedio della pena e della condanna illegale:
tra riforme “pretorie” e
mancate riforme legislative
Nell’intento di non lasciare senza rimedio l’illegalità della pena o della condanna, pur se “cristallizzata”
dal giudicato, la giurisprudenza degli ultimi anni ha significativamente incrementato i margini di manovra del giudice dell’esecuzione, spingendosi talora a scardinare apertamente il principio di tassatività degli interventi post-iudicatum. Nella convinzione che la meritevolezza dell’obiettivo non giustifichi forzature della littera legis contrastanti col principio di legalità processuale, lo studio mette in evidenza come i pur pregevoli spunti offerti dal diritto vivente richiedano, ad evitare il protrarsi di una situazione gravemente caotica, una definitiva “messa a sistema” da parte del legislatore.
The incident involving the remedy of the sentence and the illegal sentence: between "pretoria" reforms and missed legislative reforms
In order to grant a remedy against the unlawfulness of the sentence or of the conviction, notwithstanding the res judicata, the recent case law has significantly increased the powers of the implementation judge. Sometimes, the said case law even came to openly undermine the principle according to which res iudicata can be removed or modified only in cases provided by law. Based on the assumption that the importance of the aim does not justify for-cing the letter of the law against the principle of procedural legality, the article emphasizes that the valuable ideas offered by the case law need to be set up by the legislator, so as to avoid a seriously chaotic situation.
SOMMARIO. 1. Premessa. – 2. Giudice dell’esecuzione e pena costituzionalmente e/o convenzionalmente illegale. – 3. Giudice dell’esecuzione e fenomeni di successione normativa incidenti sulla legalità della condanna. – 4. Conclusioni.
1. Premessa. Negli ultimi anni si è assistito a un progressivo ampliamento per via pretoria dei margini d’intervento del giudice dell’esecuzione, sul presuppo- sto che nell’“incidente” ex art. 666 ss. c.p.p. possa individuarsi una sorta di “ultima spiaggia” su cui approdare quando, a tutela dei diritti individuali, oc- corra mettere mano al giudicato – in primis, ma non solo, in adeguamento alle decisioni delle Corti europee –, ma nessun altro strumento sia disponibile nella fattispecie concreta, complice, spesso, la colpevole inerzia del legislatore1. Sif- fatta operazione è stata condotta non soltanto attraverso la via – legittima – di
1 UnaprimamanifestazionediquestoorientamentorisalecomeènotoaCass.,Sez.I,1°dicembre2006, Dorigo, in Cass. pen., 2007, 1441, che, in assenza di un rimedio idoneo a riaprire i processi in esecuzione di una sentenza della Corte di Strasburgo accertativa di una violazione del fair trial – rimedio solo succes- sivamente introdotto dalla Corte costituzionale nelle forme delle “revisione europea” – ha utilizzato il procedimento ex artt. 666 e 670 c.p.p. per disporre la cessazione, in favore del ricorrente vittorioso a Strasburgo, dell’esecuzione della pena detentiva. Rileva FURFARO, Il mito del giudicato e il dogma della legge: la precarietà della certezza giuridica (a margine di Corte cost., sent. n. 230 del 2012), in questa rivista (web), 2013, n. 2, 15, che, in particolare a seguito del predetto intervento del giudice di legittimità,
ARCHIVIO PENALE 2019, n. 3
una lettura estensiva degli artt. 669-676 c.p.p. o di altre disposizioni comunque fondanti un intervento sul titolo esecutivo – si pensi, in particolare, alle previ- sioni “sostanziali” ex art. 2 c.p. e 30 co. 4 l. 11 marzo 1953, n. 87, quand’anche non dotate di uno specifico “canale processuale” di recepimento –, ma pure – in termini ben più dirompenti – “sconfessando” esplicitamente il carattere tas- sativo degli interventi post-iudicatum2.
Noti, e indubbiamente meritevoli, gli obiettivi perseguiti da questo orienta- mento, che, per quanto qui più strettamente interessa, possono riassumersi nell’esigenzadinonlasciaremaisenzarimediol’illegalità–latosensuintesa3 – della condanna o del trattamento sanzionatorio, seppure cristallizzati dalla res iudicata4. Dirompenti, però, gli effetti che ne sono derivati, da un lato, sul prin- cipio di stretta legalità processuale – oggi costituzionalmente sancito dall’art. 111 co. 1 Cost.5 –, dall’altro, nei rapporti fra il giudizio di cognizione e quello di esecuzione: sotto questo secondo profilo è “esploso”, in particolare, il pro- blema dei limiti che il giudicato, nella componente accertativa, possa ancora opporre al giudice dell’esecuzione, ad evitare che il controllo in executivis, con un’ulteriore confusione di piani, sconfini in una forma di impugnazione straor- dinaria6. Se, infatti, quanto alle attribuzioni conferite a tale giudice dalla legge detti limiti sono positivamente delineati – si pensi all’art. 671 c.p.p., che per- mette l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato conti- nuato in quanto «non sia stata esclusa dal giudice della cognizione» –, nei “nuovi terreni” di intervento in executivis è ancora il diritto pretorio a tracciarli, ciò che sta conducendo ad intollerabili disparità di trattamento.
«la strada era tracciata e il cammino successivo» – verso spazi sempre più ampi di ineseguibilità del giudi- cato – «ovviamente conseguente».
2 Ribadiscono invece con forza tale carattere, da ultimo, BONTEMPELLI, La resistenza del giudicato alla violazione del principio di legalità penale, in Rev. bras. der. proc. pen., 2018, n. 4, 1059 s.; CENTORAME, La cognizione penale in fase esecutiva, Torino, 2018, 77.
3 Cioèascrivibiletantoadunamacroscopica“svista”delgiudicedicognizione,quantoadevenienze,suc- cessive al giudicato, che la legge non individui espressemente come fondanti un intervento “revocatorio”, quali la dichiarazione di incostituzionalità di una norma incidente sul trattamento sanzionatorio o l’emer- sione, per effetto della giurisprudenza delle Corti europee, dell’incompatibilità della condanna o della pena rispetto ad un precetto convenzionale o “comunitario”.
4 Per un'analisi generale del fenomeno cfr., fra gli altri, F. GAITO, La riapertura del processo, in questa rivista, 2017, 956 ss.
5 Sul tema, in termini particolarmente critici, CAPRIOLI, Il giudice e la legge processuale: il paradigma rovesciato, in Ind. pen., 2017, n. 3 (Appendice), 967; NEGRI, Splendori e miserie della legalità proces- suale, in questa rivista (stampa), 2017, n. 2, 440 s.
6 Sottolineaquestopericolo,fraglialtri,F.CENTORAME,Lacognizione,cit.,77ss. 2
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Date queste premesse, ci si propone, una volta sinteticamente evidenziate le singole “direttrici” dell’espansione pretoria della giurisdizione esecutiva, di for- mulare qualche indicazione di “riordino”, nell’auspicio di un intervento legisla- tivo che, salvando quanto di buono il diritto vivente ha suggerito, riconduca ambiti di intervento e procedure della predetta giurisdizione alla legalità pro- cessuale costituzionalmente sancita, ciò che è tanto più necessario quando – come nel caso di specie – si tratti di superare il giudicato.
2. Giudice dell’esecuzione e pena costituzionalmente e/o convenzionalmente illegale. Un primo ampliamento degli spazi della giurisdizione esecutiva si regi- stra sul fronte della c.d. pena illegale: alla potestà, tradizionalmente riconosciuta al giudice dell’esecuzione e di cui può trovarsi fondamento positivo nell’art. 670 c.p.p., di dichiarare in tutto o in parte inesistente il titolo esecutivo recante una sanzione non prevista dalla legge o eccedente i limiti legali – purché l’ille- galità sia frutto di una mera svista, non di un errore valutativo, del giudice di cognizione –7, si è da alcuni anni “aggiunto” il potere del primo giudice di ride- terminare la pena a seguito della declaratoria di incostituzionalità di norme in- cidenti sul trattamento sanzionatorio8, o in adeguamento a una decisione della Corte di Strasburgo accertativa dell’illegalità convenzionale della pena stessa9.
Sotto il primo profilo, l’ormai pacifico orientamento della giurisprudenza ordi- naria e costituzionale è in sè condivisibile, alla sola condizione che se ne indi- viduino i corretti fondamenti normativi. In difetto di indicazioni legislative ad hoc, significative difficoltà si registrano, però, in ordine agli strumenti, ai confini ed agli effetti dell’operazione di ricalcolo della pena “incostituzionale”.
7 Cfr., già nella vigenza del codice del 1930, Cass., Sez. V, 29 maggio 1985, Lattanzio, in Mass. Uff., n. 169333; Id., Sez. I, 25 giugno 1982, Carbone, ivi, n. 156173. Nel vigore dell’attuale codice, Id., Sez. I, 3 marzo 2009, Alfieri, ivi, n. 243742; Id., Sez. I, 6 luglio 2000, Colucci, ivi., n. 216746; più di recente, con qualche diversa sfumatura, Id., Sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240/2015, Basile, in Cass. pen., 2015, 2564; Id., Sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, Butera, ivi, 2016, 492. In dottrina, per la riconduzione delle situazioni di illegalità sanzionatoria evidenziate nel testo alla “mancanza” del titolo ex art. 670 c.p.p., cfr., tra gli altri, CORBI - NUZZO, Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, 223; CAPRIOLI - VICOLI, Procedura penale dell’esecuzione2, Torino, 2011, 264.
8 Cfr.,perladefinitiva“consacrazione”ditaleorientamento–apertodaCass.,Sez.I,27ottobre2011,n. 977, Hauohu, in Cass. pen., 2012, 1660, Cass., Sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, ivi, 2015, 41. 9 Il principale riferimento va, naturalmente, a Corte cost. n. 210 del 2013, nonché a Cass., Sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, Ercolano, in Cass. pen., 2015, 28.
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Come è noto, gli artt. 666 e ss. non si occupano espressamente delle conse- guenze post-iudicatum della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme diverse da quelle incriminatrici – data l’indubbia riferibilità dell’art. 673 c.p.p. solo a queste ultime –, ma che siffatte conseguenze si producano, e che sia il giudice dell’esecuzione a doversene occupare, ben può sostenersi sulla base di una lettura estensiva dell’art. 30, co. 4, L. n. 87 del 1953: invero, il riferimento di tale disposizione alla «norma», dichiarata incostituzionale, in «applicazione» della quale una condanna penale è stata pronunciata, si presta ad includere non solo le norme incriminatrici, ma anche quelle incidenti sul trattamento sanzionatorio, conseguendone che pure la dichiarazione di illegit- timità di queste ultime possa riverberarsi post-iudicatum, determinando la ces- sazione dell’esecuzione della quota di pena, inflitta in applicazione della norma illegittima10. Né questa lettura è di per sé impedita dal fatto che la previsione “sostanziale” ex art. 30 co. 4 l. cit. trovi esplicita “corrispondenza processuale”, nel già menzionato art. 673 c.p.p., limitatamente alla dichiarazione di incosti- tuzionalità di una norma incriminatrice. Premesso che la previsione sostanziale è da sola sufficiente a sostenere l’intervento in executivis11, ove se ne voglia in- dividuare un canale processuale di recepimento può farsi riferimento all’art. 670 c.p.p.12, nella parte in cui demanda al giudice dell’esecuzione di accertare la ‘mancanza’ del titolo esecutivo: se per titolo ‘mancante’ – come già accennato – può intendersi quello recante una pena a monte non prevista dalla legge o eccedente i limiti legali, non si ravvisano ostacoli all’estensione della categoria, in combinato disposto con l’art. 30 co. 4 l. n. 87 del 1953, al titolo recante un
10 Cfr.,inparticolare,Cortecost.n.210del2013.Indottrina,fraglialtri,S.RUGGERI,Giudicatocostitu- zionale, processo penale, diritti della persona, in Dir. pen. cont. (Riv. trim.), 2015, n. 1, 32 s.; VICOLI, L’illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria travolge il giudicato: le nuove frontiere della fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni unite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1006 ss., nonché, volendo, LAVARINI, Incostituzionalità della disciplina penale in materia di stupefacenti e ricadute ante e post iudicatum, in Giur. cost., 2014, 1907 s. In termini critici, invece, CAPRIOLI, Giudicato e illegalità della pena: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale, in Bargis (a cura di), Studi in ricordo di Maria Gabriella Aimonetto, Milano, 2103, 286 ss.; GAMBARDELLA, Norme incostitu- zionali e giudicato penale: quando la bilancia pende tutta da una parte, in Cass. pen., 2015, 82 ss.
11 Comedelrestolaprevisione,anch’essaprivadicorrispondenzanelcodicedirito,dicuiall’art.2co.3 c.p., che, in deroga al principio per cui la lex mitior che non si traduca in un’abolitio criminis non si applica dopo il giudicato (art. 2 co. 2 c.p.), sancisce la conversione della pena detentiva originariamente inflitta quando, dopo la condanna irrevocabile a tale pena, una lex posterior preveda esclusivamente quella pecuniaria.
12 Cfr. anche VIGONI, Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, in Proc. pen. giust., 2015, n. 4, 8.
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trattamento sanzionatorio divenuto illegale per via di una declaratoria di inco- stituzionalità, peraltro operante ex tunc13.
È invece assai più discutibile arrivare alla medesima conclusione partendo dal presupposto che, gli effetti delle declaratorie di illegittimità costituzionale esten- dendosi a tutti i rapporti non esauriti (art. 30, co. 3, legge n. 87 del 1953), la rideterminazione sanzionatoria ad opera del giudice dell’esecuzione, lungi dal costituire una deroga all’intangibilità del giudicato eccezionalmente sancita dall’art. 30, co. 4, legge cit., sia effetto “fisiologico” della dichiarazione di inco- stituzionalità sul rapporto processuale esecutivo, che non potrebbe dirsi “esau- rito” sino alla completa espiazione della pena14. Quest’ultima impostazione – pur autorevolmente sostenuta dalle Sezioni unite15 – postula che l’esecuzione della pena irrevocabilmente inflitta continui a fondarsi sulla norma “sanziona- toria” che la prevede – alle cui vicende sarebbe giocoforza sensibile –, anziché sul comando, cristallizzato nel titolo esecutivo, formulato in applicazione di quella norma: in siffatto contesto, il giudice dell’esecuzione potrebbe sempre “riapplicare” – rectius disapplicare – la norma penale sanzionatoria dichiarata incostituzionale, a prescindere dal fatto che l’art. 30 co. 4 l. n. 87 del 1953 glielo consenta espressamente16. Tale lettura, oltremodo eversiva dei rapporti fra giu- risdizione di cognizione ed esecutiva, è però smentita testualmente proprio da quest’ultima disposizione, laddove, stabilendo che «quando è stata pronunciata sentenza di condanna in applicazione della norma dichiarata illegittima ne ces- sano l’esecuzione e gli effetti penali», distingue plasticamente il momento, si- tuato nel passato, dell’applicazione della norma, da quello, presente, in cui non si deve che riscontrare, agli effetti esecutivi, la relativa caducazione17. In altre parole, al giudice dell’esecuzione – se non si vuole alterarne integralmente il ruolo, ciò che implicherebbe una chiara presa di posizione legislativa – non è
13 Ciòche,fral’altro,rendenonirragionevoleildiversotrattamentodellasuccessionenormativainmitius di fonte costituzionale rispetto alla successione di fonte legislativa, che – quando non abbia portata radi- calmente abolitiva e con l’eccezione della fattispecie ex art. 2 co. 3 c.p. – non consente di scavalcare il giudicato: mentre, infatti, la declaratoria di illegittimità costituzionale opera ex tunc, con effetti invalidanti, il fenomeno abrogativo opera ex nunc e non produce tali effetti.
14 InterminianalogamentecriticiVICOLI,op.loc.ult.cit..
15 Cass.,Sez.un.,29maggio2014,n.42858,Gatto,cit.;Id.,Sez.un.,24ottobre2013,n.18821,Ercolano, cit.
16 Cfr.ancoraVICOLI,op.loc.ult.cit.
17 Cfr. già, volendo, LAVARINI, I rimedi post iudicatum alla violazione dei canoni europei, in I principi europei del processo penale, a cura di Gaito, Roma, 2016, p. 112.
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dato intervenire sul giudicato attraverso una nuova applicazione/disapplica- zione di norme già definitivamente applicate nel giudizio di cognizione, ma solo di prendere atto che quelle norme sono “cadute”, e che si è conseguentemente configurato un evento a cui la legge – nella specie l’art. 30 co. 4 l. n. 87 del 1953 – attribuisce efficacia risolutiva o modificativa del giudicato18.
L’adesione all’una o all’altra impostazione non è per nulla indifferente allorché ci si interroghi sul ruolo del giudice dell’esecuzione nel recepire post-iudicatum gli effetti ultra partes di una decisione della Corte di Strasburgo, allorché questa metta in luce l’incompatibilità di una norma sanzionatoria interna col principio di legalità ex art. 7 CEDU (ciò che è concretamente accaduto a seguito della decisione della Grande Camera in re Scoppola c. Italia, quando si è posto il problema dei relativi riflessi in favore di quanti, non avendo adito la Corte dei diritti umani, versassero in posizione analoga al ricorrente vittorioso19).
Va premesso che – salvo al più il caso in cui si abbia a che fare con una sen- tenza“pilota”nellacorrettaaccezionedeltermine20 –,unatalesituazioneesor- bita dagli obblighi di esecuzione del giudicato europeo sanciti dall’art. 46
18 Cfr., con particolare incisività, CAPRIOLI, Giudicato e illegalità della pena, cit., 272 s.; VICOLI, op. loc. ult. cit.
19 Corte Edu, Gr. Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia. Per tutti i dettagli dell’ormai notissima vicenda originata da tale decisione cfr., ex plurimis, GAMBARDELLA, Declaratoria di illegittimità costitu- zionale di una norma penale non incriminatrice e intangibilità del giudicato, in Speciale CEDU e ordina- mento interno, a cura di Gialuz, Marandola, in Dir. pen. proc. (Speciali), 2014, 63 ss.
20 Come è noto, per sentenza “pilota” si intende la particolare tipologia decisoria utilizzata dalla Corte di Strasburgo allorché apertamente imputi la violazione convenzionale riscontrata ad un vizio strutturale dell’ordinamento interno: a norma dell’art. 61 del Regolamento della Corte, detta sentenza si caratterizza, oltreché per l’esplicita indicazione del vizio strutturale, per la formulazione espressa nel dispositivo delle misure generali necessarie, secondo la Corte europea, a rimediare e prevenire violazioni potenzialmente seriali (o quantomeno per la formulazione delle une e delle altre indicazioni in motivazione, con chiaro ed espresso riferimento agli obblighi esecutivi ex art. 46 CEDU - c.d. quasi-pilot judgement: cfr. L.A. SICILIANOS, The involvement of the european Court of human rights in the implementation of its judge- ments: recent developments under art. 46 ECHR, in Netherlands Quarterly of Human Rights, 2014, n. 32, 244 ss.). In ragione di ciò, potrebbe fondatamente sostenersi che detta tipologia di sentenza si rivolga anche a chi, senza avere adìto la Corte di Strasburgo, versi nella medesima situazione del ricorrente. Nella giurisprudenza italiana, peraltro, di sentenza “pilota”, o “quasi tale”, si tende a dare una lettura impro- priamente estensiva, riconducendovi anche quelle decisioni – come Corte Edu, Gr. Camera, 17 settem- bre 2009, Scoppola c. Italia, cit. – che solo implicitamente facciano emergere un problema strutturale del sistema interno: cfr. RANDAZZO, Interpretazione delle sentenze della Corte europea dei diritti ai fini dell’esecuzione (giudiziaria) e interpretazione della sua giurisprudenza ai fini dell’applicazione della CEDU, in Rivista AIC, 2015, n. 2, 7.
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CEDU – riferibili al solo ricorrente vittorioso a Strasburgo, e certamente su- scettibili di adempimento in executivis ex art. 670 c.p.p.21 –, attenendo al di- verso piano del vincolo interpretativo che dal giudicato convenzionale, in quanto faccia emergere un difetto strutturale dell’ordinamento interno, può de- rivare al giudice nazionale22.
Ciò posto, la tesi che noi sosteniamo preclude in radice, nei confronti di sog- getti diversi dal ricorrente a Strasburgo, la possibilità di intervenire post-iudica- tum senza passare attraverso una questione di legittimità, per violazione degli artt. 117 Cost. e 7 CEDU, della norma sostanziale di riferimento (ciò che, una volta accolta la questione, legittimerebbe l’intervento in executivis ai sensi dell’art. 30 co. 4 l. n. 87 del 1953). Al contrario, se il giudice dell’esecuzione fosse ancora investito, nonostante il giudicato, del potere di applicare le norme sostanziali, fondanti la determinazione sanzionatoria, al fine di vagliarne la per- durante legalità, egli – va da sé, entro i limiti permessi dalla littera legis –, po- trebbe anche reinterpretarle in senso convenzionalmente conforme, senza ne- cessità di adire la Corte costituzionale23.
21 Alla luce del già citato orientamento, che riconduce l’illegalità della pena fra i casi di “mancanza” del titolo esecutivo, ben può sostenersi, infatti, che il dispositivo di una siffatta decisione europea, quale norma del caso concreto, renda illegale la pena originariamente applicata. In effetti, l’idoneità dell’art. 670 c.p.p. a risolvere le menzionate situazioni di “diretto” adeguamento convenzionale è stata espressa- mente riconosciuta da Cass., Sez. V, 11 febbraio 2010, Scoppola, in Cass. pen., 2010, 3389, che, in esecuzione del giudicato europeo, ha convertito la pena dell’ergastolo, originariamente inflitta a Scoppola in violazione del principio della lex mitior ex art. 7 CEDU, in trent’anni di reclusione. La Cassazione, sebbene fosse stata adita a norma dell’art. 625-bis c.p.p., e per ragioni di economia processuale abbia preferito decidere in tale sede, ha affermato che sarebbe stato «pienamente conforme alla normativa vigente» affidare la sostituzione della pena al giudice dell’esecuzione, a norma dell’art. 670 c.p.p. Per un approfondimento cfr., volendo, LAVARINI, I rimedi post-iudicatum, cit., 107.
22 Per la chiara distinzione fra i due piani cfr. RANDAZZO, Interpretazione delle sentenze della Corte europea, cit., 7. In una diversa prospettiva, maggiormente favorevole a ricondurre nell'ambito esecutivo delle decisioni convenzionali anche i relativi effetti erga alios, seppure a certe condizioni, ESPOSITO, Il divenire dei giudici tra diritto convenzionale e diritto nazionale, in questa rivista, 2018, 39 ss.
23 In questi termini, VIGANÒ, Prosegue la ‘saga Scoppola’: una discutibile ordinanza di manifesta inam- missibilità della Corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it.
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Come è noto, è quest’ultima la soluzione prospettata dalle Sezioni unite nell’ul- tima tappa del caso “Scoppola/Ercolano”24, peraltro in contrasto con la sen- tenza del Giudice delle leggi nella medesima vicenda25, oltreché con una suc- cessiva giurisprudenza, ordinaria e costituzionale, per cui il “passaggio” attra- verso la Consulta è invece imprescindibile, ad evitare, anche, di lasciare alle diverse sensibilità dei singoli giudici comuni il delicato compito di accertare la “portata espansiva” della decisione europea26.
Di qui un chiaro esempio di come, a fronte di pur giustificate aperture giuri- sprudenziali, l’incapacità del legislatore, quantomeno, di governarle ex post produca una situazione intollerabilmente confusa.
24 Cass.,Sez.un.,24ottobre2013,n.18821,Ercolano,cit.:laCortenonsièlimitataaprendereattoche, per effetto della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 7 d.l. n. 341 del 2000, conv. in l. n. 4 del 2001, ad opera della sentenza costituzionale n. 210 del 2013, la posizione dei “fratelli minori” di Scoppola era confluita nella disciplina ex art. 30 co. 4 l. n. 87 del 1953 – la quale, pacificamente, consente un intervento post-iudicatum di rideterminazione della pena –, ma ha lasciato intendere, pro futuro, che il giudice dell’esecuzione, ove ravvisi l’“incompatibilità convenzionale” di una norma penale interna posta a fonda- mento del titolo esecutivo, possa anche, consentendolo il dato testuale, reinterpretarla conformemente alla CEDU.
25 Cortecost.,n.210del2013,§8delConsideratoindiritto.
26 Ciriferiamoallavicendachehacondottoalladeclaratoriadiincostituzionalità,perviolazionedegliartt. 117 Cost., 7 CEDU e 2 Prot. 4 CEDU – interpretati alla luce della sentenza della Grande Camera De Tommaso c. Italia –, dell’art. 75 co. 2 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui sanziona penal- mente la violazione degli obblighi di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» connessi alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale (Corte cost., n. 25 del 2019). Invero la Cassazione rimettente (Cass., Sez. II, ord. 11 ottobre 2017, n. 49194, Sorresso, in Dir. pen. cont. (31 ottobre 2017), resistendo alla tentazione di un’esasperata “interpretazione conforme”, ha investito il Giudice delle leggi nonostante un precedente delle Sezioni unite, con una lettura parzialmente “abolitiva” della fattispecie incriminatrice, avesse già risolto la questione in senso conforme ai canoni europei (Cass. Sez. un., 27 aprile 2017, n. 40076, Paternò, in Cass. pen., 2017, 2348). Ciò sul presupposto che «il ricorso all’interpretazione ade- guatrice, strumento a vocazione casistica, si rivel[i] inadeguato a garantire la certezza del diritto necessaria quando sia in gioco la definizione dell’area delle condotte penalmente rilevanti», tantopiù – ed è questo il profilo di nostro maggiore interesse – quando «sia in predicato una sorta di interpretazione abolitiva che pretenda di travolgere il giudicato» (come nel caso di specie, in cui, data l’inammissibilità del ricorso per cassazione, il giudicato “sostanziale” poteva dirsi formato). Nell’accogliere la doglianza, il Giudice delle leggi ha pienamente condiviso l’impostazione del rimettente, in particolare nel reputare rilevante la questione di costituzionalità, nonostante la stessa avesse già trovato soluzione nel diritto vivente. Nel det- taglio, appare molto significativo che la Corte costituzionale abbia espressamente confermato il diverso ruolo – rispetto all’interpretazione “adeguatrice” – del giudice che intervenga ante o post-iudicatum: in- vero, nella «limitata area...costituita dall’esecuzione del giudicato penale di condanna», nonché «dalla rilevabilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. in caso di ricorso per cassazione inammissibile» – con conseguente formazione del giudicato “sostanziale” –, «occorre ancora domandarsi se la fattispecie pe- nale» “contestata”, «schermata solo dall’interpretazione giurisprudenziale» “convenzionalmente con- forme”, sia o no compatibile col principio, costituzionale e convenzionale, di legalità penale.
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Analogo problema si pone in ordine ai margini di discrezionalità del giudice dell’esecuzione nel caso in cui l’operazione di ricalcolo, seguente alla dichiara- zione di illegittimità costituzionale e/o convenzionale di una norma incidente sul trattamento sanzionatorio, non sia meramente automatica. Sotto questo profilo, l’assenza di una disciplina ad hoc, atta a chiarire fino a che punto detto giudice sia “limitato” dal giudicato, ha dato luogo a contrasti interpretativi – e conseguenti disparità di trattamento – al limite del paradossale.
Nell’occuparsi degli effetti della declaratoria di illegittimità di un limite al bilan- ciamento fra attenuanti e recidiva27, nonché dell’impatto post-iudicatum della sentenza costituzionale n. 32 del 2014 – concernente il regime sanzionatorio dei reati in materia di stupefacenti –, le Sezioni unite hanno rilevato come ri- sponda ad esigenze «di razionalità del sistema processuale» – e trovi peraltro espresso riscontro nelle previsioni ex artt. 671 e 675 c.p.p. –, che, quando la legge demandi al giudice esecutivo una determinata funzione – nella specie, quella di ricondurre a legalità la pena inflitta in base a una norma costituzional- mente illegittima –, questi fruisca di tutti i poteri necessari al relativo esercizio28, e possa quindi compiere autonome valutazioni, alla sola condizione che non contraddicano «quanto già accertato dal giudice di cognizione per ragioni di merito, cioè...quanto accertato non facendo applicazione della norma dichia- rata incostituzionale»29. In questa prospettiva, il giudice dell’esecuzione, in pri- mis, dovrà “interpretare il giudicato” – onde ricavarne tutte le potenzialità, esplicite ed implicite, che, senza scardinare le valutazioni già espresse dal giu- dice di cognizione, gli consentano di rideterminare la pena –, in secundis, potrà eventualmente procedere all’«esame degli atti processuali», o «assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio», a norma dell’art. 666 co. 5 c.p.p.30
Questo orientamento confligge però con le pressochè contemporanee deci- sioni con cui il massimo organo nomofilattico31, sempre in tema di rilevabilità
27 Ilriferimentova,inparticolare,aCortecost.,n.251del2012.
28 Cass.,Sez.un.,29maggio2014,n.42858,Gatto,cit.(che,peraltro,mutuainampiapartegliargomenti già spesi, in passato, da Id., Sez. un., 20 dicembre 2005, Catanzaro, in Mass. Uff., n. 232610, onde rico- noscere al giudice dell’esecuzione, che revochi ex art. 673 c.p.p. una sentenza di condanna, il potere di disporre la sospensione condizionale della pena applicata con altra condanna, ove ostasse al beneficio il precedente revocato).
29 Cass.,Sez.un.,26febbraio2015,n.37107,Marcon,inCass.pen.,2015,4337.
30 Cass.,Sez.un.,28maggio2014,n.42858,Gatto,cit.
31 Indottrinarilevanoilcontrasto,fraglialtri,CANZIO,Lagiurisdizioneelaesecuzionedellapena,inDir. pen. cont. (26 aprile 2016), 7 s.; CAPRIOLI, Il giudice e la legge processuale, cit., 967; DI GERONIMO,
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post-iudicatum della pena illegale – sia pure per ragioni ascrivibili ad un errore percettivo del giudice di cognizione, anziché a sopravvenienze normative di va- rio genere32 – ha circoscritto i poteri d’intervento del giudice esecutivo al caso in cui la sanzione “legittima” sia «determinata o comunque determinabile per legge...senza intervento di apprezzamenti discrezionali» in ordine alla relativa species e durata33. E sulla medesima linea si è attestata la già richiamata giuri- sprudenza di legittimità in re Ercolano34, nonché, più di recente, una delle mol- teplici pronunce sugli effetti diretti e riflessi della sentenza Contrada c. Italia della Corte di Strasburgo35, che ha limitato il ricorso all’incidente esecutivo – in favore dell’esperibilità, anche ultra partes, della revisione “europea” – al caso in cui «l’intervento di rimozione o modifica del giudicato non presenti alcun contenuto discrezionale, risolvendosi nell’applicazione di altro e ben identifi- cato precetto»36.
A dimostrazione di un orientamento quantomai ondivago della giurisprudenza di legittimità, vanno peraltro ancora ricordate alcune recenti sentenze che, nell’occuparsi degli effetti in executivis della declaratoria di illegittimità costitu- zionale di una norma incidente sul titolo di responsabilità, e per tale via sul
GIORDANO, La problematica individuazione dei poteri di intervento del giudice dell’esecuzione sulla pena illegale nella recente giurisprudenza delle Sezioni unite, in Cass. pen., 2016, 2528 ss.
32 DI GERONIMO, GIORDANO, La problematica, cit., p. 2531, sembrano ipotizzare che «la diversità di approccio rispetto alla possibilità di intervento sul giudicato» possa ricondursi alla diversa ragione a soste- gno dello stesso intervento, dato il riconoscimento al giudice esecutivo di una potestà «estremamente ampia nel caso di pena illegale a seguito della pronuncia di incostituzionalità delle norme sul trattamento sanzionatorio e ben più limitata nelle ipotesi in cui il vizio della sanzione deriva dall’erronea determina- zione durante il giudizio di cognizione».
33 V. Cass., Sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, Butera, cit., che ha escluso l’emendabilità in executivis della pena detentiva, erroneamente applicata dal giudice di cognizione per un reato di competenza del giudice di pace, in quanto, data la peculiarità del modello sanzionatorio ex artt. 52 ss. d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, l’operazione non costituirebbe una semplice «nuova commisurazione o sostituzione mate- maticamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giu- dice di cognizione», ma un «nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l’intervento del giudice dell’esecuzione»; Id., Sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240/2015, Basile, cit., che, per analoghe ragioni, ha escluso che il giudice dell’esecuzione – date le cir- costanze del caso concreto – potesse convertire in temporanea l’interdizione perpetua dai pubblici uffici erroneamente applicata.
34 Secondo la quale una delle condizioni, perché la pena “convenzionalmente illegale” possa essere ride- terminata dal giudice dell’esecuzione, è che a tal fine basti un’operazione meramente ricognitiva.
35 Sullavicendav.meglioinfra,§3.
36 Cass.,Sez.I,11ottobre2016,n.44193,Dell’Utri,inCass.pen.,2017,1374.
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trattamento sanzionatorio37, si sono spinte a riconoscere al giudice dell’esecu- zione, purché quest’ultima sia ancora in corso, la potestà non solo di rideter- minare anche discrezionalmente la pena, ma addirittura – ove la rivisitazione sanzionatoria incida sulla durata dei termini di prescrizione – di dichiarare ora per allora l’estinzione del reato, con un provvedimento – asseritamente fondato sull’art. 30 co. 4 l. n. 87 del 1953, ma in realtà di assoluta “creazione” pretoria38 – a contenuto proscioglitivo39.
37 Il riferimento è a Corte cost., n. 56 del 2016, dichiarativa dell’illegittimità, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., dell’art. 181, comma 1-bis, d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del pae- saggio) –, recante un’ipotesi delittuosa del reato, altrimenti contravvenzionale, di «opere eseguite in as- senza di autorizzazione o in difformità da essa» su beni paesaggistici –, nella parte in cui prevede che «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di note- vole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed». Per effetto di tale declaratoria, che ha colpito la modifica in peius apportata all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. cit. dalla l. 15 dicembre 2004, n. 308, talune fattispecie delittuose così introdotte sono state riassorbite, per via della riespansione della precedente disciplina, nella meno grave fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. cit. Per un approfondimento BIONDI, Effetti dell’incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. 42/2004 sul giudicato penale: un primo arresto giurisprudenziale, in Dir. pen. cont. (28 novembre 2016), 1 ss.; DE GASPERIS, La pronuncia di prescrizione in executivis come ulteriore rimedio in caso di pena illegale, in Proc. pen. giust., 2018, n. 2, 361; NATALINI, La “contravvenzionalizzazione” del delitto paesaggistico: il sacrificio del precetto (e del giudicato) in nome della (ir)ragionevolezza sanzio- natoria, in Dir. pen. cont. (11 aprile 2016), 1 ss.
38 Infatti,ladeclaratoria‘oraperallora’dellaprescrizionedelreatononpuòcertoqualificarsi‘cessazione dell’esecuzione’ o degli ‘effetti penali’ della condanna, né, come sembra fare la Cassazione, possono con- fondersi questi ultimi effetti – ai quali soltanto si riferisce l’art. 30 co. 4 l. cit. – con gli effetti dell’applica- zione della norma dichiarata illegittima.
39 Cfr. Cass., Sez. III, 11 luglio 2017, n. 38691, Giordano, in www.cortedicassazione.it: la Corte, richia- mando i plurimi precedenti delle Sezioni unite “estensivi” dei poteri del giudice dell’esecuzione in appli- cazione dell’art. 30 co. 4 l. n. 87 del 1953, osserva che «a fronte di una sentenza di illegittimità costituzio- nale che incida sul trattamento sanzionatorio, deve ammettersi che il giudice dell’esecuzione...debba non solo intervenire sulla misura della pena (e, nel caso delle fattispecie oggetto della sentenza n. 56 del 2016, addirittura sulla sua specie), trasformando in legale una sanzione ormai illegale...ma debba anche dichia- rare l’estinzione per prescrizione del reato quando accerti che i termini di cui agli artt. 157 ss. c.p.p. – calcolati sulla sanzione edittale come ricavata dalla pronuncia di incostituzionalità – erano interamente spirati alla data dell’ultima sentenza di merito. Il giudice dell’esecuzione, pertanto, si deve porre – ora per allora – nella stessa ottica che avrebbe avuto il giudice della cognizione se si fosse pronunciato successi- vamente alla declaratoria di incostituzionalità e, con l’unico ed insuperabile limite dei rapporti ormai esauriti e non più ritrattabili, deve dare attuazione alla pronuncia medesima impedendo che la norma già oggetto di censura, ormai espunta dall’ordinamento – possa produrre qualsivoglia ulteriore effetto». In termini nella sostanza analoghi, Id., Sez. III, 11 luglio 1917, n. 52438, Scamardella, ivi; Id., Sez. III, 6 dicembre 2017, n. 7735/2018, Mansi, ivi; Id., Sez. III, 18 luglio 2018, n. 55015, C.L., ivi; Id., Sez. III, 17 settembre 2018, n. 980/2019, Proc. Gen. in proc. Parlato, ivi. In termini critici rispetto a questo orienta- mento, in ragione della sovrapposizione di ruoli fra giurisdizione cognitiva ed esecutiva, CENTORAME, La cognizione, cit., 90 ss.
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In questo panorama, un intervento legislativo di riordino appare indispensa- bile, non potendo certamente bastare un nuovo “interpello” delle Sezioni unite (pure in corso, come preciseremo a breve40). A nostro parere, ove si concordi con la premessa per cui, l’intangibilità del giudicato non giustificando l’esecu- zione di una pena illegale, spetti al giudice dell’esecuzione porvi rimedio, non si può paralizzarne di fatto l’intervento – consentendo che l’esecuzione, invece, prosegua – trincerandosi dietro al difetto, in tale giudice, di poteri discrezionali. La questione da dirimere legislativamente, allora, passa a monte: occorre cioè indicare chiaramente a quali fattispecie di illegalità possa fare fronte il giudice esecutivo – e quali limiti egli debba trarre dal giudicato – e quali, invece, vadano risolte diversamente, ad esempio attraverso un ampliamento delle impugna- zioni straordinarie.
3. Giudice dell’esecuzione e fenomeni di successione normativa incidenti sulla legalità della condanna. Un secondo ambito di ampliamento giurisprudenziale dell’incidente esecutivo coinvolge i casi in cui fenomeni di successione norma- tiva, non riconducibili alle tradizionali – e codificate – ipotesi di abrogazione o dichiarazione di incostituzionalità di una norma incriminatrice, mettano in di- scussione l’an – non soltanto la species o il quantum sanzionatorio – della con- danna irrevocabile.
Tramite un adattamento interpretativo dell’art. 673 c.p.p., un’ormai pacifica giurisprudenza, sul presupposto che il contrasto fra una norma incriminatrice nazionale e una norma di diritto UE si traduca – almeno nel caso in cui la seconda sia sopravvenuta alla prima – in un fenomeno di abolitio criminis, ri- conosce al giudice dell’esecuzione il potere di revocare la condanna, per il reato “comunitariamente” illegittimo, in adempimento dell’obbligo, fondato sull’art. 11 Cost., di disapplicare la norma che lo prevede41. Seppure il richiamo “di- retto” dell’art. 673 c.p.p. susciti qualche perplessità – data la differenza fra l’abrogazione, a cui la disposizione testualmente si riferisce, e la disapplica- zione42 –,l’interventoinexecutivistrovacomunquesolidofondamentonell’art.
40 V.,infra,§3.
41 Cass.,Sez.III,3giugno2014,n.30591,SeckTalla,inwww.cortedicassazione.it;Id.,Sez.I,23settembre 2011, Isoken, in DeJure; Id., Sez. I, 20 aprile 2011, Sall, in Cass. pen., 2011, 3763; Id., Sez. I, 28 aprile 2011, Tourghi, ivi, 2011, 3766.
42 Mentre, infatti, il primo istituto risolve un’antinomia attraverso il criterio cronologico, il secondo la risolve attrevareso il criterio gerarchico.
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2 co. 2 c.p., la cui lettera – «nessuno può essere punito per un fatto che, se- condo una legge posteriore, non costituisce reato e se vi è stata condanna ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali» – lascia più ampi margini interpre- tativi43: ben possono qualificarsi ‘legge’, infatti, gli atti normativi comunitari, e finanche le sentenze della Corte di Giustizia, alle quali cui il nostro Giudice delle leggi ha riconosciuto efficacia erga omnes e rango para-legislativo44. Nulla osta, allora, a individuare per via analogica nell’art. 673 c.p.p. il canale proces- suale dell’intervento del giudice esecutivo: non si tratta, infatti, di applicare per analogia un rimedio post-iudicatum – operazione certamente non consentita – , ma di applicare per analogia ad un intervento post-iudicatum, comunque le- gislativamente previsto nell’an, la disciplina più adatta a calibrarne il quomodo, ciò che, in una prospettiva di favor rei, appare pienamente legittimo45.
Di un’estensione della portata dell’art. 673 c.p.p. si è peraltro discusso – e si sta ancora discutendo – anche con riguardo alla condanna in contrasto col prin- cipio convenzionale di legalità penale, con particolare riguardo al caso in cui il conflitto, fra la norma incriminatrice interna e l’art. 7 CEDU, discenda dalla valenza che, sul piano convenzionale, è attribuita a fenomeni “successori” – in mitius o in peius – di mera fonte giurisprudenziale, in ragione della nozione autonoma di law – comprensiva appunto del diritto giurisprudenziale – adottata a Strasburgo.
Sul fronte della retroattività in mitius la Corte costituzionale, come è noto, ha bloccato sul nascere il tentativo di estendere l’art. 673 c.p.p. all’abolitio criminis di matrice giurisprudeziale, escludendo che tale disposizione, in quanto «non prevede l’ipotesi di revoca della...condanna...in caso di mutamento giurispru- denziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassa- zione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato», confligga, fra l’altro, con gli artt. 25 co. 2 Cost., 117 Cost. e 7 CEDU. In termini decisamente tranchant, la Corte ha fatto leva, oltreché su una certa
43 DEAMICIS,L’efficaciadirettadelladirettivacomunitariasuirimpatrinell’ordinamentointerno,inCass. pen., 2011, 3773; MASERA - VIGANÒ, Addio all’art. 14: nota alla sentenza El Dridi della Corte di Giustizia UE in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, in Rivista AIC, 2011, n. 3, 14.
44 Fralealtre,Cortecost.n.113del1985eId.n.389del1989.Indottrina,VIGONI,Relativitàdelgiudicato ed esecuzione della pena detentiva, Milano, 2009, 192.
45 Dopoavernenegatol’applicazionediretta,ritengonol’art.673applicabileperanalogiaCass.,Sez.I,20 gennaio 2011, Titas Lucas, in DeJure; Id., Sez. VII, 6 marzo 2008, Bujilab, in Mass. Uff., n. 239960. In dottrina GAMBARDELLA, Lex mitior e giustizia penale, Torino, 2013, 218 ss.; MANGIARACINA, Quale sorte per il giudicato nazionale a fronte di un revirement delle Sezioni unite?, in Dir. pen. proc., 2013, 1100.
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ambiguità della giurisprudenza di Strasburgo46, da un lato, sulla diversa portata del principio convenzionale di legalità penale rispetto all’omologo principio costituzionale – dato che solo quest’ultimo è comprensivo del principio di ri- serva di legge formale –, dall’altro, sul principio di soggezione del giudice alla sola legge, il quale sarebbe gravemente minato se il giudice esecutivo, in virtù dell’intervento additivo richiesto, fosse tenuto a revocare la condanna a fronte di una decisione “abolitiva” delle Sezioni unite che, seppure non condividesse, non avrebbe alcuna possibilità di contestare47.
È peraltro difficile negare che proprio la barriera, condivisibilmente alzata dalla Corte costituzionale a una siffatta estensione dell’art. 673 c.p.p.48, abbia a che fare col permissivo orientamento espresso in seguito dalle Sezioni unite, le quali, senza formalmente contestare il dictum del Giudice delle leggi, hanno di fatto individuato uno strumento per parzialmente aggirarlo, affermando che «il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato
46 Ferma restando l’ampia nozione di law, inclusiva del diritto giurisprudenziale, va infatti rimarcato che la giurisprudenza convenzionale, chiarissima nell’affermare la rilevanza anche post-iudicatum del princi- pio di irretroattività in peius (cfr., quanto all’orientamento giurisprudenziale sopravvenuto più sfavore- vole, Corte EDU, Gr. Camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna), lo è molto meno quanto al principio della lex mitior: nella già ricordata sentenza Scoppola c. Italia, ad esempio, tale rilevanza pare esclusa dal passaggio motivazionale secondo cui «se la legge penale in vigore al momento della perpetra- zione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato» (§ 109). In seguito, Corte EDU, Sez. III, 12 gennaio 2016, Gouarrè Patte c. Andorra, ha invece ambiguamente sot- tolineato «la portée limitée», sotto il profilo in esame, della decisione Scoppola, non ritenendo però di soffermarsi sulla questione perché, nel caso di specie, la retroattività di una lex mitior intervenuta succes- sivamente al giudicato poteva fondarsi su una più corretta lettura della legislazione interna. Più di recente, Corte Edu, Sez. V, 12 luglio 2016, Ruban c. Ucraina, ha ribadito l’arrét Scoppola nel dire che la retroat- tività della lex mitior si impone con riguardo alle leggi succedutesi fra il momento della commissione del reato e il giudicato (§ 37), precisando peraltro meglio, rispetto alla sentenza Gouarrè Patte, che l’art. 7 CEDU offre copertura anche ad un intervento revocatorio del giudicato, ma solo nel caso in cui sia la legge interna a prevedere tale possibilità (§ 39); negli stessi termini v. anche C. Edu, Sez. IV, 24 gennaio 2017, Koprivnikar c. Slovenia, § 49. In dottrina cfr. MAZZACUVA, La tensione tra principio della lex mitior e limite del giudicato: la Corte europea elude un confronto diretto con il problema, in Dir. pen. cont. (8 febbraio 2016); VIGANÒ, Nuovi sviluppi in materia di legalità penale, Il libro dell’anno del diritto, 2017, in www.treccani.it.
47 Cfr.Cortecost.,n.230del2012;direcente,laposizioneèstataribaditadaId.,n.25del2019.
48 Sottolinea positivamente la prudenza della Corte costituzionale, fra gli altri, SCACCIANOCE, La retroat- tività della lex mitior nella lettura della giurisprudenza interna e sovranazionale: quali ricadute sul giudi- cato penale?, in questa rivista, 2013, 36 s.; in termini più critici verso la chiusura dimostrata dal Giudice delle leggi, invece, FURFARO, Il mito del giudicato, cit., 33 ss.
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la norma incriminatrice», ed in relazione a un fatto a questa successivo, «allor- ché l’evenienza di abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice di cogni- zione»49. È vero che tale principio di diritto può dirsi compatibile con la littera legis – posto che l’art. 673 c.p.p. tace sul rapporto cronologico fra abolitio e giudicato, e, diversamente dall’art. 2 co. 2 c.p., anche sull’analogo rapporto tra fattoeleggeabolitiva50 –,erispetta,almenoformalmente,ilimitiricavabilidal sistema alla giurisdizione esecutiva – data l’esclusione dell’intervento in execu- tivis, sulla falsariga dell’art. 671 c.p.p., ove la quaestio “abolitiva” sia stata af- frontata (ed evidentemente risolta negativamente) dal giudice di cognizione. È però molto sottile la distinzione proposta dalle Sezioni unite fra il mero novum giurisprudenziale – che, nel giusto ossequio al principio di riserva di legge e di soggezione del giudice alla sola legge, non giustifica la revoca della condanna in executivis –, e la fisiologica attività interpretativa che, a fronte di una “novella” non espressamente abrogativa, necessita di “tempi tecnici” per verificare se di abrogazione davvero si tratti. Ed ancora, diventa difficile giustificare il diverso trattamento dell’error iuris – tale dovendosi qualificare, comunque, la condotta del giudice di cognizione che non rilevi l’abolitio – a seconda che sia o meno “dichiarato”51. Anche sotto questo profilo, quindi, una risistemazione legislativa dei rapporti fra giurisdizione esecutiva e di cognizione, eventualmente per il
49 Cass.,Sez.un.,29ottobre2015,n.26259,Mraidi,inCass.pen.,2016,4009.SottolineacomeleSezioni unite, sebbene esprimano piena adesione ai principi sanciti da Corte cost. n. 230 del 2012, pervangano sia pure incidentalmente a conclusioni opposte, PAZIENZA, La “cedevolezza” del giudicato nelle ipotesi di condanna per fatti successivi all’abrogazione della norma incriminatrice, in Dir. pen. cont. (23 novem- bre 2016), 4.
50 Cfr. in particolare MAZZA, Principio di legalità, diritto giurisprudenziale e giudice dell’esecuzione, in Inazione, controlli, esecuzione, Atti del Convegno in ricordo di Giovanni Dean, a cura di Fonti, Fiorio, Montagna, Pisa, 2017, 205 ss., nonché, con qualche diversa sfumatura, CAPRIOLI - VICOLI, Procedura penale dell’esecuzione, cit., 281; CORDERO, Procedura penale9, 2012, 1241; DEAN, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2004, 61; GAMBARDELLA, Lex mitior e giustizia penale, cit., 245; GATTA, Mutamento di giurisprudenza e revoca del giudicato: a proposito dell’art. 6 comma 3 T.U. imm, in Corr. merito, 2013, 306. In termini critici, invece, SCALFATI, La pronuncia di abolitio criminis nel vigente as- setto dell’esecuzione penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 205 ss; VIGONI, Relatività del giudicato, cit., 197 s.
51 Sottoquestoprofilo,potrebbeineffettiapparirepiùcoerente–ancheseincontrastoconlecaratteristi- che della giurisdizione esecutiva – la tesi che, facendo leva sulla già ricordata assenza nell’art. 673 c.p.p. di riferimenti al rapporto cronologico tra legge abolitiva e giudicato, e mettendo altresì in luce che la disposizione non contiene, diversamente dall’art. 671 c.p.p., una preclusione espressa rispetto alla diversa valutazione espressa dal giudice di cognizione, ipotizza la revocabilità della condanna anche a correzione dell’errore valutativo, ad opera di detto giudice, sulla sussitenza dell’abolitio: cfr. MAZZA, Principio di legalità, cit., 205. V. anche BONTEMPELLI, La resistenza, cit., 1082.
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tramite di una “rimeditazione” degli strumenti di vera e propria impugnazione straordinaria, sarebbe quantomai opportuna.
Il citato precedente delle Sezioni unite è particolarmente significativo altresì laddove afferma – nel contesto del caso di specie, ma con potenziali effetti ge- nerali – che «non vi è ragione di circoscrivere le ipotesi di revoca per abolitio disciplinate dall’art. 673 cod. proc. pen. ai casi previsti dall’art. 2, comma 2, c.p. e non anche a quelli del primo comma (“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”), che traggono valore cogente dall’art. 25, comma 2, Cost.». Così ragio- nando, la Cassazione dimostra infatti un’apertura – fondata su un condivisibile argomento a fortiori – rispetto alla fruibilità dell’incidente esecutivo quale ri- medio anche alla violazione del precetto di irretroattività in peius, della quale dovrà tenersi conto nell’affrontare l’ultimo tema alla nostra attenzione, cioè la possibilità di individuare nello stesso incidente lo strumento per caducare una condanna inflitta in violazione dell’art. 7 CEDU, in ragione dell’imprevedibilità – nel momento di commissione del reato – della relativa base legale.
La questione, come è noto, è concretamente emersa a seguito della sentenza Contrada c. Italia della Corte di Strasburgo, che ha reputato inconciliabile col precetto convenzionale di legalità penale la condanna del ricorrente per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, sul pre- supposto che tale reato, all’epoca dei fatti contestati a Contrada, non fosse «suf- ficientemente chiaro e prevedibile», dato che solo un successivo intervento delle Sezioni unite lo avrebbe esplicitamente e stabilmente “ricavato” dagli artt. 110 e 416-bis c.p.52 Per il giudice di Strasburgo, premesso che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso «costituisc[e] un reato di origine giuri- sprudenziale», la relativa «esistenza» sarebbe emersa con chiarezza solo all’esito del citato intervento nomofilattico, né i giudici interni si sarebbero preoccupati, nonostante le ripetute doglianze dell’imputato Contrada in ordine alla viola- zione dei principi di irretroattività e prevedibilità della legge penale, di esami- nare in modo approfondito «se un tale reato potesse essere conosciuto dal ri- corrente». In definitiva, secondo la Corte dei diritti umani, «all’epoca in cui
52 V.CorteEdu,Sez.IV,14aprile2015,Contradac.Italia,§§66-69,ovesisottolineacomelaconfigura- bilità del concorso esterno in associazione di stampo mafioso sia stata oggetto di «approcci giurispruden- ziali divergenti», trovando compiuta ed esplicita elaborazione «solo nella sentenza Demitry pronunciata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994», in epoca successiva ai fatti ascritti al ricor- rente (riconducibili agli anni 1979-1988).
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sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente, il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo», che «non poteva dun- que conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti»53.
A seguito del giudicato europeo, ed anche in ragione della relativa ambiguità54, significativi contrasti si sono registrati in giurisprudenza sui rimedi idonei a darvi attuazione, nella scelta, in particolare, fra incidente di esecuzione – a norma dell’art. 673 o dell’art. 670 c.p.p. – e revisione “europea”.
Per quanto riguarda il diretto interessato, la soluzione – dopo il definitivo ri- getto nel merito di un’istanza di revisione europea55, pur ritenuta ammissibile56 – è stata individuata nel procedimento esecutivo, in esito al quale la Cassazione,
53 V.CorteEdu,Sez.IV,14aprile2015,Contradac.Italia,cit.,§§73-75.
54 Ci riferiamo, da un lato, al fatto che il dictum Contrada risulti fondato su categorie non del tutto corri- spondenti a quelle nazionali – in ragione della già ricordata diversa capienza, sull’uno e sull’altro fronte, del principio di legalità penale rispetto ai mutamenti giurisprudenziali –, dall’altro, alla scarsa chiarezza in ordine all’ascrivibilità della violazione contestata all’Italia al primo o al secondo periodo dell’art. 7, § 1, CEDU, cioè, rispettivamente, all’an della responsabilità penale, o solo al relativo titolo, e dunque al trattamento sanzionatorio. Sotto questo secondo profilo, in particolare, i plurimi riferimenti della sen- tenza Contrada all’esistenza/inesistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa parrebbero deporre nel primo senso. Tuttavia le battute conclusive della motivazione – ove si afferma che, «data la non sufficiente chiarezza e prevedibilità della fattispecie da ultimo richiamata, il ricorrente non po- teva...conoscere...la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti» – potrebbero accreditare la seconda soluzione, sulla cui base non la responsabilità penale, ma il relativo titolo, sarebbe in discussione (in ragione della sussunzione della condotta del ricorrente, pur sempre penalmente rilevante, in una fattispecie più grave di quella in cui la stessa sarebbe stata sussumibile al tempo dei fatti contestati). Nello stesso ricorso del Contrada alla Corte di Strasburgo, del resto, si dedu- ceva la violazione dell’art. 7 CEDU sul presupposto che l’allora imputato, tenuto conto delle divergenze giurisprudenziali in ordine al reato di concorso esterno, non potesse «prevedere con precisione la quali- ficazione giuridica dei fatti che gli erano ascritti e, di conseguenza, la pena che sanzionava la sua condotta». Senza contare che, dalla ricostruzione del procedimento interno effettuata dalla decisione europea, emerge come l’imputato avesse lamentato, davanti alla Corte di cassazione, la violazione dei principi di irretroattività e prevedibilità della legge penale, chiedendo «che i fatti del caso di specie fossero qualificati piuttosto come favoreggiamento personale».
55 Cfr.Corteapp.Caltanissetta,18novembre2015,inDir.pen.cont.(26aprile2016),divenutadefinitiva dopo la rinuncia del Contrada al ricorso per cassazione e la conseguente declaratoria di inammissibilità di quest’ultimo ad opera di Cass., Sez. V, 20 gennaio 2017, n. 9439, Contrada, in www.cortedicassa- zione.it. Per completezza si segnala altresì che, nel frattempo, Contrada aveva intrapreso altresì la via del ricorso ex art. 625-bis c.p.p., dichiarato inammissibile da Cass., Sez. II, 6 luglio 2016, n. 43386, Contrada, in Cass. pen., 2017, 1427.
56 Criticamente,sottoquest'ultimoprofilo,ESPOSITO,Ildiveniredeigiudici,cit.,38;interminidiametral- mente opposti, si esprime invece a favore dell'ammissibilità dell'istanza di revisione europea V. VALEN- TINI, Normativa antimafia e diritto europeo dei diritti umani, in questa rivista, 2017, 509 s.
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esclusa l’applicabilità, sollecitata dalla difesa, dell’art. 673 c.p.p. – sul presup- posto che la disposizione non possa riferirsi a violazioni, incidenti sull’an della responsabilità, del principio di irretroattività in peius – ha fatto ricorso all’art. 670 c.p.p., che, secondo un’ormai sperimentata lettura estensiva, permette- rebbe di rilevare «tutte le questioni relative non solo alla mancanza e alla non esecutività del titolo, ma anche...alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo», e per tale via di dichiarare la sentenza di condanna, certificata a Strasburgo come contraria all’art. 7 CEDU, «ineseguibile e improduttiva di ef- fetti penali»57.
Il medesimo giudice di legittimità giungeva peraltro a conclusioni diametral- mente opposte nell’occuparsi – in una nota vicenda – degli eventuali effetti “ri- flessi” della sentenza europea in re Contrada, cioè dell’estensibilità del relativo dictum – sulla falsariga di quanto già accaduto nell’affaire Scoppola/Ercolano – a quanti versino in situazione analoga al ricorrente a Strasburgo, siccome con- dannati per “concorso esterno” con riguardo a fatti anteriori alla relativa stabi- lizzazione giurisprudenziale. In quell’occasione, invero, la Corte contestava ra- dicalmente la ravvisabilità nell’incidente esecutivo – a qualunque titolo esperito – di uno strumento attuativo, in via diretta o riflessa, del giudicato europeo, rinnegando – sul piano generale, e non solo ai fini dell’adeguamento conven- zionale – «una lettura generalizzante del giudizio esecutivo come luogo flessi- bile in cui scaricare ogni questione correlata alla esistenza di “vizi o violazioni” in tesi verificatesi in cognizione, posto che il valore del giudicato (e della sua tendenziale intangibilità) resta integro nella sua dimensione di certezza e stabi- lità delle situazioni giuridiche». In particolare – osservava ancora la Corte – l’incidente di esecuzione non sarebbe fruibile nei casi – come quello di specie – «di necessaria discrezionalità circa l’an della responsabilità penale, per fatti sopravvenuti e potenzialmente incidenti sul giudicato»: questi ultimi andreb- bero fronteggiati con la revisione “europea”, reputata esperibile anche da parte di soggetti diversi dal ricorrente a Strasburgo58.
A fronte di un tale conflitto, foriero tra l’altro di un’anomalo ed antieconomico “groviglio” fra i diversi rimedi via via esperiti da un cospicuo numero di c.d. “fratelli minori”, non può certo stupire che la Sezione VI della Cassazione ab- bia nuovamente interpellato le Sezioni unite, chiamate ora a decidere, in pri-
57 Cass.,Sez.I,6luglio2017,n.43112,Contrada,inwww.penalecontemporaneo.it. 58 Cass.,Sez.I,11ottobre2016,n.44193,Dell’Utri,inCass.pen.,2017,1374.
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mis, se la sentenza Contrada abbia “portata espansiva”, in secundis, ed even- tualmente, quale strumento post-iudicatum – fra incidente di esecuzione e re- visione europea – sia fruibile a tal fine59.
Nell’attesa del nuovo intervento del giudice nomofilattico, ma nella convin- zione che la complessità del tema non tolleri oltre soluzioni meramente preto- rie, ci limiteremo a qualche riflessione in ordine a quale potrebbe essere, anche e soprattutto in una prospettiva de iure condendo, una plausibile linea di con- fine tra i due rimedi, sulla quale sia altresì possibile modulare – su un piano più generale – il ruolo, l’ambito applicativo e i limiti della giurisdizione esecu- tiva.
Una premessa è peraltro fondamentale. Come abbiamo già detto60, il problema degli effetti erga alios delle decisioni europee non rappresenta – al più con l’eccezione del c.d. pilot judgement, quale non è la sentenza Contrada – un problema di esecuzione, ex art. 46 CEDU, di quelle decisioni. Ne discende che, rebus sic stantibus, la legittimazione soggettiva a proporre la revisione “eu- ropea” non può essere estesa ai “fratelli minori”, dato che il dispositivo della sentenza costituzionale n. 113 del 2011, introduttiva del rimedio, lo àncora ine- quivocabilmente all’art. 46 CEDU, e quindi al contesto esecutivo. Nell’even- tualità, quindi, in cui alla sentenza Contrada possa riconoscersi “portata espan- siva”, l’unico strumento, ad oggi fruibile da chi versi in situazione analoga, è – sul modello della vicenda Scoppola/Ercolano – la richiesta al giudice esecutivo di dedurre l’incostituzionalità della norma sostanziale alla base della violazione convenzionale, dimodoché – ove la questione venga accolta – lo stesso giudice possa revocare, in tutto o in parte, il giudicato, a norma degli artt. 30 co. 4, l. n. 87 del 1953 e 670 o 673 c.p.p.61
59 Cass., Sez. VI, ord. 22 marzo 2019, Genco, in questa rivista. A commento, BERNARDI, Troppe incer- tezze in tema di "fratelli minori": rimessa alle Sezioni unite la questione dell'estensibilità erga omnes della sentenza Contrada c. Italia, in www.penalecontemporaneo.it; CASCINI, Dopo la sentenza Contrada: tra carenze strutturali dell’ordinamento interno ed esigenze di adattamento al sistema convenzionale, in que- sta rivista, 2019, n. 2; FALATO, L’efficacia estensiva delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. A proposito dei potenziali epiloghi della Cassazione nel caso dei fratelli minori di Bruno Contrada, ivi; SANTORIELLO, Perché l’intervento delle Sezioni unite sulla sorte dei fratelli minori di Con- trada è superfluo ed inutile, ivi.
60 Supra,§2.
61 In questa prospettiva, sulla quale i limiti del presente lavoro non consentono di soffermarsi a fondo, potrebbe ipotizzarsi una questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis c.p. per violazione dei principi di riserva di legge e/o di determinatezza ricavabili dall’art. 25 Cost., prima ancora che dall’art. 7 CEDU. Parrebbe invece decisamente più ardua la via di un intervento sugli artt. 2 c.p. e/o 673 c.p.p.,
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Ciò detto, chiarire i confini tra incidente esecutivo e revisione europea resta determinante per mettere ordine nelle situazioni – di esecuzione “diretta” del giudicato convenzionale – in cui i due rimedi potrebbero astrattamente coesi- stere.
A nostro parere, a fronte di una decisione della Corte di Strasburgo che ravvisi nell’an della condanna – anziché, come nel caso Scoppola, nel relativo quan- tum – una violazione del principio di irretroattività in peius, tanto l’art. 670, quanto l’art. 673 c.p.p., potrebbero applicarsi, ed in via “preferenziale” rispetto alla revisione “speciale”: ciò non tanto perché quest’ultima, come taluno so- stiene, sia limitata alle violazioni convenzionali di matrice processuale62, ma per ragioni “economiche”: nella prospettiva, emergente dal dispositivo della sen- tenza n. 113 del 2011, dell’esperibilità dell’impugnazione straordinaria quando sia necessario per assolvere agli obblighi europei, detto strumento, siccome funzionalmente vocato alla riapertura del processo, potrebbe infatti risultare inadeguato “per eccesso” quando un diverso e più agile rimedio sia disponi- bile63.
A sostegno della prima opzione può osservarsi che se, alla luce della più volte ricordata giurisprudenza, può reputarsi (parzialmente) “mancante” il titolo ese- cutivo che applichi una pena non prevista dalla legge o eccedente i limiti legali,
volta ad estendere il canone di irretroattività in peius agli orientamenti giurisprudenziali: si riproporreb- bero, infatti, gli ostacoli opposti dai principi di riserva di legge, e di soggezione del giudice alla sola legge, già rilevati dalla Corte costituzionale. Anche alla soluzione sopra prospettata rischiano però di opporsi, oltre all’atavico self-restraint della Corte costituzionale a valorizzare appieno i principi di riserva di legge e determinatezza di cui all’art. 25 Cost., significativi dubbi sul fatto che alla giurisprudenza “Contrada” possa riconoscersi quel carattere “consolidato” a cui Corte cost. n. 49 del 2015 condiziona la vincolatività delle decisioni di Strasburgo. Nel case-law convenzionale, infatti, si registrano significative oscillazioni in ordine al controllo di “prevedibilità” ex art. 7 CEDU, dato che in alcune decisioni la Corte di Strasburgo, lungi dal considerare dirimente – come nel caso Contrada – il dato oggettivo dell’assenza di una stabile giurisprudenza, ha ravvisato nelle qualifiche soggettive del ricorrente fattori di “maggior conoscibilità” del rischio penalistico (C. Edu, Sez. V, 6 ottobre 2011, Soros c. Francia, § 53; C. Edu, Sez. V, 1° settembre 2016, X e Y c. Francia, §§ 57 ss.), o ha ritenuto che precedenti “favorevoli” all’illiceità penale di un dato comportamento, ancorché non uniformi, rappresentassero un adeguato avvertimento in ordine al pre- detto rischio (C. Edu, Sez. IV, dec. 14 giugno 2011, Jobe c. Regno Unito).
62 Cfr.ESPOSITO,Ildivenire,cit.,39;FALATO,L’efficaciaestensiva,cit.,24.
63 Per uno spunto in questo senso cfr. MAIELLO, La Cassazione ripristina la legalità convenzionale nel caso Contrada. Il punto di vista del sostanzialista, in Dir. pen. proc., 2018, 227; con qualche diversa sfumatura v. anche BIGIARINI, Il caso Contrada e l’esecuzione delle sentenze della Cedu. Il punto di vista del processualista, ivi, 239; CENTORAME, La cognizione, cit., 53; GRASSO - GIUFFRIDA, L’incidenza sul giudicato interno delle sentenze della Corte europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale, in www.penalecontemporaneo.it. Cfr. altresì Corte cost., n. 210 del 2013, nonché, nella giu- risprudenza di legittimità, Cass., Sez. I, 6 luglio 2017, n. 43112, Contrada, cit.
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a maggior ragione dovrà reputarsi (integralmente) mancante il titolo costituito da una condanna illegale finanche nell’an. Non può però sottacersi che questa soluzione darebbe luogo ad una significativa aporia: considerato, infatti, che la declaratoria di radicale inesistenza del titolo esecutivo non è di ostacolo ad un nuovo processo de eadem re et persona 64, un’irragionevole disparità di tratta- mento potrebbe configurarsi a seconda che il vizio di legalità penale sia dichia- rato dal giudice di cognizione – attraverso una sentenza di assoluzione ‘perché il fatto non è previsto dalla legge come reato’ che, una volta irrevocabile, pre- cluda il bis in idem – o da quello dell’esecuzione. La Cassazione, nel chiudere definitivamente l’affaire Contrada proprio a norma dell’art. 670 c.p.p., elude abilmente il problema, dato che, limitandosi a una declaratoria di “ineseguibi- lità e improduttività degli effetti” del titolo esecutivo, lascia inalterato quest’ul- timo e la relativa portata preclusiva di un nuovo giudizio: ciò a prezzo, però, di un’indebita forzatura della littera legis, laddove prevede le sole fattispecie, af- fatto diverse, della ‘mancanza’ e della ‘non esecutività’ del titolo.
A favore della seconda opzione – certamente più favorevole in quanto, tradu- cendosi in un provvedimento proscioglitivo, tutela l’interessato dal rischio del bis in idem65 –, può invece invocarsi la lettura estensiva dell’art. 673 c.p.p. re- centemente offerta dalle Sezioni unite66: se il giudice dell’esecuzione può revo- care la condanna, per essere il fatto non più previsto dalla legge come reato, quand’anche la legge abolitiva preesistesse al giudicato – alla sola condizione che la questione di successione normativa non sia stata affrontata dal giudice di cognizione –, ben può sostenersi, a fortiori, che la disposizione copra anche il caso in cui il giudice di cognizione abbia erroneamente condannato l’imputato per un fatto che, al momento in cui fu commesso, non era ancora previsto dalla legge come reato.
Nel caso Contrada, peraltro, un ostacolo all’applicazione dell’art. 673 c.p.p., ancorché inteso nell’accezione da ultimo proposta, poteva discendere dall’am- biguità della stessa sentenza della Corte convenzionale, tutt’altro che chiara
64 Cfr.ancheMAIELLO,LaCassazione,cit.,243.
65 Un diverso profilo di maggiore "appetibilità" della soluzione ex art. 673 c.p.p. viene individuato, con riferimento alla vicenda Contrada, da PLANTAMURA, Legalità costituzionale e convenzionale: tra misure di prevenzione e concorso esterno, in questa Rivista, 2018, 22, secondo cui «...la scelta tra il rimedio di cui all’art. 670 c.p.p. e quello di cui all’art. 673 c.p.p., rappresentava, in definitiva, la scelta tra il dare (673 c.p.p.) o il non dare (670 c.p.p.) la possibilità, al Contrada, di presentare una successiva istanza di ripara- zione».
66 Cass.,Sez.un.,29ottobre2015,n.26259,Mraidi,cit.
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nell’ascrivere la violazione al primo periodo dell’art. 7 – e dunque all’an della condanna – o al secondo periodo – e quindi al relativo titolo67, ciò che preclu- derebbe il ricorso all’art. 673 c.p.p., riducendo la scelta – come in effetti è ac- caduto – fra revisione europea e intervento sul titolo esecutivo a norma dell’art. 670 c.p.p.
In una prospettiva di “riordino” parrebbe allora opportuno tenere conto a priori, allorché si discuta di adeguamento convenzionale, di tali situazioni “ibride”, offrendo uno strumento che – senza forzature interpretative – con- senta di includerle tutte. La via più semplice potrebbe apparire la concentra- zione nella sola revisione europea del ristoro di qualsiasi violazione convenzio- nale, ivi comprese – sempre – quelle del principio di legalità ex art. 7 CEDU68. A nostro parere sarebbe però una via – oltreché antieconomica – incoerente, dal punto di vista sistematico, col ruolo ormai assegnato dal diritto vivente al giudice dell’esecuzione nel ricondurre la condanna e la pena entro i confini della legalità “interna”69. Ciò posto, in una prospettiva “a breve termine” merita indubbio apprezzamento la proposta di chi – sulla falsariga della sentenza co- stituzionale n. 113 del 2011 – ipotizza una nuova questione di legittimità, per violazione degli artt. 46 e 117 CEDU, riferita, questa volta, all’art. 673 c.p.p. «nella parte in cui non prevede il caso della revoca della sentenza di condanna per dare esecuzione alle decisioni della Corte Edu che ne abbiano censurato la violazione della legalità di cui all’art. 7 della Convenzione»70. Se, con una piccola variazione, si volesse estendere l’intervento additivo altresì alla mera “modifica” della sentenza di condanna, si disporrebbe di uno strumento – più economico della revisione europea e maggiormente “conservativo” del giudi- cato nei profili di accertamento non messi in gioco dalla decisione della Corte
67 Cfr.,supra,notan.54.
68 Si tratta della via suggerita da Cass., Sez. I, 11 ottobre 2016, n. 44193, Dell’Utri, cit. In dottrina, fra gli altri, LORENZETTO, Violazioni convenzionali e tutela post-iudicatum dei diritti umani, in www.legislazio- nepenale.eu; V. VALENTINI, Normativa antimafia, cit., 509.
69 Non sembra invero ripudiare l’idea di una duplicità di rimedi Cass., Sez. VI, ord. 22 marzo 2019, n. 21767, Genco, cit., che, nell’investire le Sezioni unite, sembra preoccuparsi, piuttosto, di offrire un crite- rio per delimitare i relativi ambiti applicativi. In questa prospettiva, la Corte dà rilievo, nell’opzione fra incidente esecutivo e revisione europea, al fatto che per ristorare la violazione convenzionale «non occor- rano la riapertura del processo, ovvero valutazioni incompatibili con i poteri del giudice dell’esecuzione» – come «di norma» accade a fronte di «violazioni di diritto sostanziale» – oppure sia richiesta «una rivalu- tazione del caso», ad esempio per riconsiderare «il giudizio di colpevolezza» o perché vengono in gioco «violazioni di diritto processuale».
70 Cfr.MAIELLO,LaCassazione,cit.,230.Successivamente,conqualchediversasfumatura,FALATO,L’ef- ficacia estensiva, cit., 33.
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di Strasburgo – in grado di rispondere in via esclusiva a qualsiasi violazione del principio convenzionale di legalità penale, ciò che permetterebbe di coprire quelle “zone grigie” – in cui rientra appunto il caso Contrada – in cui sia dubbia la riferibilità della decisione convenzionale all’an o soltanto al titolo della re- sponsabilità, ma sia d’altra parte indefettibile un intervento in melius sui conte- nuti decisori del giudicato.
4. Conclusioni. Al di là degli eventuali chiarimenti che, in ordine al ruolo del giudice esecutivo nel porre rimedio alle condanne “convenzionalmente ille- gali”, potranno arrivare dalle Sezioni unite o da un nuovo intervento del Giu- dice delle leggi, i tempi sarebbero più che maturi per un intervento legislativo di ampio respiro, il quale, facendo tesoro delle indicazioni del diritto vivente, ne offra finalmente una razionalizzazione.
Si potrebbe allora demandare expressis verbis al giudice dell’esecuzione il com- pito di rimediare – impregiudicato, nel resto, l’accertamento racchiuso nel giu- dicato – a qualsivoglia illegalità della condanna o della pena ascrivibile ad “eventi” – non importa se di fonte legislativa, costituzionale, convenzionale o “comunitaria” – successivi al giudicato. Quanto, invece, alle illegalità preesi- stenti, ed erroneamente non rilevate dal giudice di cognizione – ivi compresi i fenomeni abolitivi “male intesi” dalla giurisprudenza –, ci si dovrebbe interro- gare sull’opportunità di cancellare il discrimen fra l’errore “dichiarato” e quello meramente implicito: ad evitare però che, attribuendo al giudice esecutivo un generalizzato potere di rivisitare le valutazioni “in diritto” del giudice di cogni- zione, cada definitivamente il confine fra le due giurisdizioni – ciò che, fra l’al- tro, renderebbe inevitabile meglio conformare la seconda a tutti i canoni del fair trial –, la via maestra potrebbe rinvenirsi nell’estensione all’error iuris della revisione “ordinaria”71.
Nel ridisegnare quest’ultimo mezzo d’impugnazione, si potrebbe infine ragio- nare sull’attualità, dinnanzi agli ormai amplissimi poteri d’intervento sulla pena illegale, della radicale preclusione a intervenire post-iudicatum a ristoro della pena in facto ingiusta: è invero difficile comprendere perché, quando ad esem- pio emerga una nuova prova sulla sussistenza o insussistenza di una circostanza, questa non possa sorreggere una richiesta di revisione, non potendosi dubitare
71 PerunospuntoinquestosensoNAPOLEONI,Mutamentodigiurisprudenzainbonampartemerevoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. cont. (Riv. trim), 2012, n. 3-4, 166.
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che l’esigenza, di non “sacrificare” al giudicato la tutela del diritto alla libertà personale, ricorra anche in questa eventualità72.
72 SollevalucidamenteilproblemaCAPRIOLI,Giudicatoeillegalitàdellapena,cit.,278s. 24
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