Wednesday, December 6, 2023
Monday, December 4, 2023
Differenziato
PEI differenziato o semplificato, quando si consegue il diploma nella scuola secondaria di II grado
Nuovo PEI, percorso didattico seguito dall’alunno con disabilità e conseguimento o meno del titolo di studio. Cosa cambia tra secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado.
Nuovo PEI
Il modello nazionale di PEI (uno per ordine e grado d istruzione: infanzia, primaria, secondaria di I grado, secondaria di II grado) è stato adottato con il decreto interministeriale n. 182/2020, che ha altresì definito nuove modalità di assegnazione delle misure di sostegno agli alunni con disabilità e adottato le relative Linee Guida.
Percorsi didattici
Le Linee Guida dedicano un apposito paragrafo alla relazione tra percorso didattico, all’interno del PEI, dello studente con disabilità e conseguimento del diploma nella scuola secondaria.
Questi i percorsi possibili:
percorsi didattici ordinari, conformi alla progettazione didattica della classe, sulla base del curricolo d’istituto (nel caso di disabilità attinenti prettamente alla sfera fisica);
percorsi didattici personalizzati in relazione agli obiettivi specifici di apprendimento e ai criteri di valutazione;
percorsi didattici differenziati.
I percorsi di cui ai punti 2 e 3 rientrano rispettivamente in un “PEI semplificato o per obiettivi minimi” (punto 2) e in un “PEI differenziato” (punto 3). Dalla tipologia di PEI adottata (PEI semplificato o differenziato) dipende il conseguimento o meno del diploma conclusivo della scuola secondaria di II grado.
La distinzione tra i sopra riportati percorsi è presente nel nuovo modello nazionale di PEI, ove è inserito il seguente schema riepilogativo (nella scuola primaria e secondaria di primo grado, sono presenti solo le lettere A e B, mentre nella secondaria di II grado è presente anche la lettera C):
A. percorso ordinario;
B. percorso personalizzato (con prove equipollenti);
C. percorso differenziato.
PEI, prove, conseguimento diploma II grado o attestato credito formativo
Il decreto legislativo 62/2017, che disciplina gli esami di Stato di II grado e tratta il tema del PEI solo in relazione a questi ultimi, prevede che l’alunno può svolgere diverse tipologie di prove, a seconda del percorso seguito. Le differenti tipologie di prove (differenziate equipollenti o differenziate non equipollenti) rientrano nei due succitati percorsi:
PEI con percorso didattico personalizzato e prove equipollenti;
PEI con percorso didattico differenziato e prove non equipollenti.
E’ il consiglio di classe a stabilire, all’interno del PEI, la tipologia di prove che lo studente deve sostenere.
Nel caso di PEI con percorso personalizzato e prove differenziate equipollenti, l’alunno consegue il diploma di scuola secondaria di II grado.
Nel caso di PEI con percorso differenziato e prove differenziate non equipollenti, l’alunno non consegue il diploma ma un attestato di credito formativo. Quest’ultimo si consegue anche nel caso in cui l’alunno non si presenti all’esame.
Nelle Linee Guida si evidenzia che è sufficiente una singola “non conformità” in una disciplina per precludere il conseguimento del diploma. Pertanto, basta differenziare quanto previsto in una disciplina oppure esonerare l’alunno dall’insegnamento di una sola materia, affinché il percorso sia differenziato e non conduca al conseguimento del diploma. Ciò è testimoniato anche dalla disposizione dettata dall’articolo 20, comma 13, del decreto n. 62/2017, sulla base della quale uno studente con DSA esonerato dall’insegnamento delle lingue straniere segue un percorso differenziato e non consegue il diploma, bensì l’attestato di credito formativo.
Da quanto detto sopra, è chiaro che gli studenti con disabilità “anche grave hanno un “diritto allo studio” ma non anche “al titolo di studio”. E’ questo il principio enunciato dal Consiglio di Stato in risposta ad un quesito posto dal Miur dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.215/87, da cui trae origine la locuzione “PEI differenziato” (Linee guida).
Passaggio dal PEI differenziato al PEI semplificato
Il passaggio dell’alunno da un PEI differenziato ad uno semplificato, quindi il rientro in un percorso ordinario, è possibile a condizione che lo studente, in apposita sessione, superi prove integrative riguardanti le discipline e i rispettivi anni di corso duranti i quali è stato seguito un percorso differenziato. Nelle Linee Guida si evidenzia come tale passaggio sia difficilmente realizzabile nell’ultimo anno di corso. Si tratta di una grave criticità e una stortura più e più volte segnalata dalle istituzioni scolastiche.
PEI, prove, conseguimento diploma I grado o attestato credito formativo
Nella scuola secondaria di I grado non c’è distinzione tra prove equipollenti e non, poiché l’alunno con disabilità, che sostiene l’esame, consegue comunque il diploma.
Il decreto 62/17, infatti, dispone lo svolgimento di prove d’esame “differenziate, coerenti con il percorso svolto, con valore equivalente ai fini del superamento dell’esame e del conseguimento del diploma”. Le prove, dunque, sono differenziate ma hanno valore equivalente, per cui l’alunno consegue comunque il titolo di studio.
Il rilascio dell’attestato di credito formativo, invece, è previsto soltanto nel caso in cui l’alunno non si presenti all’esame.
Decorrenze
Con la nota n. 40/2021, successiva al succitato DI 182/2020, il Ministero ha chiarito che il nuovo modello di PEI dovrà essere adottato dall’a.s. 2021/22 (può essere utilizzato comunque già dal 2020/21) e che trovano immediata attuazione il PEI provvisorio e il Curricolo dell’alunno.
Fermo restando quanto appena detto, la nuova disciplina, relativa alle commissioni mediche per l’accertamento della disabilità, al profilo di funzionamento (che ricomprende la diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale), al modello di PEI e alle modalità di richiesta e assegnazione delle risorse di sostegno, si dovrebbe applicare agli studenti che passano da un grado di istruzione all’altro, come si legge nell’articolo 19/17bis del D.lgs. n. 66/2017 e come sentenziato dal TAR Lazio. Dopo tale sentenza potrebbe essere utile un ulteriore chiarimento da parte del Ministero.
obiettivi minimi
Programmazione per obiettivi minimi e DSA.
È possibile optare per una “programmazione per obiettivi minimi” anche per alunni con DSA? E si potrà fare anche all’Esame di Stato?
Non esiste la “programmazione per obiettivi minimi”.
Gli obiettivi minimi rientrano tra i criteri di valutazione, eventualmente in certi casi personalizzabili, ed indicano la prestazione minima attesa affinché un obiettivo (o l’insieme degli obiettivi) sia considerato raggiunto.
“Programmazione per obiettivi minimi” dovrebbe significare che vengono proposti e insegnati solo i contenuti ritenuti essenziali per la sufficienza: non è ovviamente così perché l’alunno con DSA è in una classe e fruisce dello stesso insegnamento dei compagni.
Questi studenti sostengono le stesse prove d’esame degli altri, a parte eventualmente le lingue straniere. Può cambiare la modalità di somministrazione (tempi aggiuntivi e uso di strumenti compensativi) ed entro certi limiti è possibile personalizzare i criteri di valutazione, ad esempio assegnando maggior peso ai contenuti e meno alla forma.
Saturday, December 2, 2023
Diritto all'Oblio
il diritto alla riservatezza, sorto in passato come “right to be let alone”[26], viene oggi inteso quale libertà di verificare la diffusione e il trattamento di dati personali[27], col duplice proposito di porre, da un lato, un freno alle indebite ingerenze sulla sfera personale, appartenete a ciascun individuo, e di controllare, d’altro lato, il modo in cui avviene l’edificazione della biografia di ognuno, mediante la diffusione delle relative informazioni[28]. Sul piano normativo, il diritto ad un trattamento rispettoso della propria sfera personale è sancito all’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale indica anche le modalità in cui il trattamento debba concretamente avvenire[29], mentre la protezione della propria vita privata e familiare (ossia di ciò a cui facciamo comunemente riferimento col termine privacy) è garantita dall’art. 7 della stessa Carta[30].
Sempre sulla base dell’art. 2 Cost.[31], è stato successivamente elaborato il diritto all’identità personale, la cui natura è, tuttavia, ben distinta da quella del diritto alla riservatezza[32], seppur ne abbia seguito le orme e ne condivida il fondamento giuridico[33]. Sebbene l’art. 1 del Codice Privacy faccia espresso riferimento al «rispetto della dignità umana»[34], tuttora il contenuto del diritto all’identità personale non trova definizione in alcun testo normativo. Così, è necessario risalirne per il tramite delle riflessioni dottrinali[35] e delle decisioni giurisprudenziali[36]. A proposito, il comun denominatore delle innumerevoli definizioni sembrerebbe posarsi sul sentimento che ciascun individuo nutre di se stesso, per come è via via maturato nel tempo, mediante il singolare approccio alla vita che ognuno realizza con la propria matrice ideologica, il che rende l’individuo una personalità unica nel proprio genere. In ogni caso, bisogna specificare che, alla consapevolezza interiore di sé, deve, comunque, seguire la corretta rappresentazione di sé all’esterno, sempre in linea con i comportamenti e le condotte palesati dalla persona rappresentata[37], in maniera tale da farla sentire pienamente connotata nella vita di relazione con gli altri[38]. A questo punto, c’è comunque da sottolineare che l’interesse ad essere se stessi, congiunto a quello di non vedersi posti in cattiva luce, trova tutela in quanto tale, indipendentemente, cioè, dagli effetti, positivi o negativi, arrecati sull’onore e sulla reputazione ad opera di un travisamento circa gli aspetti della personalità: di conseguenza, anche un travisamento migliorativo potrebbe presentarsi come illegittimo[39].
Come anticipato, i diritti in parola, anche se distinti sul piano concettuale, si fondono quando ci si trova ad operare nell’ambito del corretto trattamento dei dati personali, per il cui soddisfacimento è, al contempo, necessario garantire un margine di riserbo ed una rappresentazione corrispondente alla realtà[40]. Questa contingenza è, a maggior ragione, riscontrabile nel contesto digitale odierno, in cui gli utenti della Rete, a volte volontariamente, altre volte in modo del tutto inconsapevole, concorrono a creare varie rappresentazioni virtuali del proprio essere, le quali si possono palesare molto eterogenee tra loro, proprio per la potenzialità, tipica degli strumenti informatici, di stratificare dati su dati riguardanti le persone, spesso senza alcuna verifica preventiva da parte dei soggetti idonei ad effettuare un’apposita cernita[41]. Per tale ragione, diviene ancor più pregnante assicurare una specifica tutela nei confronti del diritto all’identità digitale, il quale prevede, in particolare, un aggiornamento continuo di quei dati che risultano pertinenti a qualificare ciascun individuo nella sua totalità, per far sì che vengano rimossi quegli elementi che, di converso, hanno perso la loro finalità caratterizzante verso uno specifico soggetto, sebbene l’abbiano avuta in passato[42]. Non a caso, l’art. 9 della Dichiarazione dei diritti in Internet stabilisce che «ogni persona ha diritto alla rappresentazione integrale ed aggiornata delle proprie identità in rete», cosicché, come previsto dallo stesso articolo, «l’uso di algoritmi e di tecniche probabilistiche deve essere portato a conoscenza delle persone interessate, che in ogni caso possono opporsi alla costruzione e alla diffusione di profili che le riguardano»[43]. In tal modo, si può far pulizia di quei dati inutili, e spesso fuorvianti, che altrimenti la Rete continuerebbe ad accumulare e riproporre indebitamente ai suoi utenti[44]. Cosicché, l’oblio diviene lo strumento fondamentale per rivendicare il diritto a vedere rappresentata la propria identità al passo con i tempi, soprattutto quando si siano verificati, nel frattempo, notevoli mutamenti sul proprio essere, che potrebbero aver reso inattuali alcuni tratti identitari, tipici di periodi della vita ormai trascorsi[45].
Nel caso in commento, in aggiunta alle esigenze del soggetto menzionato negli articoli giornalistici, è rinvenibile, sulla sponda opposta, l’interesse dei media a fornire le informazioni al pubblico, a cui fa da contraltare, per l’appunto, l’interesse della collettività a ricevere le informazioni, che rientra nel profilo, per così dire, passivo della libertà di informazione.
Il diritto di cronaca giornalistica è tutelato, e allo stesso tempo limitato, dall’art. 21 Cost., in quanto si presenta come un corollario della libertà di stampa, la quale appartiene, a sua volta, al più ampio genus della libertà di manifestazione del pensiero. L’attività di dare informazioni non è, comunque, fine a se stessa, bensì è strumentale all’interno del processo di creazione di una pubblica opinione, per cui sarebbe impossibile, in un contesto democratico, per di più improntato sul principio di eguaglianza, immaginare una stampa avulsa da una sfera di garanzia, prevista anche a beneficio dei destinatari per cui la stessa stampa esiste ed opera. Così, pur nel silenzio dell’art. 21 Cost., il diritto ad essere informati è del pari desunto, in via interpretativa, ad opera della giurisprudenza costituzionale, dalla disposizione dello stesso articolo[46]. Inoltre, esso trova espresso riferimento in atti normativi sovranazionali: difatti, l’art. 10, co. 1, CEDU sancisce che «ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera […]»; ne fa eco l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a mente del quale «ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere»; lo stesso principio è posto nell’art. 11, co. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui «ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera».
Ad ogni modo, nel perimetro di una democrazia pluralista e digitalizzata, in cui circolano legittimamente una miriade di dati di matrice diversa, il punto focale parrebbe non esser più semplicemente il diritto a ricevere delle informazioni tout court, bensì il diritto di accedere a notizie veritiere, imparziali ed aggiornate, frutto cioè di un giornalismo responsabile[47]. In particolare, una corretta informazione è rinvenibile laddove sussistano alcune condizioni essenziali, grazie alle quali è possibile preservare l’onore, la reputazione e la dignità delle persone menzionate, al punto tale da consentire al diritto di cronaca di assumere i connotati di esimente[48], al pari del diritto di critica e di satira. Tali condizioni rientrano nel c.d. Decalogo del buon giornalista, che è stato formulato dalla giurisprudenza[49], proprio al fine di tratteggiare dei criteri specifici da tener conto in occasione del bilanciamento tra i diritti dei soggetti coinvolti nelle notizie e diritto di informazione, ivi compresi quei casi in cui si palesino i margini per il diritto all’oblio. Questi requisiti consistono nella verità della notizia, nella continenza espositiva, nell’utilità sociale dell’informazione, nella sua essenzialità ed attualità[50]. Un riferimento generico a tali condizioni è presente all’art. 137, co. 3, del Codice Privacy, con riguardo al trattamento dei dati «effettuato nell’esercizio della professione di giornalista» (lett. a), art. 136) e «finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione anche occasionale di articoli» (lett. c), art. 136). In aggiunta, l’art. 139 affida ad un corpo normativo, predisposto dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti e allegato al Codice Privacy, l’individuazione di «regole deontologiche relative al trattamento dei dati di cui all’articolo 136, che prevedono misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli relativi alla salute e alla vita o all’orientamento sessuale»[51].
Allo stesso tempo, nel mezzo tra la notizia e i fruitori del servizio informativo, si posizionano degli intermediari, che prestano anche ulteriori servizi, in aggiunta alla semplice catalogazione[52]. In effetti, l’uso preponderante dei motori di ricerca, per ottenere aggiornamenti costanti e in tempo reale sull’attualità, induce a porre l’attenzione sul trattamento dei dati, forniti da terzi sui siti Internet, che vengono poi raccolti e trattati nei server dei motori di ricerca. In proposito, bisogna rimarcare che «il trattamento di dati personali svolto nel contesto delle attività di un motore di ricerca è cosa diversa e ulteriore rispetto al trattamento svolto dagli editori di siti terzi»[53]. Difatti, il motore di ricerca, come già scritto, fa solo da intermediario per giungere alla notizia, ma non contribuisce a creare la notizia medesima. Ciononostante, l’evoluzione normativa e la giurisprudenza propendono sempre di più verso una responsabilizzazione dei motori di ricerca, per far sì che, in una realtà eterea senza confini, com’è quella virtuale, trovino, comunque, soddisfacimento sia gli interessi degli utenti che gli interessi dei soggetti nominati sui siti[54].
In conclusione, preme ribadire che il diritto alla riservatezza e all’identità personale aggiornata, da un lato, e il diritto di informazione e di cronaca, dall’altro, sono diritti fondamentali di pari rango costituzionale. Ne consegue che è inammissibile predeterminarne una gerarchia fissa, mediante la quale enucleare, una volta per tutte, quale tra questi diritti possa ritenersi predominante rispetto agli altri, con un ragionamento semplicistico in termini di assolutezza[55]. Ne discende la necessità di operare, caso per caso, un bilanciamento giudiziale sulla base di tutte le circostanze significative[56], il quale, sebbene consenta di esaltare, di volta in volta, le peculiarità del singolo caso, non può, del resto, esonerare dal rischio di creare alcune difformità tra le varie decisioni[57].
Friday, December 1, 2023
Camini Aperti
Il divieto per i camini aperti
Sono molte le località italiane in cui è vietato utilizzare i camini aperti, con lo scopo di favorire la lotta all’inquinamento dell’aria, purtroppo aggravato dall’uso di queste soluzioni per il riscaldamento.
Camino a legna aperto tradizionale
Un divieto che non è esteso a priori all’intero Paese, ma che riguarda tutti i Comuni situati ad un altitudine inferiore ai 300 metri, nelle regioni Lombardia ed Emilia Romagna.
Ulteriori restrizioni ci sono anche in altre regioni, come il Piemonte e il Veneto. Il parametro è stato scelto in relazione al clima che contraddistingue le località più fredde, dove il camino contribuisce molto al riscaldamento degli edifici.
I provvedimenti sopra accennati, sono ormai in vigore da alcuni anni, ma non sempre vengono rispettati.
Che cosa si intende per camino aperto
Per camino aperto si intende un focolare a fiamma libera, quindi senza un vetro. Si tratta di una tipologia di camino spesso tradizionale, ma non solo, in quanto negli scorsi anni sono stati installati ancora dispositivi, anche moderni, fatti in questo modo.
In realtà, questa tipologia di camini, soprattutto di nuova installazione, nasce più come componente d’arredo che come soluzione per il riscaldamento della casa, tanto che anche la sua efficienza non è adeguata ai livelli richiesti ora per le abitazioni.
Però, ciò che davvero non li rende adatti ad essere accesi con elevata frequenza, è proprio il loro contributo all’inquinamento atmosferico, in quanto sono fonte di polveri sottili e altri inquinanti. Utilizzare un camino di questa tipologia, quindi, vanifica il vantaggio di ricorrere ad una fonte rinnovabile e naturale come la legna, generalmente considerata a impatto zero in quanto, durante il suo ciclo di vita, un albero assorbe una quantità di emissioni almeno pari a quanta ne produce durante la combustione.
Perché installare un caminetto chiuso a norma
Un caminetto chiuso, invece, prevede la presenza di un vetro temprato che isola il focolare dall’ambiente, aumentano l’efficienza della combustione e il calore prodotto e riducendo le emissioni di sostanze inquinanti.
Perché installare un caminetto chiuso a norma
Un’ulteriore evoluzione avvenuta, poi, è quella che prevede la sostituzione della legna con il pellet, con la possibilità di programmare e regolare il camino in modo ancor più puntuale. In ogni caso, al di là del modello installato, un camino chiuso moderno riscalda la casa in modo più efficiente, è più sicuro per le persone che la abitano ed è decisamente meno inquinante.
Per misurare al meglio le prestazioni di questi nuovi camini, si utilizza una classificazione a stelle: più stelle si raggiungono (il massimo è 5), più le performance ambientali sono buone.
Un camino aperto può essere riqualificato e messo a norma?
La Legge non prevede tanto il divieto di uso del camino, ma piuttosto che lo si usi per il riscaldamento solo nel caso in cui rispetti la normativa. Anche un camino aperto, quindi, può essere riqualificato e trasformato in un camino chiuso efficiente, eventualmente in grado anche di scaldare tutti gli ambienti domestici, tramite apposito sistema di canalizzazione. In ogni caso, il risultato ottenuto deve essere coerente con le prestazioni richieste.
Un camino aperto può essere riqualificato e messo a norma?
Ad esempio, in Lombardia si possono installare sistemi a biomassa a 4 o 5 stelle e non si possono accendere sistemi che abbiano meno di 3 stelle. Alcuni divieti più stringenti, poi, possono essere imposti in periodi specifici dell’anno. Inoltre, è necessario rispettare la normativa in materia di manutenzione, anche per gli impianti di riscaldamento a legna. Sono previsti controlli periodici della canna fumaria, che in Lombardia diventano annuali da questo inverno.
Inoltre, l’intero impianto deve essere sottoposto a manutenzione, con una frequenza che varia a seconda della potenza del camino. Il consiglio, è quello di affidarsi sempre a manutentori professionali, in Regione Lombardia registrati nel CURIT, che rilasciano anche il Rapporto di Controllo regionale.
All’utente, chiaramente, è demandata la pulizia quotidiana del camino, necessaria per assicurarne le massime prestazioni.
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