Monday, November 16, 2020

Non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis, c.p.). “ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo nel reato di cui all’art. 483 c.p., non sempre rileva la condotta di chi dichiari di non aver riportato condanne nel caso in cui gli sia stata applicata la pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – purché siano rispettati i criteri-parametro ostativi rispetto al riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis, c.p., la Corte di legittimità non può entrare nel merito di una decisione del giudice della cognizione adeguatamente motivata”. Cassazione Penale, Sez. V, sent. n. 11240/19 dep. 13.3. 2019, ud. 28.2.2019. Commento a cura dell’Avv. Emanuele Lai. Fatto. Il Tribunale di Salerno ha prosciolto A.C. dal reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) ai sensi dell’art. 131-bis, c.p. I fatti ascritti all’imputato attengono alla dichiarazione di incensuratezza, sostitutiva dell'atto di notorietà, resa alla Provincia di Salerno a corredo dell'istanza di rilascio del decreto di nomina a guardia giurata volontaria ittica. A carico di A.C., infatti, era stata emessa anni prima una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Avverso la sentenza di proscioglimento proponeva ricorso il Procuratore generale sulla base dell’asserita violazione dei criteri di cui all’art. 131-bis c.p., ritenendo il fatto di rilevante gravità. Rilievi giuridici. La V Sezione penale ha ritenuto il ricorso infondato. Con riferimento al delitto di cui all’art. 483 c.p., si è premesso che, se è vero che integra il delitto in parola la condotta di chi, in una autocertificazione sostitutiva diretta alla pubblica amministrazione, dichiari di non avere riportato condanne penali o di non avere procedimenti penali in corso, non altrettanto può dirsi laddove la dichiarazione attenga a sentenze di patteggiamento. In considerazione della natura affatto peculiare di tale pronuncia e degli effetti ad essa connessi, infatti, possono insorgere difficoltà nella prova di una piena consapevolezza in capo al dichiarante circa la falsità delle attestazioni. Il delitto, infatti, è da escludersi laddove le condotte contestate siano da ricondursi ad un contegno colposo, dovuto alla scarsa dimestichezza con determinati istituti giuridici come quello di cui agli artt. 444 e ss. c.p.p., salva la possibilità, ovviamente, di pervenire a sentenza di condanna laddove si sia raggiunta la piena prova circa la malafede del dichiarante. Ciò posto, i giudici di legittimità, dopo aver ripercorso l’iter giurisprudenziale attraverso il quale si è meglio precisato l’ambito applicativo della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis, c.p., ne hanno condivisa l’estendibilità altresì alla fattispecie portata al loro vaglio. In particolare, la tenuità dell’offesa si articolerebbe in due c.d. “indici-requisiti”: modalità della condotta e esiguità del danno. Onere del giudice, quello di rilevare, sulla base di tali requisiti, la tenuità dell’offesa che – unitamente al giudizio di non abitualità del comportamento ed entro le soglie di pena indicate dalla norma – consentiranno di escludere la punibilità nonostante l’accertamento della commissione del reato. La Corte prosegue richiamando le Sezioni Unite che, con pronuncia del 25.2.2016 n. 13681, hanno evidenziato come, ai fini della non punibilità ex 131-bis c.p., occorra una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, c.p. delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo. Ogni automatismo – eccetto le “rime obbligate” dei limiti edittali e dell’abitualità – va ripudiato. Anche eventuali precedenti penali, pur potendo rappresentare materia per la valutazione della gravità della condotta e dell’allarme sociale, non possono essere posti acriticamente a fondamento della mancata concessione del beneficio. Il Tribunale di Salerno – ritiene la V Sezione – ha fatto buon uso dei principi su riportati, pervenendo alla declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Il precedente per il quale veniva applicata la pena ex art. 444 c.p.p., infatti, risulta così risalente e superato dalla successiva condotta dell’interessato da non ostacolare il riconoscimento della causa di non punibilità. Per il resto, apparendo la decisione del primo giudice adeguatamente motivata, non può rappresentare oggetto di valutazione dei giudici di legittimità i quali, pur potendo scrutinare eventuali violazioni dei criteri-parametro ostativi predeterminati (quelli attinenti ai limiti di pena, all’abitualità, etc.) certamente non possono entrare nel merito di una valutazione motivata che rientra nel margine di discrezionalità del giudice della cognizione. non punibilità per particolare tenuità del fatto Stampa Email

Friday, November 13, 2020

SENTENZA N. 231 ANNO 2018 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 2, 24 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)», promossi dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 18 novembre 2016, dal Tribunale ordinario di Palermo con ordinanza del 19 marzo 2018 e dal Tribunale ordinario di Genova con due ordinanze del 20 e 27 marzo 2018, iscritte rispettivamente al n. 47 del registro ordinanze 2017 e ai nn. 91, 117 e 118 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2017 e nn. 25 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2018. Visti l’atto di costituzione di F. C. e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella udienza pubblica del 6 novembre e nella camera di consiglio del 7 novembre 2018 il Giudice relatore Francesco Viganò; udito l’avvocato Barbara Baroni per F. C. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 18 novembre 2016 (r.o. n. 47 del 2017), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)» (d’ora in poi, anche: t.u. casellario giudiziale), nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), in riferimento al «principio di eguaglianza e conseguentemente di ragionevolezza» di cui all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui «non prevedono che nel certificato generale del casellario giudiziale e nel certificato penale chiesto dall’interessato non siano riportate le ordinanze di sospensione del processo emesse ai sensi dell’art. 464-quater c.p.p.». Il giudice a quo, dopo aver premesso di essere chiamato a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 464-septies del codice di procedura penale, sull’esito della messa alla prova dell’imputato, ritiene che la questione sia rilevante, dal momento che la disciplina sopra richiamata si applicherebbe nel caso di specie nei confronti dell’imputato. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo evidenzia come la mancata inclusione, da parte delle disposizioni censurate, delle ordinanze di sospensione del processo con messa alla prova tra quelle la cui menzione deve essere omessa nei certificati richiesti dai privati determini una irragionevole disparità di trattamento rispetto a «quanto stabilito dal legislatore per percorsi processuali che pure addivengono a provvedimenti definitori non radicalmente diversi», come la sentenza pronunciata su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 445 cod. proc. pen. o il decreto penale di condanna (art. 460 cod. proc. pen.). Con particolare riferimento a quest’ultimo provvedimento, il giudice a quo sottolinea la maggiore meritevolezza del beneficio della non menzione nel certificato del casellario giudiziale per chi, anziché prestare mera acquiescenza a un decreto penale, si sia «attivato in un comportamento di utilità sociale che gli vale una sentenza di estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen.». Il giudice a quo è consapevole che i due tertia comparationis individuati hanno ad oggetto «procedimenti definitori […] ritenuti meritevoli dal legislatore che ha previsto delle premialità, tra le quali la non iscrizione del provvedimento definitorio sul certificato del casellario giudiziale richiesto dall’interessato». Tuttavia, egli ritiene incompatibile con il principio di eguaglianza che il beneficio della non menzione sia negato proprio rispetto al provvedimento di messa alla prova, il quale, tra i tre considerati, è quello che, perseguendo uno scopo parimenti deflattivo, «prevede una condotta attiva dell’imputato in lavori socialmente utili, in un percorso di sensibilità e di recupero sociale tutt’altro che indispensabile negli altri due procedimenti considerati». 1.1.– Con atto depositato il 26 aprile 2017, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce anzitutto che il giudizio a quo è destinato a concludersi con una pronuncia di estinzione del reato, stante l’esito favorevole della messa alla prova, senza che le disposizioni censurate possano trovare in alcun modo applicazione in quella sede, tali disposizioni concernendo piuttosto una fase procedimentale successiva; dal che l’irrilevanza delle questioni proposte. Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che «la scelta delle decisioni giurisdizionali da riportare nei certificati a richiesta dell’interessato rientra nella piena discrezionalità del Legislatore», come già affermato in passato da questa Corte con sentenza n. 223 del 1994, e che tale discrezionalità incontri l’unico limite della manifesta irragionevolezza, nel caso di specie non ravvisabile. 2.– Con ordinanza del 19 marzo 2018 (r.o. n. 91 del 2018), il Tribunale ordinario di Palermo, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del d.P.R. n. 313 del 2002, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale del casellario giudiziale e nel certificato penale chiesto dall’interessato non siano riportate l’ordinanza di sospensione del processo emessa ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen. e la sentenza che dichiara l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen. Il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi nell’ambito di un procedimento di esecuzione instaurato da un soggetto nei cui confronti era stata pronunciata, all’esito positivo della messa alla prova, sentenza di estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen., al fine di ottenere la cancellazione delle iscrizioni di entrambi i provvedimenti dai certificati richiesti dai privati. Quanto alla rilevanza delle questioni, il giudice rimettente ritiene di «essere chiamato ad esercitare una effettiva e attuale potestas decidendi proprio in relazione alle norme sospettate di incostituzionalità», posto che, ove la questione non venisse prospettata, egli dovrebbe respingere l’istanza della parte, stante il tenore letterale delle disposizioni impugnate che non contemplano, tra le eccezioni alle iscrizioni nel casellario da riportarsi nei certificati a richiesta dell’interessato, i provvedimenti relativi alla messa alla prova. Né sarebbe possibile, ad avviso del giudice a quo, «addivenire a una interpretazione conforme, a meno di non cedere ad una manipolazione additiva delle previsioni relative a casi analoghi espressamente contemplati fra le “eccezioni” previste dai due articoli». Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni con riguardo all’art. 3 Cost., il giudice a quo richiama l’ordinanza del 18 novembre del 2016 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze (r.o. n. 47 del 2017) sulle stesse disposizioni, ribadendo l’irragionevolezza di una disposizione che impone la menzione nei certificati del casellario di vicende giudiziarie meno gravi di altre per le quali è invece prevista la non menzione. Un ulteriore motivo di irragionevolezza è ravvisato rispetto al diverso e più favorevole trattamento riservato ai provvedimenti che dichiarano la non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis del codice penale, anch’essi esclusi dalla menzione nei certificati del casellario giudiziale. Dinanzi a fatti di identico disvalore, ben potrebbe infatti il giudice applicare la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, così come accogliere la richiesta di messa alla prova. Ciò perché «l’area di applicazione dei due istituti – prima nella legge e poi nella prassi – appare in gran parte coincidente». Di qui l’irragionevolezza consistente nel riservare un trattamento deteriore, rispetto alla menzione nei certificati del casellario, all’ipotesi in cui l’imputato, per ottenere l’estinzione del reato, si impegna in condotte risocializzatrici. Rispetto poi all’art. 27 Cost., il giudice a quo ritiene che l’iscrizione dei provvedimenti relativi alla messa alla prova in relazione a un reato dichiarato estinto per esito positivo della messa alla prova farebbe permanere «l’onta legata al trascorso giudiziale […] così vanificando la positiva esperienza risocializzatrice» del soggetto interessato. Ciò perché «l’ingiustizia delle conseguenze legate alle proprie azioni è di ostacolo alla funzione rieducatrice alla quale è finalizzato l’intervento statuale per il tramite della sanzione penale, con considerazioni che devono essere estese anche agli effetti penali della non-condanna in discorso». 2.1.– Con atto depositato il 10 luglio 2018, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, assistito e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata alla luce di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni impugnate. L’Avvocatura generale dello Stato, in particolare, ritiene che l’ipotesi di estinzione del reato in esito a messa alla prova sia assimilabile a quella dell’estinzione del reato in esito al periodo di sospensione condizionale della pena, in assenza di commissione di delitti o contravvenzioni della stessa indole e in presenza dell’adempimento degli obblighi imposti da parte del condannato a pena condizionalmente sospesa, ai sensi dell’art. 167, primo comma, cod. pen.; ipotesi, quest’ultima, la cui non menzione nei certificati richiesti dal privato è espressamente prevista dalle disposizioni in questa sede censurate. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato sarebbe, dunque, «il genus dell’estinzione del reato che “eccepisce” all’iscrizione, indipendentemente dalla sua species». A sostegno di tale prospettazione, l’Avvocatura generale dello Stato richiama la giurisprudenza con la quale la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile il beneficio della non menzione nei certificati del casellario anche all’ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444, comma 1, cod. proc. pen. (cosiddetto patteggiamento allargato), la cui introduzione è sopravvenuta allo stesso t.u. casellario giudiziale. Ben avrebbe potuto, pertanto, il giudice a quo ricondurre la fattispecie a quella prevista espressamente nella richiamata lettera b) (estinzione del reato ai sensi dell’art. 167, primo comma, cod. pen.) e accogliere l’istanza del ricorrente. 3.– Con ordinanza del 20 marzo 2018 (r.o. n. 117 del 2018), il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 2, e 24 del d.P.R. n. 313 del 2002, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.: la prima disposizione nella parte in cui non prevede l’eliminazione dal casellario giudiziale dell’iscrizione dell’ordinanza che, ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen., dispone la sospensione del processo per messa alla prova, allorché il procedimento penale venga concluso con sentenza che dichiara l’estinzione del reato a seguito di esito positivo della messa alla prova; e l’art. 24 nella parte in cui non prevede, tra i provvedimenti che non devono essere riportati nel certificato generale del casellario giudiziale richiesto dall’interessato, la sentenza che dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova. Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a pronunciarsi, in sede di esecuzione, su un ricorso proposto da un soggetto nei cui confronti è stata emessa una sentenza di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ex art. 464-septies cod. proc. pen. Il ricorrente chiedeva, in particolare, la cancellazione dell’iscrizione tanto dell’ordinanza che aveva sospeso il processo ai sensi dell’art. 464-bis cod. proc. pen., quanto della successiva sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato. Dopo avere evidenziato la rilevanza della questione – posto che, in assenza dell’intervento caducatorio richiesto a questa Corte, il ricorso dovrebbe essere respinto –, il giudice osserva, con riguardo al principio d’eguaglianza, che l’art. 24 del d.P.R. n. 313 del 2002 dispone la non menzione nel certificato del casellario a richiesta dell’interessato di una serie di provvedimenti – quali, in particolare, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e i decreti penali di condanna – relativi a situazioni ben più gravi di quella della messa alla prova con esito positivo, nella quale non viene neppure emessa una sentenza di condanna. Con riguardo poi alla funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27, comma terzo, Cost., il Tribunale rimettente osserva che il soggetto, che pure ha beneficiato con esito positivo della messa alla prova, non solo non verrebbe agevolato nel proprio percorso di reinserimento sociale, ma addirittura finirebbe per essere «quasi pregiudicato dalla menzione sia dell’ordinanza che della sentenza in oggetto, riguardante peraltro un reato estinto», con particolare riguardo al rischio che tale menzione possa influire negativamente sulle sue prospettive lavorative. 3.1.– Con atto depositato il 26 settembre 2018, si è costituita la parte privata C. F. a mezzo del proprio difensore, rilevando, in riferimento all’art. 5, comma 2 del d.P.R. n. 313 del 2002, l’irragionevolezza del mantenimento dell’iscrizione dell’ordinanza di sospensione con messa alla prova, posto che il procedimento penale in questione si chiude una volta intervenuta la sentenza di estinzione del reato. Tale irragionevolezza sarebbe aggravata dal fatto che detta iscrizione permane anche in caso di revoca dell’ordinanza di sospensione. In riferimento all’art. 24 del d.P.R. n. 313 del 2002, la parte privata ha sostanzialmente ribadito le argomentazioni svolte dal giudice rimettente con riguardo a entrambi i parametri di costituzionalità da questi evocati. 4.– Con ordinanza del 27 marzo 2018 (r.o. n. 118 del 2018), il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del d.P.R. n. 313 del 2012, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., articolando argomentazioni, in punto di non manifesta infondatezza, che ricalcano quelle della già menzionata ordinanza del 20 marzo 2018 sollevata dallo stesso ufficio giudiziario (r.o. n. 117 del 2018). Rispetto al contrasto tra le disposizioni impugnate e l’art. 3 Cost., il giudice a quo evidenzia, altresì, l’ulteriore profilo di disparità di trattamento tra l’obbligo di menzionare i provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati richiesti dai privati e la non menzione delle sentenze di condanna per le quali il giudice abbia espressamente disposto tale beneficio ai sensi dell’art. 175 cod. pen. Considerato in diritto 1.– Con quattro ordinanze di contenuto analogo, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze e i Tribunali ordinari di Palermo e di Genova hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, comma terzo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)» (d’ora in poi, anche: t.u. casellario giudiziale), nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale chiesti dall’interessato non siano riportate le ordinanze di sospensione del processo emesse ai sensi dell’art. 464-quater del codice di procedura penale e le sentenze di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ex art. 464-septies cod. proc. pen. Il solo Tribunale ordinario di Genova, nell’ordinanza iscritta al r.o. n. 117 del 2018, solleva altresì questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., dell’art. 5, comma 2, del medesimo t.u. casellario giudiziale. 2.– Preliminarmente, considerata la stretta connessione delle questioni sottoposte all’esame di questa Corte, i giudizi devono essere riunti per una decisione congiunta. 3.– Con riguardo alla questione sollevata dal GIP del Tribunale di Firenze (r.o. n. 47 del 2017), l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce la sua irrilevanza nel giudizio a quo, che appare destinato a concludersi con pronuncia di estinzione del reato per esito favorevole della messa alla prova, senza che le disposizioni censurate possano trovare in alcun modo applicazione in tale sede, tali disposizioni concernendo piuttosto una fase procedimentale successiva. L’eccezione è fondata. Come già questa Corte ha avuto modo di chiarire in altra vicenda analoga, nel giudizio di cognizione il giudice «non può in nessun caso ritenersi investito della applicazione di una disciplina […] come quella relativa alle iscrizioni nel casellario giudiziale», le cui questioni «potranno […] venire in discorso e assumere correlativa rilevanza soltanto in executivis» (ordinanza n. 414 del 2000). Ai sensi dell’art. 40 del t.u. casellario giudiziale, infatti, spetta soltanto al giudice dell’esecuzione, in composizione monocratica, pronunciarsi «[s]ulle questioni concernenti le iscrizioni e i certificati del casellario giudiziale e dei carichi pendenti». 3.– Va poi dichiarata l’inammissibilità, per totale carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza, delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, del t.u. casellario giudiziale sollevate dal Tribunale di Genova (r.o. n. 117 del 2018), nella parte in cui la disposizione censurata non prevede l’eliminazione dal casellario giudiziale dell’iscrizione dell’ordinanza che, ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen., dispone la sospensione del processo per messa alla prova, allorché il procedimento penale venga concluso con sentenza che dichiara l’estinzione del reato a seguito dell’esito positivo della messa alla prova. Sebbene, infatti, il giudice rimettente faccia oggetto di censura sia tale disposizione sia quella di cui all’art. 24 del t.u. casellario giudiziale, la motivazione sulla non manifesta infondatezza è riferita esclusivamente al citato art. 24. 4.– In via ancora preliminare, occorre dare atto che, nelle more del presente giudizio, è sopravvenuto il già citato d.lgs. n. 122 del 2018, con cui il Governo ha provveduto a riformare, tra l’altro, anche le disposizioni oggetto delle censure formulate nelle ordinanze dei giudici a quibus. Oltre a rendere esplicito, all’art. 1, comma 1, l’obbligo di iscrivere nel casellario giudiziale – accanto alle ordinanze che sospendono il processo e concedono la messa alla prova ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen. – anche le sentenze che dichiarano estinto il reato in seguito all’esito positivo della messa alla prova ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen., la novella fa confluire in un unico documento i certificati generale e penale del casellario giudiziale, rilasciati a richiesta dell’interessato, previsti dalla previgente normativa (art. 4, comma 1, lettera b); e, per quanto qui più direttamente rileva, esclude la menzione in tale certificato unico di entrambi i provvedimenti concernenti la messa alla prova (art. 4, comma 1, lettera b, n. 5, che aggiunge le lettere m-bis e m-ter all’elenco contenuto nell’art. 24, comma 1, del t.u. casellario giudiziale). L’esclusione della menzione di tali provvedimenti nel certificato del casellario giudiziale a richiesta dell’interessato persegue lo scopo di superare i dubbi di costituzionalità relativi alla disciplina previgente. Si legge, infatti, nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 122 del 2018, in riferimento ai due menzionati provvedimenti sulla messa alla prova, che la decisione «di razionalizzare il sistema delle iscrizioni e dell’oscuramento parziale di tali indicazioni nelle certificazioni rilasciate su richiesta dell’interessato» è stata ispirata proprio dall’esigenza di superare le «irragionevoli disparità di trattamento e [la] violazione del principio rieducativo della pena già denunciate da più autorità giurisdizionali alla Corte costituzionale». La sopravvenuta modifica legislativa, tuttavia, non impone la restituzione degli atti ai giudici remittenti, essendo essa ininfluente nei giudizi a quibus. Il decreto legislativo n. 122 del 2018 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 26 ottobre 2018, n. 250, Supplemento ordinario n. 50), infatti, prevede che le disposizioni in esso contenute «acquistano efficacia decorso un anno dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» (art. 7). 5.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, t.u. casellario giudiziale, nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal d.lgs. n. 122 del 2018, sono fondate. 5.1.– Va anzitutto esclusa la proposta interpretativa che, nell’atto di intervento relativo all’ordinanza del Tribunale ordinario di Palermo, è stata avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato al fine di superare i dubbi di costituzionalità che concernono le disposizioni censurate attraverso una loro interpretazione conforme; in particolare, va esclusa l’estensione analogica ai provvedimenti sulla messa alla prova della previsione della non menzione, nei certificati del casellario giudiziale, delle condanne per reati estinti a norma dell’art. 167, primo comma, del codice penale (ossia per i reati dichiarati estinti una volta decorso il periodo di sospensione condizionale della pena in assenza di commissione di nuovi delitti o contravvenzioni della stessa indole, e in presenza dell’adempimento degli obblighi imposti). Infatti, le disposizioni relative al contenuto dei certificati del casellario giudiziale, oggetto delle censure dei giudici a quibus, sono articolate attorno a una regola generale – quella per cui tutti i provvedimenti iscritti nel casellario vanno riportati nei certificati – assistita da una serie di puntuali deroghe (le lettere dalla a alla m dell’art. 24, comma 1, e dalla a alla o dell’art. 25, comma 1, del t.u. casellario giudiziale), che costituiscono altrettante eccezioni a tale regola generale. In omaggio al criterio ermeneutico di cui all’art. 14, secondo comma, delle Preleggi, queste deroghe non possono che intendersi come tassative, e insuscettibili pertanto di estensione analogica, tanto più a fronte delle importanti differenze normative e concettuali tra gli istituti della sospensione condizionale della pena e della messa alla prova. 5.2.– Rispetto alle censure formulate in relazione all’art. 3 Cost., occorre osservare come l’implicito obbligo di includere i provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti da privati finisca per risolversi in un trattamento deteriore dei soggetti che beneficiano di questi provvedimenti, orientati anche a una finalità deflattiva con correlativi risvolti premiali per l’imputato, rispetto a coloro che – aderendo o non opponendosi ad altri procedimenti, come il patteggiamento o il decreto penale di condanna, ispirati essi pure alla medesima finalità – beneficiano già oggi della non menzione dei relativi provvedimenti nei certificati richiesti dai privati. Rispetto in particolare al patteggiamento, questa Corte ha in effetti già avuto modo di qualificare il beneficio ex lege della non menzione delle sentenze ex art. 444 e seguenti cod. proc. pen. nel certificato del casellario giudiziale come un incentivo finalizzato a indurre «l’imputato a pervenire sollecitamente alla definizione del processo» (sentenza n. 223 del 1994). Poiché tanto la messa alla prova quanto il patteggiamento costituiscono procedimenti «diretti ad [assicurare all’imputato] un trattamento più vantaggioso di quello del rito ordinario» (sentenza n. 91 del 2018), non è conforme a ragionevolezza che il beneficio della non menzione venga riconosciuto ex lege a chi si limiti a concordare con il pubblico ministero l’applicazione di una pena sulla base di un provvedimento equiparato a una sentenza di condanna, salve le eccezioni previste dalla legge (art. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen.), e non – invece – a chi eviti la condanna penale attraverso un percorso che comporta l’adempimento di una serie di obblighi risarcitori e riparatori in favore della persona offesa e della collettività, per effetto di una scelta volontaria, e con esiti oggettivamente e agevolmente verificabili: e ciò nella medesima ottica di risocializzazione cui avrebbe dovuto tendere la pena, qualora il processo si fosse concluso con una condanna. Inoltre, mentre per la generalità dei casi esiste la possibilità di beneficiare della non menzione della condanna nei certificati qualora si sia ottenuta la riabilitazione (art. 24, comma 1, lettera d e art. 25, comma 1, lettera d, del t.u. casellario giudiziale), nel caso dei provvedimenti relativi alla messa alla prova la riabilitazione è per definizione esclusa, non trattandosi di condanne. Il che costituisce un ulteriore profilo di irragionevolezza ingenerato dalla disciplina censurata. 5.3.– Fondate sono, altresì, le questioni sollevate in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost. Come affermato da una recente sentenza delle Sezioni unite dalla Corte di cassazione, già citata in senso adesivo da questa Corte (sentenza n. 91 del 2018), la sospensione del procedimento con messa alla prova costituisce «istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272)». In tale ottica, l’istituto – al quale va riconosciuta una dimensione processuale e, assieme, sostanziale – costituisce parte integrante del sistema sanzionatorio penale, condividendo con il patteggiamento la base consensuale del procedimento e del trattamento che ne consegue (così, ancora, la sentenza n. 91 del 2018). L’istituto non può, pertanto, che essere attratto dal finalismo rieducativo, che l’art. 27, terzo comma, Cost. ascrive all’intero sistema sanzionatorio penale. La menzione dei provvedimenti concernenti la messa alla prova nei certificati richiesti dai privati appare, tuttavia, disfunzionale rispetto a tale obiettivo, costituzionalmente imposto. La menzione relativa risulta, anzi, suscettibile di risolversi in un ostacolo al reinserimento sociale del soggetto che abbia ottenuto, e poi concluso con successo, la messa alla prova, creandogli – in particolare – più che prevedibili difficoltà nell’accesso a nuove opportunità lavorative, senza che ciò possa ritenersi giustificato da ragioni plausibili di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti, dal momento che l’esigenza di garantire che la messa alla prova non sia concessa più di una volta (art. 168-bis, comma 4, cod. pen.) è già adeguatamente soddisfatta dall’obbligo di iscrizione dei menzionati provvedimenti sulla messa alla prova e della loro indicazione nel certificato “ad uso del giudice” (rispettivamente artt. 3, comma 1, lettera i-bis, e 21, comma 1, del t.u. casellario giudiziale). Non v’è invece alcuna ragione plausibile perché si debba menzionare anche sui certificati richiesti dai privati – con gli effetti pregiudizievoli di cui si è detto, a carico di un soggetto che la Costituzione pur vuole sia presunto innocente sino alla condanna definitiva – un provvedimento interinale come l’ordinanza che dispone la messa alla prova, destinata comunque a essere travolta da un provvedimento successivo (la sentenza che dichiara l’estinzione del reato, nella normalità dei casi; ovvero l’ordinanza che dispone la prosecuzione del processo, laddove la messa alla prova abbia avuto esito negativo). D’altra parte, una volta che il processo si sia concluso con l’estinzione del reato per effetto dell’esito positivo della messa alla prova, la menzione della vicenda processuale ormai definita contrasterebbe con la ratio della stessa dichiarazione di estinzione del reato, che comporta normalmente l’esclusione di ogni effetto pregiudizievole – anche in termini reputazionali – a carico di colui al quale il fatto di reato sia stato in precedenza ascritto. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)», nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale richiesti dall’interessato non siano riportate le iscrizioni dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato ai sensi dell’art. 464-quater, del codice di procedura penale e della sentenza che dichiara l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies, cod. proc. pen. 2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 313 del 2002, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 117 del 2018; 3) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, del d.P.R. n. 313 del 2002, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 47 del 2017. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2018.

Thursday, November 12, 2020

ISCRIZIONE All'ALBO

Iscrizione all'Albo § 1. La condizione per l’esercizio della professione. La norma in commento, il cui principio era già rinvenibile nell’art. 21, co. 1, del previgente codice deontologico ((“L’iscrizione all’albo costituisce presupposto per l’esercizio dell’attività giudiziale e stragiudiziale di assistenza e consulenza in materia legale e per l’utilizzo del relativo titolo“.)) e, prima ancora, nell’art. 1, co. 1, RDL n. 1578/1933 (“vecchio” Ordinamento forense) ((“Nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore se non è iscritto nell’albo professionale“.)), riproduce pressoché testualmente quanto ora stabilito dall’art. 2, co. 3, L. n. 247/2012 (nuovo Ordinamento forense) ((“L’iscrizione ad un albo circondariale è condizione per l’esercizio della professione di avvocato“.)), e ciò in ossequio al disposto generale secondo cui “la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi ed elenchi” (art. 2229 c.c.) ((In arg. cfr. Cassazione Civile, sez. II, 6 giugno 2006, n. 13214.)). Secondo tali precetti, l’iscrizione all’albo (unitamente all’impegno solenne ((Art. 8 L. n. 247/2012.)), che ha sostituito il giuramento ((Art. 12, co. 2, RDL n. 1578/1933.))) è quindi necessaria per l’esercizio della professione di avvocato ((Cfr. Pergolesi, Ordini e collegi professionali, Enc. for., vol. V, Milano, 1960, p. 423 ss.)), sia in ambito giudiziale sia -a determinate condizioni- in quello stragiudiziale ((Cfr. art. 2, co. 6, L. n. 247/2012, secondo cui “l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati“.)), a pena di sanzioni civili ((Art. 2231 c.c.)) e penali ((Art. 348 c.p.)), nonché disciplinari ((Art. 36 codice deontologico.)). A quest’ultimo proposito, si ricorda tuttavia che il potere sanzionatorio dell’Ordine professionale può essere esercitato solo nei confronti dei propri iscritti ((Consiglio Nazionale Forense (Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere del 10 aprile 2013, n. 49; Consiglio Nazionale Forense (rel. Morlino), parere del 10 aprile 2013, n. 44; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Neri), sentenza del 15 ottobre 2012, n. 151.)), sicché le predette conseguenze di tipo disciplinare non possono che riguardare, evidentemente, solo quei soggetti che esercitino la professione in violazione di particolari limiti o divieti concernenti la propria iscrizione (si pensi all’avvocato non cassazionista, all’avvocato sospeso dall’albo, al praticante avvocato, ecc.). Alla luce di questa sua funzione tipica ed essenziale, l’iscrizione all’albo non può avvenire per scopi diversi dall’esercizio della professione (come ad esempio “ai soli fini del titolo” ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Morgese), parere del 27 aprile 2005, n. 36; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 8 marzo 1988, n. 2336. A tal proposito, si ricorda infatti che, ai sensi dell’art. 2 L. n. 247/2012, l’uso del titolo di avvocato spetta esclusivamente chi si o sia stato iscritto all’albo (comma 7), fatta eccezione per chi non lo sia più perché radiato (comma 8).)), o per partecipare a determinati concorsi pubblici ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense, parere del 3 ottobre 2001, n. 138.))), tant’è vero che, peraltro a differenza di quanto stabiliva la previgente normativa ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Bianchi), parere del 28 maggio 2009, n. 16.)), gli iscritti all’albo hanno perciostesso l’obbligo (rectius, l’onere) -la cui osservanza deve naturalmente verificarsi in concreto ((Cfr. Cassazione Civile, sentenza del 28 novembre 1978, n. 5575, secondo cui l’iscrizione all’albo non prova, di per sé, l’esercizio effettivo della professione.))- di esercitare la professione in modo “effettivo, continuativo, abituale e prevalente” ((Cfr. art. 15, co. 1, lett. e), L. n. 247/2012. Oltre agli avvocati, sono altresì tenuti ad esercitare la professione, sebbene soltanto in circostanze speciali determinate dalla legge e per motivi di interesse generale, anche i medici, i notai e gli agenti di cambio: cfr. artt. 57 e 256 T.U. leggi sanitarie; art. 21 legge notarile; art. 11 D.L.L. 19 aprile 1946, n. 321: in arg. cfr. Roversi Monaco, op. cit., p. 156 ss.)), a pena di cancellazione dall’albo ((Art. 15, co. 4, L. n. 247/2012.)). § 2. Natura e funzioni dell’albo professionale. L’albo professionale (denominato “ruolo” per talune professioni ((Cfr. artt. 16-18 legge notarile 16 febbraio 1913, n. 89. È anche il caso dei revisori ufficiali dei conti e dei mediatori. Anche gli agenti di cambio, prima che la L. 29 maggio 1967, n. 402, prevedesse che venissero organizzati in un “albo”, erano iscritti in un ruolo tenuto dalle camere di commercio.))) costituisce la prova documentale della legittimazione all’esercizio della professione da parte degli iscritti ((Cfr. Piscione, Professioni (disciplina delle), op. cit., 1045 ss.; Lega, Le libere professioni intellettuali, op. cit., p. 211 ss.)), e va perciostesso tenuto distinto da quegli elenchi privati di persone che esercitano una libera professione non riconosciuta ex lege, i quali non hanno infatti carattere ufficiale ((Cfr. Cass., sez. I, 18 giugno 1965, in Giur. it., 1966, I, 1, 65.)), ma solo e semplicemente un non necessario scopo divulgativo (come ad es. l’elenco, peraltro incompleto, degli agenti di assicurazione) ((Cfr. Cavallo, Lo status professionale. Parte speciale, Milano, 1969, p. 105 ss.; Catelani, op. cit., p. 33 ss.; Piras, op. cit., p. 83 ss.)). A differenza di tali meri elenchi, l’albo fa quindi presumere (iuris tantum) che i professionisti ivi iscritti siano in possesso di adeguata capacità professionale e morale ((Giannini (voce “Albo”, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1013 ss.)) (in quanto requisiti indispensabili per l’iscrizione all’albo) e, quindi, l’attendibilità e la serietà della loro attività ((Cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 135 ss.)). Quanto al suo contenuto, l’albo è compilato secondo l’anzianità d’iscrizione dei relativi professionisti ((V. per tutti l’art. 3 DPR 5 aprile 1950, n. 221, al quale ci si è costantemente rifatti per tutte le professioni: cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 135 ss.)), di cui riporta, in ordine alfabetico, le generalità (cognome, nome, data e luogo di nascita, codice fiscale, recapiti di studio, data di iscrizione), in conformità alle risultanze anagrafiche dei registri dello Stato Civile ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)), perciò senza possibilità di indicare pseudonimi o diminutivi ((Consiglio Nazionale Forense, parere del 4 luglio 2001, n. 64.)), né aggettivazioni di sorta in caso di omonimia ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Picchioni), parere del 28 marzo 2012, n. 21, che ha infatti escluso la possibilità di distinguere due omonimi mediante l’attributo “senior”.)). Tale contenuto è pubblico ((Art. 15, co. 3, L. n. 247/2012. Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Allorio), parere del 22 maggio 2013, n. 50.)), quindi liberamente consultabile da chiunque ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)), anche attraverso il rilascio di certificati di iscrizione, a firma del segretario e del presidente del Consiglio dell’Ordine ((Cfr. Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi. Aspetti sostanziali e profili di tutela, Milano, 1996, p. 210.)). Oltre alla suddetta funzione pubblicitaria, gli albi professionali consentono il controllo e la vigilanza che sui singoli iscritti viene esercitata dagli enti professionali e dalle pubbliche autorità ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)). Anche in considerazione di tali sue funzioni informative e di controllo, l’albo è tenuto costantemente aggiornato ((Art. 15, co. 4 e 5, L. n. 247/2012.)), cioè sottoposto a revisione permanente, proprio al fine di verificare periodicamente se in capo agli iscritti permangano i requisiti (tecnici e morali) richiesti dalla legge per l’esercizio professionale. A fronte di tali periodiche revisioni dell’albo, la permanenza dell’iscrizione fa conseguentemente presumere (sempre iuris tantum) anche la permanenza dei requisiti in capo agli iscritti (che altrimenti sarebbero appunto cancellati). Come pure nelle altre professioni, il numero dei posti contemplati dall’albo degli avvocati è aperto, ma può in astratto essere temporaneamente chiuso con Legge per motivi contingenti di sovraffollamento professionale ((Cfr. Lega, Ordinamenti professionali, cit., p. 9 ss., nonché Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)). § 2.1. Gli elenchi e registri annessi all’albo. Annessi agli albi sono frequenti, in molte professioni intellettuali, particolari registri ed elenchi di coloro che hanno un esercizio più limitato e talvolta più esteso della professione ((Si pensi, ad esempio, all’elenco degli psicoterapeuti iscritti all’albo degli psicologi ex art. 3 L. n. 56/1989.)). Con particolar riferimento alla professione forense, il nuovo Ordinamento espressamente affianca ((Art. 15 L. n. 247/2012.)) all’albo ordinario: 1) gli elenchi speciali degli avvocati dipendenti da enti pubblici ((Già art. 3 R.D.L. n. 1578/1933.)), la cui iscrizione presuppone il concorso di tre elementi imprescindibili: (i) deve esistere, nell’ambito strutturale dell’ente pubblico, un ufficio legale che costituisca un’unità organica autonoma; (ii) colui che richiede l’iscrizione – in possesso, ovviamente, del titolo abilitativo all’esercizio professionale (condictio facti soggettiva) – faccia parte dell’ufficio legale e sia incaricato di svolgervi tale attività professionale, limitatamente alle cause ed agli affari propri dell’ente; infine, (iii) la destinazione del dipendente-avvocato a svolgere l’attività professionale presso l’ufficio legale deve realizzarsi mediante il suo stabile inquadramento ((Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Allorio), sentenza del 29 novembre 2012, n. 158; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Berruti), sentenza del 27 novembre 2009, n. 133, nonché Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 19 ottobre 1998, n. 10367.)); 2) gli elenchi degli avvocati specialisti ((Cfr. artt. 9 e 29 co. 1 lett. e L. n. 247/2012.)); 3) l’elenco speciale dei docenti e ricercatori, universitari e di istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici, a tempo pieno ((Art. 19, co. 2, L. n. 247/2012.)); 4) l’elenco degli avvocati sospesi dall’esercizio professionale per qualsiasi causa (che deve essere indicata) o cancellati per mancanza dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione; 5) l’elenco degli avvocati che hanno subìto provvedimento disciplinare non più impugnabile, comportante la radiazione; 6) il registro dei praticanti; 7) l’elenco dei praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo, allegato al registro di cui sopra; 8) la sezione speciale dell’albo degli avvocati stabiliti ((Cfr. art. 6 D.Lgs. n. 96/2001.)), che abbiano la residenza o il domicilio professionale nel circondario; 9) l’elenco delle associazioni e delle società comprendenti avvocati tra i soci, con l’indicazione di tutti i partecipanti, anche se non avvocati; 10) l’elenco degli avvocati domiciliati nel circondario ((Cfr. art. 7, co. 3, L. n. 247/2012.)); 11) l’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori ((Cfr. art. 22 L. n. 247/2012, già art. 33 RDL n. 1578/1933.)), che è unico per tutto lo Stato ed è tenuto dal Consiglio Nazionale forense. Ad esso si può essere iscritti per esame, di diritto (professori universitari ed ex magistrati con determinate qualità), o per anzianità di esercizio professionale ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Morlino), parere del 20 giugno 2012, n. 44, secondo cui “Ai fini del computo dei dodici anni di anzianità di esercizio professionale di cui all’art. 33 della Legge professionale non può essere ricompreso il periodo di tirocinio”.)); 12) ogni altro albo, registro o elenco previsto dalla legge o da regolamento. Fino a poco tempo fa esisteva inoltre l’albo dei procuratori legali, ora soppresso ((L. 24 febbraio 1997, n. 27.)). § 3. I requisiti per l’iscrizione nell’albo. Ai fini dell’iscrizione all’albo professionale, il Consiglio dell’Ordine deve accertare in capo al richiedente l’iscrizione la presenza di determinati requisiti, ai quali l’ordinamento subordina l’esercizio della libera professione. A tal proposito, il nuovo Ordinamento forense espressamente stabilisce ((Art. 17, co. 1, L. n. 247/2012.)) che costituiscono requisiti per l’iscrizione all’albo: a) essere cittadino italiano o di Stato appartenente all’Unione europea (salvo quanto previsto per gli stranieri cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea); b) avere superato l’esame di abilitazione; c) avere il domicilio professionale nel circondario del tribunale ove ha sede il consiglio dell’ordine; d) godere del pieno esercizio dei diritti civili; e) non trovarsi in una condizione di incompatibilità ((Art. 18 L. n. 247/2012.)); f) non essere sottoposto ad esecuzione di pene detentive, di misure cautelari o interdittive; g) non avere riportato condanne per i reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e per quelli previsti dagli articoli 372, 373, 374, 374-bis, 377, 377-bis, 380 e 381 del codice penale; h) essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense. Di tali requisiti tratteremo in dettaglio nei paragrafi che seguono. § 3.1. Il requisito della cittadinanza (europea), salvo eccezioni. Mentre le altre attività lavorative sono, in linea di massima, aperte a tutti, l’esercizio della professione di avvocato non è invece consentito a chiunque, ma -in analogia con quanto previsto nel pubblico impiego, quale diretta conseguenza della rilevanza pubblicistica delle funzioni esercitate ((Cfr. Catelani, op. cit., p. 146 ss.))- solo a coloro che siano cittadini italiani o di uno Stato dell’Unione Europea ((V. Titolo III, Capo I, artt. 48-51, del Trattato CEE firmato a Roma il 25 marzo 1957, come modificato dall’Atto Unico Europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 e all’Aia il 28 febbraio 1986 (entrato in vigore il 1° luglio 1987). Cfr. art. 7, lett. a, ordinamento psicologi, e art. 27, lett. a, ordinamento tecnologi alimentari.)). Allo straniero privo della cittadinanza italiana o di altro Stato appartenente all’Unione europea l’iscrizione all’albo è infatti consentita esclusivamente: a) se abbia conseguito il diploma di laurea in giurisprudenza presso un’università italiana e abbia quindi superato l’esame di Stato, o se abbia conseguito il titolo di avvocato in uno Stato membro dell’Unione europea; b) se regolarmente soggiornante in possesso di un titolo abilitante conseguito in uno Stato non appartenente all’Unione europea, nei limiti delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato ((Art. 3, co. 4, D.Lgs. 286/1998 – Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.)), previa documentazione del riconoscimento del titolo abilitativo rilasciato dal Ministero della giustizia e del certificato del CNF di attestazione di superamento della prova attitudinale ((Art. 17, co. 2, L. n. 247/2012.)). § 3.2. L’esame di Stato, salvo eccezioni. In conformità a quanto espressamente previsto dalla Costituzione ((Art. 33, co. 5, Cost.: “È prescritto un esame di Stato […] per l’abilitazione all’esercizio professionale”.)), per l’esercizio della professione di avvocato occorre (di regola) aver superato il relativo esame di Stato ((Art. 46 L. n. 247/2012.)), il quale è appunto requisito necessario (ma non sufficiente ((Cfr. Corte di cassazione, sentenza n. 646/2014, secondo cui integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato ex art. 348 c.p. la condotta di chi, conseguita l’abilitazione statale, eserciti l’attività professionale senza aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale.))) a controllare che il candidato possegga quella necessaria preparazione teorica-pratica destinata a costituire il bagaglio delle cognizioni che servono per l’esercizio di fatto della professione ((Cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 225 ss.)). Per accedere all’esame di Stato, il candidato deve essere in possesso: a) del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito a seguito di corso universitario di durata non inferiore a quattro anni ((Art. 2, co. 3, L. n. 247/2012. Tale titolo può essere autocertificato: Consiglio Nazionale Forense, parere del 4 luglio 2001, n. 71. Si noti che per la professione di giornalista e di agente di cambio non invece è indicato espressamente alcun titolo di studio (v. rispettivamente artt. 29 e 31 L. 69/1963, cit. e art. 1 L.402/1967); cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 88 ss.)). Si consideri che non costituisce titolo idoneo a sostenere l’esame di stato la laurea “honoris causa”, che infatti “è un riconoscimento esclusivamente onorifico, privo degli effetti della laurea rilasciata dalle Università a conclusione di un percorso pluriennale di studi e sulla base del superamento dei prescritti esami; pertanto, essa non può essere considerata titolo idoneo all’iscrizione nel Registro dei Praticanti e/o nell’Albo degli Avvocati ((Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere 25 settembre 2013, n. 96.)). b) del certificato di compiuto tirocinio ((Art. 45, co. 3, L. n. 247/2012.)). § 3.2.1. L’iscrizione di diritto all’albo. Possono essere iscritti di diritto all’albo ((Art. 2, co. 3, L. n. 247/2012.)), cioè senza bisogno di superare l’esame di Stato: a) coloro che hanno svolto le funzioni di magistrato ordinario ((Ai vice procuratori onorari (VPO), ai GOT, ai Giudici di Pace e ai magistrati onorari in genere non spetta, invece, l’iscrizione di diritto all’albo forense: Consiglio Nazionale Forense (rel. Florio), parere del 21 luglio 2010, n. 46; Consiglio Nazionale Forense (rel. Florio), parere del 9 luglio 2008, n. 33; Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Bulgarelli), sentenza del 22 aprile 2008, n. 32; Cassazione Civile, SS.UU., 4 aprile 2008, n. 8737; Consiglio Nazionale Forense (rel. Petiziol), parere del 9 maggio 2007, n. 14; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Cricrì, rel. Martuccelli), sentenza del 21 novembre 2006, n. 128; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 02 giugno 1997, n. 4905; Cassazione Civile, sez. Unite, 29 marzo 2011, n. 7099.)), di magistrato militare ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 17 giugno 1981, n. 3946.)), di magistrato amministrativo o contabile ((Al componente della Commissione Tributaria non spetta, invece, l’iscrizione di diritto all’albo forense: Cassazione Civile, sez. Unite, 8 agosto 2011, n. 17068; Consiglio Nazionale Forense (pres. ALPA, rel. SICA), sentenza del 16 marzo 2010, n. 1.)), o di avvocato dello Stato, e che abbiano cessato le dette funzioni senza essere incorsi nel provvedimento disciplinare della censura o in provvedimenti disciplinari più gravi; b) i professori universitari di ruolo, dopo cinque anni di insegnamento di materie giuridiche ((Ai docenti della scuola di polizia non spetta, invece, l’iscrizione di diritto all’albo forense: Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Baffa), sentenza del 7 marzo 2012, n. 49; Consiglio Nazionale Forense (pres. Buccico, rel. Sgromo), sentenza del 14 novembre 2000, n. 162; Cassazione Civile, sentenza del 11 gennaio 1997, n. 192; Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Rossi), sentenza del 5 dicembre 1994, n. 140.)). § 3.3. Il requisito del domicilio (o della residenza). Il previgente Ordinamento forense prevedeva che, per ottenere l’iscrizione all’albo, gli avvocati dovessero necessariamente risiedere “nella circoscrizione del Tribunale nel cui albo l’iscrizione è domandata” ((Art. 27 RDL n. 1578/1933; Consiglio Nazionale Forense, parere del 4 luglio 2001, n. 73.)). Oltre che per l’iscrizione all’albo, la residenza era altresì requisito anche per mantenere l’iscrizione stessa dopo averla ottenuta; in particolare, l’avvocato che intendeva trasferire altrove la propria residenza, aveva l’onere di chiedere il trasferimento dell’iscrizione presso l’Ordine della circoscrizione della nuova residenza, prima ancora di aver ottenuto la nuova iscrizione e di essersi effettivamente trasferito trasferiva la propria residenza, pena appunto la cancellazione d’ufficio dall’albo ((Art. 37 n. 4 RDL n. 1578/1933; Cass., SS.UU., n. 9292 del 9 novembre 1994, in Rep. Foro it., 1994, voce “Professioni intellettuali”, n. 44; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 28 giugno 1976, n. 2421; Cass., SS.UU., 28 giugno 1976, n. 2421, in Giust. civ., 1976, I, p. 1411. Cfr. Piras, op. cit., p. 98 ss. V. pure l’art. 37 L. 69/1963, il quale prevede, per i giornalisti, che, qualora cambino residenza, devono chiedere il trasferimento nell’albo del luogo della nuova residenza, pena la cancellazione dall’albo.)). Successivamente, ai fini dell’iscrizione agli albi, elenchi e registri, la legge 21 dicembre 1999 n. 526 ha equiparato il domicilio professionale alla residenza, che sono pertanto diventati requisiti tra loro alternativi ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Alpa, rel. Cricrì), sentenza del 12 dicembre 2001, n. 272.)). Pertanto, la cancellazione dall’albo può ora avvenire solo se il professionista risulti senza residenza né domicilio professionale nell’ambito della circoscrizione di competenza del Consiglio che custodisce l’albo presso cui il professionista stesso risulta iscritto ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Berruti), sentenza del 7 maggio 2013, n. 66; v. pure artt. 31 e 37, co. 1 n. 3, RDL n. 1578/1933.)). In ogni caso, a prescindere dal luogo di residenza o domicilio, gli avvocati possono esercitare la professione in tutto il territorio dello Stato ((Art. 2, co. 3, L. n. 247/2012, già art. 4 RDL n. 1578/1933; cfr. pure Piscione, ult. cit., p. 66 ss.)). § 3.4. Il godimento dei diritti civili e politici e l’assenza di precedenti penali specifici. Altri requisiti per l’iscrizione all’albo sono l’assenza di specifici precedenti penali, tassativamente indicati dalla legge ((L’art. 17, co. 1, L. n. 247/2012 fa espresso riferimento ai reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e per quelli previsti dagli articoli 372, 373, 374, 374-bis, 377, 377-bis, 380 e 381 del codice penale.)), che si dimostra mediante autocertificazione o con la presentazione del certificato generale del casellario giudiziario ((Cfr. Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 66 ss.)), nonché il godimento dei diritti civili e politici ex art. 415 cod. civ. Con riferimento a quest’ultimo requisito, non può pertanto essere (o restare) iscritto all’albo degli avvocati, l’interdetto o inabilitato ((Cassazione Civile, sentenza del 10 settembre 2004, n. 18261.)) così come il fallito ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Danovi, rel. Caddeo), sentenza del 11 novembre 1998, n. 145.)). In ogni caso, la cancellazione dall’albo professionale disposta per sopravvenuto venir meno del requisito del godimento dei diritti civili e politici non ha carattere di sanzione disciplinare e non è pertanto soggetta alle relative formalità: essa ha infatti valore di pronuncia di accertamento del venir meno dei requisiti in base ai quali si era inizialmente proceduto all’iscrizione nell’albo ((Cass., SS.UU., n. 2129 del 11 aprile 1981, in Rep. Foro it., 1981, voce “Professioni intellettuali”, n. 21 e id., id., n. 7937 del 6 agosto 1980 (pronunce entrambe rese con riferimento ad una fattispecie in cui era intervenuta dichiarazione di fallimento).)). § 3.5. Il requisito della buona condotta. Sebbene la condotta morale non sia presa in considerazione ai fini dell’iscrizione agli albi professionali di più recente istituzione ((Cfr. art. 7 L. 18 febbraio 1989 n. 56, relativa alla professione di psicologo, e art. 27 L. 18 gennaio 1994 relativa alla professione di tecnologo alimentare. Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi, Milano, 1996, p. 203 ss.)) (ove, tuttavia, continua a rilevare con riferimento alla permanenza dell’iscritto nell’albo stesso ((V. art. 26 legge professionale dei tecnologi alimentari, e art. 31 legge professionale degli psicologi.))), la buona condotta rimane invece un imprescindibile requisito per la restante totalità delle professioni ((Cfr. l’art. 31, co. 2, L. 69/1963, relativo ai giornalisti; l’art. 9 ordinamento sanitari; art. 3, lett. e, L. 12/1979, relativo ai consulenti del lavoro; l’art. 5, n. 2, L. 89/1913, relativo ai notai; l’art. 5, lett. c, L. 396/1967 relativo ai biologi; l’art. 5, lett. c, L. 112/1963, relativo ai geologi; l’art. 31, n. 3, D.P.R. 1067/1953, relativo ai commercialisti; l’art. 14 ordinamento attuari; l’art. 2 L. 897/1938, relativo agli ingegneri.)), tra cui quella di avvocato, ove è appunto espressamente prevista la condotta “irreprensibile” ((Art. 17, co. 1, lett. h, L. n. 247/2012.)), già detta “specchiatissima ed illibata” ((Art. 17, n. 3, RDL n. 1578/1933.)). L’accennata modificazione terminologica non ha tuttavia inciso sul contenuto sostanziale del requisito in parola ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Salazar), sentenza del 9 maggio 2013, n. 75.)), con ci si continua a riferire sia all’aspetto professionale che alla vita privata ((Cfr. Piras, op. cit., p. 98 ss.; Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 66 ss.)), giacché compito dell’ordine professionale e del Consiglio Nazionale ((Cfr. Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 4 maggio 2004, n. 8429, secondo cui il requisito della “condotta irreprensibile”, al fine dell’iscrizione nell’albo degli avvocati, può essere autonomamente accertato e valutato dal Consiglio Nazionale Forense, anche in base ad elementi diversi da quelli posti dal Consiglio dell’Ordine a fondamento della decisione impugnata, con utilizzazione altresì di fonti di prova sorte anche dopo quest’ultima, atteso che il predetto Consiglio Nazionale è giudice anche del merito, non soltanto di legittimità.)), chiamati a valutarla, è appunto quello di tutelare la professione nel decoro e nel prestigio, che sono evidentemente collegati alla complessiva condotta morale degli iscritti, senza che ciò comporti peraltro contrasto con gli artt. 2, 3 e 4 Cost. ((Cfr., tra le altre, Cass. SS.UU. n. 12016 del 1991, in Rep. Foro it., 1991, voce “Avvocato”, nn. 34 e 38 e id., id., n. 13005 del 1992, in Rep. Foro it., 1992, voce “Avvocato”, nn. 51 e 64 e voce “Professioni intellettuali”, n. 56.)). Per tali motivi, la sussistenza del requisito della irreprensibilità è quindi da ritenersi esclusa in presenza di condotte dell’interessato che, ponendosi in contrasto con la disciplina positiva o con le regole deontologiche della professione forense, siano idonee (anche per la loro natura, la non occasionalità e la prossimità alla data in cui il requisito viene in gioco) ad incidere negativamente sull’affidabilità del professionista in ordine al corretto esercizio dell’attività forense ((Cfr. Cass. Civile, SS.UU., sentenza n. 10137/2004; Corte cost., sentenza n. 311/1996.)). In ogni caso, al fine di evitare che la valutazione del requisito della buona condotta dia luogo ad arbìtri, si richiede che essa sia rigorosa, ovvero tale da fondare il diniego dell’iscrizione (o la cancellazione dall’albo) soltanto quando vi siano fatti specifici che inducono a ritenere con sicurezza che il privato non sia persona moralmente idonea ad esercitare la professione: deve trattarsi, cioè, non di fatti la cui valutazione dia luogo ad incertezze, bensì di circostanze obiettivamente valutabili, e l’obiettività della valutazione deve riguardare non soltanto i fatti, in sé considerati, che si addebitino al privato, ma anche la loro idoneità a pregiudicare il corretto esercizio della professione ((Cfr. Catelani, op. cit., p. 146 ss.)). A tal fine, tuttavia, la valutazione in sede deontologica della condotta ai fini dell’iscrizione all’albo professionale può prescindere dall’eventuale valutazione che della condotta stessa si sia fatta o si stia facendo in sede penale ((Cfr. Cass. Civile, SS.UU., sentenza n. 10137/2004; Corte cost., sentenza n. 311/1996.)). Da un lato, infatti, in sede di iscrizione all’albo, alcun rilievo può attribuirsi, ai fini della ritenuta sussistenza del requisito della requisito della “condotta irreprensibile”, alla circostanza che i contegni ascrivibili al richiedente siano condotte criminose risalenti per le quali sia stata concessa riabilitazione, la quale, infatti, pur estinguendo le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, non impedisce l’operatività delle ulteriori conseguenze prodottesi autonomamente sul piano amministrativo, quali la valutazione dei requisiti soggettivi occorrenti per l’iscrizione o quelle di tipo disciplinare, né vale ad escludere la storicità dei fatti e la loro negativa valenza in ordine alla considerazione dell’affidabilità del soggetto in relazione alla previsione della sua inclinazione ad un corretto svolgimento della professione forense ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Picchioni), sentenza del 9 settembre 2011, n. 137.)); dall’altro lato, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva, posta dall’art. 27, co. 2, Cost. non osta a che i fatti materiali addebitati all’aspirante avvocato nel processo penale possano comunque essere valutati negativamente ai fini dell’iscrizione all’albo ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 9 novembre 1994, n. 9291.)). § 3.6. L’assenza di incompatibilità. V. art. 6 codice, cui si rinvia. § 4. L’atto di iscrizione all’albo. Per espressa previsione normativa, l’avvocato può essere iscritto in un solo albo forense ((Art. 17, co. 5, L. n. 247/2012; in dottrina, cfr. Di Cerbo, op. cit., p. 88 ss.)); invece, per quanto riguarda le iscrizioni plurime in più albi di differenti professioni, sebbene alcuni ritengano che siano “in generale, vietate” ((Lega, Ordinamenti professionali, cit., p. 9 ss.)), non si rinviene un divieto legislativo altrettanto esplicito in tal senso. La domanda di iscrizione all’albo, corredata dai documenti comprovanti il possesso dei requisiti richiesti, è rivolta al Consiglio dell’Ordine del Circondario nel quale il richiedente intende stabilire il proprio domicilio professionale ((Art. 17, co. 6., L. n. 247/2012.)). Nei successivi trenta giorni, accertata la sussistenza dei requisiti e delle condizioni di Legge, il Consiglio provvede alla iscrizione ((Art. 17, co. 6., L. n. 247/2012.)). Con riferimento alla natura di tale atto, in dottrina non si registra una uniformità di opinioni: alcuni autori ritengono infatti che si tratti di una autorizzazione ((Cfr. Teresi, op. cit., p. 454.)), altri di una ammissione ((Cfr. Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 48 ss.; cfr. Piscione, Professioni (disciplina delle), cit., p. 1040 ss.; cfr. Roversi Monaco, op. cit., p. 156 ss.; cfr. Zanobini, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in Primo trattato di diritto amministrativo (a cura di Orlando), II, parte terza, Milano, p. 338 ss.; cfr. Catelani, op. cit., p. 138.)), altri ancora di un accertamento ((Cfr. Pergolesi, op. cit., p. 423 ss.; cfr. Giuliano, Ordini ed albi professionali. La retribuzione ai professionisti di fatto, Roma, 1960, p. 83; cfr. Lega, Ordinamenti professionali, cit., p. 6 ss.; Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 255 ss.; cfr. Piras, op. cit., p. 67 ss.)), ed infine altri di un atto dichiarativo ((Cfr. Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi, Milano, 1996, p. 201 ss.)). In giurisprudenza, invece, dopo le non uniformi pronunce del passato ((Secondo un risalente orientamento, infatti, il provvedimento di iscrizione nell’albo sarebbe un “atto di ammissione previo accertamento delle condizioni di legge”: cfr. Cass. Sez. I, 31 ottobre 1958, n. 3599, in Mass. Foro it., 1958, p. 743; Cass., S. U., 8 marzo 1955, n. 690, in Mass. Giur. it., 1955, p. 157; Cass., S. U., 6 ottobre 1954, n. 3350, ivi, 1954, p. 749; Cass., S. U., 11 luglio 1955, n. 2199, in Giust. Civ., 1955, I, p. 83; Cass., S. U., 7 ottobre 1964, n. 2544, in Temi nap., 1964, I, p. 470. Secondo un altro orientamento il provvedimento di iscrizione negli albi professionali avrebbe natura dichiarativa ed i suoi effetti retroagirebbero al momento del verificarsi della condizione per l’acquisizione dello status professionale: cfr. Cass., S.U., 1680/1959, in Mass. Giur. lav., 1959, p. 207. Secondo un altro orientamento ancora l’atto di iscrizione all’albo professionale si configurerebbe come autorizzazione basata su una scelta discrezionale (in base a valutazioni motivate sulla corrispondenza delle condizioni richieste volta per volta dalla legge e gli interessi pubblici generali che la potestà autorizzativa vuole tutelare): cfr. Cass., sez. I, n. 2658 del 1974, in Mass. Foro It., 1974, c. 628; Cass., S.U., 25 novembre 1981 n. 6252, in Foro it., 1982, I, cc. 1633.)), da qualche anno si è raggiunta una certa costanza di indirizzo, secondo cui l’iscrizione negli albi professionali è da definirsi come atto di accertamento costitutivo dello status professionale ((Cfr. Cass. Civile, sez. I, 23 settembre 2009, n. 20436; Cass., SS.UU., 20 ottobre 1993, n. 10382, in Foro it., 1994, I, c. 427; id., 30 dicembre 1991, n. 14021, ivi, 1992, I, c. 349; id., sez. lav., 13 settembre 1991, n. 9570, in Mass. Foro it., 1991, c. 864; id., SS.UU., 4 maggio 1991, n. 4940, ivi, 1991, c. 418; id., ord. 14 febbraio 1990, n. 84, in Foro it., 1990, I, c. 864; id., sez. lav., 4 aprile 1987, n. 3296, in Mass. Foro it., 1987, c. 565; id., 10 gennaio 1987, n. 109, ivi, 1987, c. 20; id., 29 giugno 1984, n. 3849, in Foro it., 1984, I, c. 2147; id., SS.UU., 17 giugno 1982, n. 3675, in Mass. Foro it., 1982, c. 770; id., 25 novembre 1981, n. 6252, in Foro it., 1982, I, c. 1633; Cass. Civile, sentenza del 28 novembre 1978, n. 5575.)). In quanto tale, gli effetti di tale atto costitutivo non retroagiscono al momento della domanda ((Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere del 28 settembre 2012, n. 56; Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Casalinuovo), sentenza del 20 marzo 1995, n. 33.)), ma decorrono dalla data della deliberazione con cui il Consiglio dell’Ordine ha ordinato l’iscrizione nell’albo (elenco o registro), vale a dire dal momento stesso della perfezione dell’atto ((In tal senso cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Giorgino), sentenza del 22 aprile 1996, n. 62; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Cagnani, rel. Diego), sentenza del 29 novembre 1995, n. 142; Consiglio Nazionale Forense (pres. Cagnani, rel. Siciliano), sentenza del 27 novembre 1989, n. 159.)). Conseguentemente, pone in essere un comportamento penalmente e disciplinarmente rilevante il professionista che eserciti la professione nelle more dell’iscrizione all’albo ((Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Di Benedetto), sentenza del 5 ottobre 1996, n. 120; Corte di cassazione, Sez. Penale, sentenza n. 646/2014.)). L’accennata irretroattività, tuttavia, non è assoluta: infatti, nel caso in cui la domanda di iscrizione sia stata rigettata con decisione del COA poi riformata dal CNF in sede di impugnazione, gli effetti dell’iscrizione retroagiscono alla data di (ingiusto) diniego da parte del COA territoriale ((Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Cagnani, rel. Diego), sentenza del 29 novembre 1995, n. 142.)). § 4.1. Il rigetto della domanda di iscrizione all’albo. Sulla domanda di iscrizione, il Consiglio dell’Ordine provvede entro trenta giorni ((Secondo l’art. 31 RDL n. 1578/1933 – “vecchio” Ordinamento forense, tale termine era di tre mesi.)) con deliberazione motivata da notificarsi entro quindici giorni all’interessato, il quale può presentare entro venti giorni dalla notificazione, ovvero -qualora il consiglio non abbia provveduto sulla domanda nel citato termine di trenta giorni ((Detto termine ha carattere perentorio e non è suscettibile di interruzione mediante una lettera di convocazione: Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 23 dicembre 1997, n. 13022.))- entro dieci giorni dalla scadenza di tale termine, ricorso al CNF, che decide sul merito dell’iscrizione con provvedimento immediatamente esecutivo ((Art. 17, commi 6 e 7, L. n. 247/2012.)). Alla luce di tale disciplina deve quindi ritenersi che, ove il Consiglio territoriale non provveda sulla domanda entro il predetto termine, non operi (più) il meccanismo del c.d. silenzio-assenso, a differenza di quanto avveniva in passato ((In arg. cfr. Consiglio Nazionale Forense (Pres. Alpa, Rel. Pasqualin), sentenza del 27 dicembre 2012, n. 195; In senso conforme, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Perfetti), sentenza del 15 dicembre 2011, n. 181, secondo cui “In tema di iscrizione all’Albo degli Avvocati, nella disciplina novellamente modificata dagli artt. 45, 49 segg. del D. lgs. n. 59/10, va ravvisata l’avvenuta formazione del silenzio assenso qualora, entro due mesi dalla presentazione della domanda di iscrizione, non sia intervenuto alcun provvedimento di accoglimento o di rigetto. Dopo tale momento, peraltro, resta preclusa l’adozione, in ordine alla medesima domanda, di una seconda decisione che assuma – come nella specie – la veste di atto espresso di diniego, avendo esaurito il consiglio territoriale, all’epoca della pronuncia negativa impugnata, il suo potere provvedimentale al riguardo. Il che non toglie, peraltro, che l’ente conservi pur sempre il potere di autotutela anche con riguardo al provvedimento formatosi col meccanismo del silenzio assenso, in conformità a quanto previsto dall’art. 20, co. 3, l. n. 241/1990.)). § 4.1.1. La comparazione con le altre professioni. Mancando, nelle altre professioni, una analoga disciplina a quella appena vista in ambito forense per il caso di rigetto espresso o tacito della domanda di iscrizione, ci si chiede quali quali siano i rimedi offerti al soggetto richiedente l’iscrizione stessa. Al fine di rispondere a tal domanda occorre preliminarmente chiarire se la valutazione dei requisiti per l’iscrizione possa o non possa essere dall’ente professionale adito valutata discrezionalmente (e se sì, di che discrezionalità si tratti). Infatti, a seconda della soluzione adottata, derivano infatti importanti conseguenze circa il rapporto giuridico intercorrente tra il soggetto che richiede l’iscrizione e l’ente professionale adito, da una parte; e circa l’individuazione del giudice competente a risolvere le controversie inerenti alla iscrizione all’albo ed ai poteri da quest’ultimo esercitabili, dall’altra giacché -com’è noto- “va affermata la giurisdizione dell’a.g.o. ogni qualvolta l’interessato faccia valere una posizione di diritto soggettivo – a meno che non sia legislativamente affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – mentre va dichiarata la giurisdizione di legittimità di quest’ultimo quando la posizione del privato sia di interesse legittimo ((Cass., S.U., n. 1620 del 21 febbraio 1997.)). Ebbene, pur non senza qualche voce dissonante ((Cfr. Piscione, Ordini e collegi professionali, cit., p. 48 e ss., secondo cui l’atto di iscrizione avrebbe natura discrezionale.)), si ritiene che l’iscrizione all’albo “non implica mai esercizio di potere amministrativo discrezionale in senso proprio, richiedendo invece tutt’al più valutazioni di carattere tecnico-deontologico” ((Gotti, Gli atti amministrativi dichiarativi, cit., p. 204.)), “anche con riferimento all’accertamento della buona condotta, che non comporta alcun apprezzamento discrezionale, rispetto al quale la posizione dei soggetti coinvolti possa configurarsi come interesse legittimo” ((Cass., S.U., 29 aprile 1988 n. 3259, in Mass. Foro it., 1988, c. 482.)), sicché “l’iscrizione nell’albo professionale resta sottratta a scelte o valutazioni discrezionali dei competenti organi dell’ordine professionale, configurandosi come atto dovuto in virtù del positivo riscontro del possesso da parte dell’istante di determinati requisiti fissati dalla legge” ((Cassazione, S.U., n. 3844 del 5 settembre 1989, in Rep. Foro it., 1989, voce “Professioni intellettuali”, n. 69.)). Da ciò consegue che, sempre con riferimento alle professioni diverse da quella d’avvocato, e precisamente per quelle nelle quali manca cioè il suddetto meccanismo impugnatorio avanti al CNF, deve quindi concludersi che in materia sussista la giurisdizione del giudice ordinario al quale spetta di provvedere con pienezza di poteri e anche con pronuncia di condanna ad eseguire l’iscrizione ((Cassazione, SS.UU., del 7 ottobre 1983 n. 5837, in Rep. Foro it., 1983, voce “Professione intellettuale”, n. 39; id., del 14 ottobre 1983 n. 5998, ivi, 1983, voci “Giurisdizione civile”, n. 133, “Professioni intellettuali”, 38, “Provvedimenti d’urgenza”, n. 111; id., del 29 aprile 1988 n. 3259, ivi, 1988, voce “Professione intellettuale”, n. 52; Cass., S.U., n. 1620 del 21 febbraio 1997; Cass., S.U., 16 marzo 1978 n. 1322, in Rep. Foro it., 1978, voce “Professioni intellettuali”, nn. 58 e 59; id., id., 14 ottobre 1983 n. 5998, ivi, 1983, voci “Giurisdizione civile”, n. 133, “Professioni intellettuali”, n. 38, “Provvedimenti d’urgenza”, n. 111; id., id., 23 febbraio 1990 n. 1399, ivi, 1990, voci “Cassazione civile”, n. 12, “Impugnazioni civili”, n. 10, “Professioni intellettuali”, nn. 51-54.)). Né potrebbe essere altrimenti, perché lo svolgimento di una qualunque attività professionale è espressione della generale situazione di libertà assicurata dall’ordinamento italiano ad ogni cittadino (art. 4 cost.), in ordine alla scelta del lavoro. Può accadere che in un dato momento storico, certe attività, prima liberamente esercitabili, sembrino bisognose di una regolamentazione nell’interesse generale e vengano perciò consentite soltanto a chi dimostri di essere capace e degne di esercitarle. Ma qualunque diritto, appunto perché tale e non puro arbitrio o irrilevante possibilità di agire, richiede di essere ancorato a determinati presupposti e circoscritto entro certi limiti; l’importante è che ove ricorrano i presupposti e siano osservati i limiti esso possa pienamente esercitarsi ((Cass. n. 2994 del 1991)). In defintiva, poiché il compito riconosciuto all’Ordine professionale di stabilire la validità della certificazione prodotta dal richiedente al fine del legittimo esercizio dell’attività di psicoterapeuta non implica valutazioni di carattere amministrativo, ossia scelte del comportamento più rispondenti all’interesse pubblico, ma solo l’individuazione di circostanze senza alcun margine di discrezionalità ma esclusivamente di c.d. discrezionalità “tecnica”, si deve, quindi, ritenere che la tutela giurisdizionale delle ragioni di colui che chieda l’iscrizione all’albo spetti al giudice ordinario (istituzionalmente competente in tutte le controversie su diritti soggettivi ex art. 2907 c.c. e 1 c.p.c.), al quale spetta di provvedere con pienezza di poteri e quindi anche con pronunce di condanna a consentire l’esercizio, in quanto –si faccia attenzione su questo punto– “non gli sono opponibili i noti limiti che la l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, ha posto a salvaguardia dell’attività discrezionale amministrativa” ((In tal senso, Cassazione n. 8633 del 3 ottobre 1996 (in Rep. Foro it., 1996, voce “Professioni intellettuali”, n. 86), n. 9654 del 6 novembre 1996 (ivi, 1996, voce “Procedimento civile”, n. 65), nelle quali si fa riferimento a “pronunce di condanna ad eseguire l’iscrizione”. V. pure Cass., SS.UU., n. 5802 del 25 maggio 1995, in Rep. Foro it., 1995, voce “Professioni intellettuali”, n. 81; Cass., SS.UU., 20 marzo 1991 n. 2994, ivi, 1991, voce id., n. 74; Cass., SS.UU., 23 dicembre 1991 n. 13866, ivi, 1991, voce id., n. 73; Cass., SS.UU., 21 gennaio 1992 n. 682, ivi, 1992, voce id., n. 44; Cass., SS.UU., 20 febbraio 1992 n. 2096, ivi, 1992, voce id., n. 45; Cass., SS.UU., 7 dicembre 1992 n. 12966, ivi, 1992, voce id., nn. 47-49 e 51; Cass., SS.UU., 7 dicembre 1992 n. 12982, ivi, 1992, voce id., nn. 50 e 52; Cass., SS.UU., 15 luglio 1993 n. 7839, ivi, 1993, voce id., n. 65; Cass. 2 maggio 1994 n. 4189 (non massimata).)). In sostanza, il Consiglio dell’Ordine cui venga presentata domanda d’iscrizione deve limitarsi ad accertare l’esistenza nel soggetto dei requisiti prescritti all’uopo dalla legge, e, una volta che li abbia verificati, deve accogliere la domanda ((In questo senso l’iscrizione sarebbe atto dovuto. Cfr., sul punto, Teresi, op. cit., p. 454, e Gotti, op. cit., p. 201 ss. Secondo quest’ultimo autore: “il possesso dei requisiti tassativamente prescritti dalla legge (…) è condizione necessaria e sufficiente per ottenere l’iscrizione la quale deve essere disposta se quei requisiti sussistono e deve essere invece negata nel caso contrario”.)). In mancanza, trattandosi di diritto soggettivo e non di mero interesse legittimo, sarà possibile adire il giudice ordinario, il quale (come evidenziato nelle citate sentenze) può addirittura condannare l’ente professionale ad eseguire l’iscrizione ((Dall’impostazione seguita nel testo e confortata dall’unanime giurisprudenza della Suprema Corte si discosta nettamente l’opinione del Consiglio di Stato (sez. IV, n. 1212 del 20 ottobre 1997, in Foro it., 1998, n. 2, III, 45, ed in Giorn. dir. amm., n. 4, 1998, p. 331 ss., con nota di Daria de Pretis), con riferimento alla sola, “diversa questione relativa all’individuazione del giudice competente a definire la controversia relativa al diniego di ammissione alla sessione riservata di esami per titoli, preordinata all’acquisizione del titolo che, nella fase transitoria abilita all’iscrizione all’albo degli psicologi” ex art. 33 della legge n. 56 del 18 febbraio 1989 (ordinamento della professione di psicologo). In tale ipotesi, secondo il Consiglio di Stato, “la controversia rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, comportando una questione di discrezionalità tecnica e non di accertamento tecnico”. A parte questa “ribellione” alla Suprema Corte, il Consiglio di Stato (in armonia con la Corte di Cassazione) ritiene che nelle ipotesi di controversie professionali che non ricadano nell’applicazione dell’art. 33 cit. (e quindi che non riguardino la sessione speciale di esame di Stato disposta come prima applicazione della legge professionale psicologi) “il problema dell’iscrizione nell’albo professionale (…) è sempre condizionato, nella sua soluzione, al riscontro dell’esistenza dei requisiti rigidamente e tassativamente preordinati dalla legge senza che, sul punto, possano residuare spazi per valutazioni discrezionali della pubblica amministrazione e pertanto, vertendosi in materia di diritti soggettivi, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario” (cfr., su quest’ultimo punto, anche le seguenti decisioni: Cons. Stato, sez. IV, 5 dicembre 1994, n. 983, in Foro it., Rep. 1995, voce “professioni intellettuali, n. 98; 1° febbraio 1995, n. 50, ibid., n. 100; 20 marzo 1995, n. 180, ibid., n. 101; Cons. giust. amm. sic. 30 maggio 1995, n. 199, ibid., n. 102). Ciò vale anche per i ricorsi contro i provvedimenti adottati in via transitoria dal Commissario straordinario nominato ai sensi dell’art. 32 L. 56/ 1989. A mio avviso, tuttavia, dalla terminologia impiegata dal legislatore nel cit. art. 33 non appare giustificato ipotizzare in capo all’ente professionale richiesto della iscrizione un margine di discrezionalità tale da far “affievolire” il diritto soggettivo all’iscrizione (peraltro riconosciuto come tale dallo stesso Consiglio di Stato nelle altre citate ipotesi) in mero interesse legittimo tutelabile, pertanto, innanzi al solo giudice amministrativo.)). § 5. l trasferimento da un albo all’altro. Il trasferimento dell’iscritto da un albo all’altro della stessa professione posto in diversa circoscrizione territoriale deve essere autorizzato, sia in partenza che in arrivo, giacché il professionista è tenuto ad avere la residenza o il domicilio nel territorio di competenza dell’ente professionale che tiene l’albo. Egli pertanto viene cancellato da questo albo ed iscritto nell’altro, previo rinnovo della procedura di accertamento dei requisiti da parte del Consiglio dell’Ordine o Collegio della nuova sede ((Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)). Il trasferimento ad altro albo è vietato, dall’art. 1, comma 2, legge 4 marzo 1991, n. 67, per l’avvocato sottoposto a procedimento penale o a procedimento per l’applicazione di una misura di sicurezza, è operativo anche per l’ipotesi che il trasferimento sia richiesto in relazione a diversa indicazione del proprio domicilio effettivo, dipendendo detto divieto dalla posizione di iscritto all’Albo e non dal dato (residenza o domicilio) al quale detta iscrizione è ricollegata ((Consiglio Nazionale Forense, parere del 3 ottobre 2001, n. 143.)). Quando vengono meno i requisiti e le condizioni prescritti dalle leggi per l’iscrizione e la permanenza nell’albo, lo stesso organo che ha proceduto all’iscrizione (il Consiglio dell’Ordine o Collegio) provvede alla cancellazione dell’iscritto, la quale viene effettuata sulla base di un provvedimento, che non è inquadrabile nelle figure dell’annullamento o della revoca degli atti amministrativi, ma costituisce espressione di un potere (privo di carattere di discrezionalità) conferito ai Consigli dell’ordine in sede di controllo sui requisiti del rapporto costituito con l’iscrizione ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 11 novembre 1991, n. 12016.)). § 6. La cancellazione dall’albo. La cancellazione dall’albo è pronunciata: a) quando viene meno uno dei requisiti per l’iscrizione; b) quando l’iscritto non abbia prestato l’impegno solenne senza giustificato motivo entro sessanta giorni dalla notificazione del provvedimento di iscrizione; c) quando viene accertata la mancanza del requisito dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione; d) per gli avvocati dipendenti di enti pubblici, quando sia cessata l’appartenenza all’ufficio legale dell’ente, salva la possibilità di iscrizione all’albo ordinario, sulla base di apposita richiesta ((Art. 17, co. 9, L. n. 247/2012; nello stesso senso, già l’art. 37 RDL n. 1578/1933.)). La cancellazione dal registro dei praticanti e dall’elenco allegato dei praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo è pronunciata ((Art. 17, commi 10 e 11, L. n. 247/2012.)): a) se il tirocinio è stato interrotto per oltre sei mesi senza giustificato motivo (ad es., salute, maternità, paternità, adozione); b) dopo il rilascio del certificato di compiuta pratica e alla scadenza del termine per l’abilitazione al patrocinio sostitutivo; c) nei casi previsti per la cancellazione dall’albo ordinario, in quanto compatibili. La cancellazione dall’albo, elenco o registro può avvenire su iniziativa dell’interessato, d’ufficio oppure a richiesta del P.M. ((Art. 17, co. 9, L. n. 247/2012; nello stesso senso, già l’art. 37 RDL n. 1578/1933.)). Al terzo estraneo non è quindi accordata la legittimazione ad impugnare il provvedimento, positivo o negativo, concernente la cancellazione non contrasta con gli artt. 3, 24 e 113 Cost., poiché egli non è ritenuto portatore di ragioni da tutelare ((Cassazione Civile, sez. Unite, sentenza del 5 marzo 2008, n. 5904.)), e ciò, peraltro, anche qualora intenda agire nell’interesse dell’iscritto, eventualmente impossibilitato per ragioni di salute ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (rel. Morgese), parere del 26 ottobre 2006, n. 72, il quale ha escluso che la cancellazione dall’albo potesse essere chiesta da coniuge di avvocato in coma irreversibile, giacche “Nel caso di incapacità del soggetto di provvedere alla cura dei propri diritti si dovrà percorrere, per questo come per ogni altro atto, la strada prevista dalla normativa civilistica, ed in particolare dagli artt. 414 e segg. c.c.”.)). La cancellazione su richiesta dell’interessato ed equivale ad un atto di dimissioni (per ragioni di salute, di età, di famiglia, di incompatibilità sopravvenuta, ecc.) mentre quella d’ufficio risponde ad un potere conferito ai consigli dell’ordine in sede di controllo sui requisiti del rapporto costituito con l’iscrizione: essa ha effetti “ex nunc”, quindi non comporta annullamento o revoca dell’atto precedente, e può essere disposta non solo per situazioni sopravvenute, ma anche per fatti preesistenti e noti al momento dell’iscrizione ((Cassazione Civile, sez. Unite, 1 febbraio 2010, n. 2223; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 11 novembre 1991, n. 12016; Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 6 agosto 1990, n. 7939.)). La cancellazione dall’albo può essere sollecitata anche dal P.M. presso il Tribunale nei casi di revoca o interdizione: trattasi di mera facoltà che non concretizza un’impugnativa delle deliberazioni adottate dal consiglio dello ordine locale, nell’ambito della normale revisione degli albi, ma si pone in via autonoma ed alternativa rispetto a quella revisione, sicché l’indicata richiesta: 1) va proposta al consiglio dell’ordine locale, non al consiglio nazionale forense; 2) non è soggetta ad alcun termine dall’eventuale delibera con cui il consiglio locale abbia, in sede di revisione, negato la cancellazione ((Cfr. Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 21 giugno 1976, n. 2321.)). Alla cancellazione si deve procedere di diritto in esecuzione di un provvedimento dell’autorità amministrativa o giudiziaria che ha disposto la revoca dell’abilitazione o l’interdizione dall’esercizio professionale. La cancellazione dall’Albo degli Avvocati, disposta come conseguenza di pena accessoria irrogata all’esito di un giudizio penale, integra una fattispecie autonoma di cancellazione, non di natura disciplinare, che presuppone la sola esistenza di una sentenza definitiva che infligga all’imputato la pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione di avvocato e non impedisce, come tale, l’esercizio dell’azione disciplinare e l’esame del merito del ricorso da parte del C.N.F. ((Cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Borsacchi), sentenza del 14 novembre 2011, n. 171.)). La cancellazione di diritto dall’albo in conseguenza della sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici: E’ manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 42, secondo comma, lett. a), R.D.L. n. 1758 del 1933, sollevata in relazione all’art. 3, Cost., nella parte in cui stabilisce che l’interdizione temporanea dai pubblici uffici comporta, di diritto, la cancellazione dall’Albo degli avvocati, in quanto il provvedimento del Consiglio dell’ordine che la dispone non ha natura disciplinare, ma costituisce effetto della sanzione accessoria applicata nel caso di condanna per determinati reati, che incide sullo ‘status’ del condannato, determinandone l’inidoneità a ricoprire pubblici uffici, privandolo di uno dei requisiti necessari per l’iscrizione al succitato albo, sicchè non è richiamabile, in riferimento a questo provvedimento, il principio di proporzionalità che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 40 e n. 158 del 1990; n. 16 del 1991), rende costituzionalmente illegittime le norme che prevedono l’automatismo della destituzione, in conseguenza di una condanna penale ed in mancanza di una valutazione della condotta nel corso del procedimento disciplinare ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza dell’11 gennaio 2005, n. 308.)). Il provvedimento di cancellazione ha natura giuridica eguale a quello di iscrizione. Salvo il caso di dimissioni, esso è preceduto da un procedimento di accertamento dei motivi che la giustificano. Il provvedimento di cancellazione svolge, come quello di iscrizione, funzioni certative e di pubblicità della mutata situazione giuridica che viene a verificarsi per il già iscritto. Fra le altre cause, ricordiamo che la cancellazione può essere pronunciata per morosità con riguardo al pagamento della tassa d’iscrizione o della quota associative dovute all’ente professionale. Tuttavia non comporta la cancellazione dall’albo la sospensione dall’esercizio professionale per un determinato periodo di tempo a seguito di provvedimenti di natura disciplinare o penale ((Teresi, op. cit., p. 449 ss.)). § 6.1. Il divieto di cancellazione. La cancellazione dall’albo professionale non può essere pronunciata -neppure quando a richiederla sia l’iscritto ((Cfr. Cassazione Civile, sentenza del 15 ottobre 2003, n. 15406.))- ove questi sia sottoposto a procedimento penale o disciplinare ((Art. 17, co. 16, L. n. 247/2012 (nuovo ordinamento forense) (già art. 37 del R.D.L. n. 1578/1933. In arg. cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Mariani Marini), sentenza del 7 maggio 2013, n. 70; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Danovi, rel. Petiziol), sentenza del 29 novembre 2001, n. 251.)). La ratio di tale divieto è duplice: 1) evitare che il consiglio dell’ordine possa far ricorso in via breve alla misura della cancellazione come forma di autotutela nei confronti dell’iscritto il cui comportamento (successivo all’iscrizione) abbia già dato luogo ad un procedimento disciplinare o debba dar luogo ad una contestazione disciplinare (di riflesso a fatto imputato in sede penale) con maggiore ampiezza di difesa per l’inquisito ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 20 ottobre 1993, n. 10382.)); 2) evitare che, proprio attraverso la cancellazione dall’albo, il soggetto possa sottrarsi alla potestà disciplinare dell’Ordine professionale ((Consiglio Nazionale Forense (rel. Salazar), parere del 10 aprile 2013, n. 49; Consiglio Nazionale Forense (rel. Morlino), parere del 10 aprile 2013, n. 44; Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Neri), sentenza del 15 ottobre 2012, n. 151; Consiglio Nazionale Forense (rel. Perfetti), parere del 14 dicembre 2005, n. 97.)). I dubbi di legittimità costituzionale del divieto in parola in relazione agli artt. 3, co. 1, e 13, co. 1, Costituzione, ed al principio di ragionevolezza, nella misura in cui costringerebbe la persona a far parte di una associazione professionale contro la sua volontà e con l’obbligo di pagare i relativi contributi, sono stati ritenuti manifestamente infondati (Cfr. Cassazione Civile, sentenza del 17 settembre 2004, n. 18771.)). La cancellazione dall’albo professionale non può essere pronunciata dal consiglio dell’ordine se non dopo aver sentito l’interessato nelle sue giustificazioni, ma a tal fine non occorre che l’interessato stesso sia convocato davanti al consiglio nel giorno stesso della deliberazione, ma basta il previo invito a presentare le giustificazioni, anche per iscritto ((Cassazione Civile, SS.UU., sentenza del 28 giugno 1976, n. 2421.)). Il termine di quindici giorni previsto dall’art. 37 r.d.l. 1578/33 per il deposito della decisione del C.d.O. in materia d’iscrizione o cancellazione all’albo non ha natura perentoria e la sua inosservanza non determina la inefficacia del provvedimento adottato ma comporta soltanto lo spostamento del termine per l’impugnazione dinanzi al C.N.F. ((Consiglio Nazionale Forense (Pres. Alpa, Rel. Piacci), sentenza del 20 febbraio 2012, n. 15.)). § 7. La reiscrizione all’albo. Il professionista che è stato cancellato dall’albo può esservi reiscritto a sua domanda verificandosi determinate condizioni. Bisogna anzitutto distinguere i motivi in base ai quali la cancellazione è stata disposta. Se, ad es., fu dovuta a motivi di incompatibilità e tali motivi successivamente sono scomparsi, il professionista può chiedere e ottenere la reiscrizione. Come regola generale, alla domanda di reiscrizione fa sempre seguito un procedimento di accertamento vertente su tutti indistintamente i requisiti voluti dalla legge come se si trattasse di procedere all’iscrizione per la prima volta. Se invece la cancellazione è stata determinata da motivi disciplinari, oppure è l’effetto di una sentenza penale, deve intercorrere un certo periodo di tempo dal provvedimento disciplinare e, nel caso di condanna penale, deve essere intervenuta la riabilitazione giudiziale ((V. artt. 178-181 c.p. e art. 683 c.p.p.)). Tuttavia, la riabilitazione non dà, di per se stessa, diritto alla reiscrizione perché il Consiglio dell’Ordine o Collegio può valutare discrezionalmente i comportamenti precedenti e successivi alla cancellazione ((Nell’ordinamento forense il professionista radiato o cancellato per sanzioni disciplinari può chiedere la reiscrizione solamente dopo cinque anni dal provvedimento e dopo sei anni se fu condannato per delitto commesso con abuso di prestazione d’opera professionale o per delitto contro le pubbliche amministrazioni, la fede pubblica o il patrimonio: art. 47 legge forense; negli ordinamenti delle professioni di dottore commercialista e ragioniere la riammissione nell’albo dei professionisti radiati può avvenire dopo sei anni dal provvedimento di radiazione, previa riabilitazione se intervenuta condanna penale, e, in ogni caso, deve risultare che il radiato tenne dopo la radiazione irreprensibile condotta: art. 45.)) ((Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 211 ss.)). L’avvenuta riabilitazione dell’avvocato in sede penale non comporta un’automatica possibilità di reiscrizione all’albo, per la quale deve essere compiuta una autonoma valutazione della gravità, della natura e del numero degli illeciti e della complessiva durata della condotta illecita, al fine di verificare se la reiscrizione non comporti comunque conseguenze negative per la stima e la fiducia di cui deve poter godere l’ordine professionale, in tutti i suoi componenti ((Consiglio Nazionale Forense (pres. Ricciardi, rel. Diego), sentenza del 31 marzo 1995, n. 44.)). La valutazione della condotta irreprensibile (già specchiatissima e illibata) Il requisito della condotta specchiatissima ed illibata (ora, “irreprensibile”) del professionista che chiede l’iscrizione o la reiscrizione all’albo deve essere valutato singolarmente, caso per caso, con la necessaria prudenza valutando non solo l’integrità personale dell’aspirante, ma anche l’idoneità a svolgere sotto il profilo morale la professione. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180 http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf 180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933 La reiscrizione all’albo del professionista cancellato in via disciplinare Il professionista cancellato disciplinarmente dall’Albo può domandare la reiscrizione solo dopo che sia trascorso un periodo di almeno 5 anni dalla esecuzione del provvedimento di cancellazione adottato dal COA, fornendo elementi che diano contezza che nel periodo trascorso il comportamento del richiedente sia stato improntato al recupero dei requisiti previsti dall’art. 17 RDL n. 1578/1933 (ora art. 17 L. n. 247/2012). Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180 http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf 180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933, 52 L. n. 247/2012, 62 L. n. 247/2012 NOTA: Il principio di cui in massima deve ora riferirsi alla radiazione, non essendo più prevista dalla nuova legge professionale la cancellazione come sanzione disciplinare (cfr. art. 52 L. n. 247/2012), giusta il disposto dell’art. 62, co. 10, L. n. 247/2012 secondo cui “Il professionista radiato può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine”. La reiscrizione all’albo del professionista cancellato in via disciplinare Il professionista cancellato disciplinarmente dall’Albo può domandare la reiscrizione solo dopo che sia trascorso un periodo di almeno 5 anni dalla esecuzione del provvedimento di cancellazione adottato dal COA, ma ai fini del predetto quinquennio non può essere computato l’eventuale periodo trascorso in esecuzione del provvedimento cautelare di sospensione, poichè nessun rilievo può avere il tempo decorso in esecuzione di un provvedimento cautelare di sospensione ai fini della rivalutazione della sussistenza del requisito della condotta specchiatissima ed illibata (ora irreprensibile). Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180 http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf 180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933, 52 L. n. 247/2012, 62 L. n. 247/2012 NOTA: Il principio di cui in massima deve ora riferirsi alla radiazione, non essendo più prevista dalla nuova legge professionale la cancellazione come sanzione disciplinare (cfr. art. 52 L. n. 247/2012), giusta il disposto dell’art. 62, co. 10, L. n. 247/2012 secondo cui “Il professionista radiato può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine”. La sentenza di riabilitazione non è di per sè sufficiente alla reiscrizione all’albo del professionista cancellato in via disciplinare Il professionista cancellato disciplinarmente dall’Albo può domandare la reiscrizione solo dopo che sia trascorso un periodo di almeno 5 anni dalla esecuzione del provvedimento di cancellazione adottato dal COA, fornendo elementi che diano contezza che nel periodo trascorso il comportamento del richiedente sia stato improntato al recupero dei requisiti previsti dall’art. 17 RDL n. 1578/1933 (ora art. 17 L. n. 247/2012), non essendo all’uopo sufficiente l’intervento di una sentenza di riabilitazione, la quale deve infatti essere associata ad ulteriori elementi da valutarsi autonomamente. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Morlino), sentenza del 17 ottobre 2013, n. 180 http://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2013-180.pdf 180/2013, 17 L. n. 247/2012, 17 RDL n. 1578/1933, 52 L. n. 247/2012, 62 L. n. 247/2012 NOTA: In senso conforme, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Picchioni), sentenza del 9 settembre 2011, n. 137, secondo cui “la riabilitazione, pur estinguendo le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, non impedisce l’operatività delle ulteriori conseguenze prodottesi autonomamente sul piano amministrativo, quali la valutazione dei requisiti soggettivi occorrenti per l’iscrizione o quelle di tipo disciplinare, né vale ad escludere la storicità dei fatti e la loro negativa valenza in ordine alla considerazione dell’affidabilità del soggetto in relazione alla previsione della sua inclinazione ad un corretto svolgimento della professione forense”. Il principio di cui in massima deve ora riferirsi alla radiazione, non essendo più prevista dalla nuova legge professionale la cancellazione come sanzione disciplinare (cfr. art. 52 L. n. 247/2012), giusta il disposto dell’art. 62, co. 10, L. n. 247/2012 secondo cui “Il professionista radiato può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine”.